Tra le pronunce della Suprema Corte dell’ultimo anno, con la sentenza Cass. civ., sez. III, 11.12.2018, n. 31950, Pres. Dott. Travaglino, relatore Dott. Cigna, si è colta l’occasione per ribadire quale sia la corretta applicazione del principio dell’onere della prova con riferimento, questa volta, al danno cosiddetto “parentale” o “da rimbalzo”, ossia il danno iure proprio subito dallo stretto congiunto di una vittima (o di una persona rimasta macro-lesa) che ha visto ingiustamente reciso il proprio rapporto affettivo con la stessa intercorrente.
Con pronuncia del 27.04.2016 (in parziale riforma della sentenza di primo grado del Tribunale di Matera) la Corte d’Appello di Potenza aveva deciso in merito ad un sinistro stradale nel quale aveva perso la vita la Sig.ra M.L., madre di famiglia.
Le parti coinvolte nel processo erano – da un lato – il marito, il padre, i fratelli e i figli della signora deceduta, che avevano agito in giudizio chiedendo il risarcimento del danno iure proprio e cadauno subito per la perdita dell’amato parente, e – dall’altro, quale controparte – una nota compagnia assicurativa designata a costituirsi per tutelare il Fondo di garanzia per le Vittime della Strada (essendo sprovvisto di assicurazione l’altro veicolo coinvolto nel sinistro).
All’esito dei primi due gradi di giudizio i Giudici del merito avevano individuato una responsabilità dell’altro veicolo coinvolto nel sinistro, nonché un collegamento eziologico tra questa e l’exitus della donna. Così, una volta configurata astrattamente la potenziale risarcibilità di danni comportati ai parenti, il Tribunale di Matera, prima, e la Corte di Appello di Potenza, poi, avevano proceduto ad approfondire uno ad uno ogni singolo rapporto inter-familiare, con l’intento di scrutarne l’effettiva entità, e soppesare, di conseguenza, il reale pregiudizio subito da ciascun parente.
E qui, però, la “sorpresa”.
All’esito di tale valutazione, infatti, mentre il padre, i figli ed i fratelli della vittima avevano visto riconosciuto il loro forte legame affettivo intercorrente con la donna, e quindi si erano visti accogliere le loro domande risarcitorie, il marito della stessa, invece, non era riuscito nel medesimo intento. Il Tribunale e la Corte basilicatesi, difatti, avevano rigettato la sua richiesta in virtù della ritenuta assenza (rectius, della mancanza di prova) di un forte e vivo sentimento amoroso, constatata sulla base dell’elemento fattuale – pacifico nel processo – della relazione extraconiugale che lo stesso intratteneva da tempo con un’altra donna, e dalla quale era nato anche un figlio giusto tre mesi prima della morte della moglie.
Avverso detta sentenza proponeva ricorso per Cassazione il coniuge fedifrago, denunciando (ex art. 360, comma 3 c.p.c.) un’avvenuta violazione e falsa applicazione degli artt. 2059, 2729, 2697 e 143 c.c. e dell’art. 116 c.p.c., e, più in particolare, dolendosi di come “la Corte territoriale, sulla sola base di una relazione extraconiugale e della conseguente nascita di un figlio naturale, abbia ritenuto insussistente il legame affettivo tra i coniugi al momento dell’incidente”, quando, invece – asserisce nel proprio ricorso il ricorrente – “siffatti elementi (relazione extraconiugale e nascita di un figlio naturale) non sono elementi univoci rispetto all’insussistenza delle sofferenze morali subite in conseguenza della morte del coniuge”; e quindi “la relazione sentimentale extraconiugale non può costituire grave e preciso elemento utile a ritenere cancellato totalmente il legame affettivo esistente con il coniuge deceduto e negare qualsiasi forma di ristoro del pregiudizio morale”.
La Suprema Corte rigettava, però, il ricorso, confermando la statuizione della Corte di Appello potentina.
Secondo l’organo nomofilattico, infatti, la Corte territoriale non era incappata in alcuna violazione o falsa applicazione di legge, ma, anzi, in tema di danno da lesione del rapporto parentale aveva dato prova semmai di conoscere appieno l’orientamento giurisprudenziale inerente l’esatta applicazione dei rispettivi oneri della prova in capo alle parti, su cui attualmente nella magistratura vi è fermezza ed uniformità di pensiero.
Magistralmente la Suprema Corte ha quindi ripercorso i passi logico-argomentativi seguiti dalla Corte territoriale, asseverandoli, e seguendo pedissequamente il filo del discorso in modo talmente lineare e cadenzato da consentire addirittura in questa sede di riproporlo per capi numerati:
1 – “Correttamente la Corte territoriale ha rilevato che, in termini generali, il fatto illecito costituito dalla uccisione di uno stretto congiunto appartenente al ristretto nucleo familiare (genitore, coniuge, fratello) dà luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consistente nella sofferenza morale che solitamente si accompagna alla morte dì una persona cara e nella perdita del rapporto parentale con conseguente lesione del diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che ordinariamente caratterizza la vita familiare […].
2 – Nella normalità dei casi, pertanto, in virtù di detta presunzione, il soggetto danneggiato non ha l’onere di provare di avere effettivamente subito il dedotto danno non patrimoniale.
3 – Siffatta presunzione semplice può tuttavia, come tale, essere superata da elementi di segno contrario, quali la separazione legale o (come nel caso di specie) l’esistenza di una relazione extraconiugale con conseguente nascita di un figlio tre mesi prima della morte del coniuge.
4 – Detti elementi non comportano, di per sé, l’insussistenza del danno non patrimoniale in capo al coniuge superstite, ma impongono a quest’ultimo, in base agli ordinari criteri di ripartizione dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c. (essendo stata, come detto, superata la presunzione), di provare di avere effettivamente subito, per la persistenza del vincolo affettivo, il domandato danno non patrimoniale.
5 – Nella specie la Corte territoriale, con valutazione in fatto (come tale non sindacabile in sede di legittimità), ha ritenuto che il R. non avesse fornito detta prova e, correttamente, ha rigettato la domanda risarcitoria”.
Si tratta di un iter logico-giuridico, quello offerto dagli ermellini, indubbiamente lineare, fluido e privo di intoppi.
La Corte ha tratto spunto dal principio dell’onere della prova di cui al dettato normativo dell’art. 2697 c.c., per cui “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”, e da lì è partita per affermare come questo principio possa, a determinate condizioni (costituenti una cd. presunzione semplice), essere vinto, o meglio, essere invertito, traslando il suddetto onere in capo alla controparte. Ma attenzione, però – precisa la Corte – al contempo anche altri elementi fattuali (nel caso di specie, la relazione extraconiugale) possono incidere su tale presunzione; e qualora questi siano in grado di far cadere l’intero “castello di carte” presuntivo, ciò necessariamente farà ricadere la Spada di Damocle dell’onere della prova su chi l’aveva originariamente, ossia su “chi vuol far valere un diritto in giudizio”, come recita l’articolo 2697 c.c. sopracitato.
Sicché nel caso di specie, non avendo il marito – e cioè il soggetto su cui, ad ultimum, era ricaduto l’onere probatorio – dedotto alcun elemento a conforto della propria domanda risarcitoria, in giudizio la sua domanda si era rivelata non supportata da sufficienti elementi probatori, e, per questo, non meritevole di accoglimento alcuno.
Sicuramente tale decisione – mi sia consentito – seppur nel merito potrà anche non trovare tutti d’accordo sull’idoneità della singola circostanza concreta (in questo caso, appunto, una relazione extraconiugale) a demolire tutto l’impianto presuntivo precedentemente costruito, e quindi a mettere realmente in dubbio la sussistenza di un valido rapporto inter-personale, certamente in diritto si presenta come valida, coerentemente argomentata, frutto di una indiscutibile applicazione del dettato legislativo, nonché da sottolinearsi per logicità e chiarezza espositiva.