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Lucente

Colpita da ictus mentre faceva jogging, muore in ospedale: la sentenza del Tribunale civile di Trani rende Giustizia alla famiglia

By Casi

La mattina del 22.05.14 una madre di famiglia veniva colta da malore durante la buona abitudine sportiva del fit walking (o camminata veloce) che praticava ogni settimana con un’amica. La signora, ritrovata in coma, veniva trasportata al Pronto Soccorso di zona, e da lì veniva trasferita in “codice rosso molto critico” e per “sospetta emorragia cerebrale” al reparto di rianimazione di un importante polo ospedaliero afferente a un Ente ospedaliero regionale pugliese.

Ivi la paziente, con diagnosi di “ictus ischemico cerebrale”, veniva sottoposta a diversi esami strumentali. Tra questi, si prevedeva (invero già con qualche ora di ritardo) l’esecuzione di una risonanza magnetica dell’encefalo affiancata dalla singolare dicitura “appena possibile”, che nei fatti veniva eseguita, addirittura, dopo due intere giornate (il 24.05.14) e solo all’esito di una nuova prescrizione del 24.05.14, in sostituzione delle precedente rimasta vana, che qualificava tale esame come “urgente”.

Inoltre, nonostante presso il reparto di neurologia – ove nel mentre la paziente era stata trasferita – fosse individuato un peggioramento clinico, non veniva previsto alcun monitoraggio e controllo per ben diciotto ore, e non veniva prescritta idonea cura farmacologica, così trascurando la possibilità, nota nella letteratura medica, che nelle ore successive all’evento ictale acuto possa svilupparsi in capo al paziente un edema cerebrale.

La mattina del 25.05.14, infatti, la paziente veniva rinvenuta in uno stato ormai critico e non più recuperabile, sicché, ritenuta non più eligibile alla terapia trombolitica e a un intervento chirurgico di trombectomia, dopo alcuni giorni di attesa in uno stadio pre-terminale e pre-agonico in data 31.05.14 la stessa decedeva.

A fronte di quanto accapitato, i familiari della paziente si rivolgevano all’Avv. Luigi Lucente del Foro di Milano per chiedere la tutela dei propri diritti e perché fosse fatta Giustizia alla compianta moglie e madre.

Ottenuta dalla famiglia valutazione specialistica e medico-legale a firma di Professionisti sulla piazza di Milano, l’Avv. Luigi Lucente avanzava formale missiva di richiesta del risarcimento del danno nei confronti della struttura nosocomiale e, parimenti, del medico di reparto che aveva avuta in cura la paziente.

In assenza di concreti riscontri, veniva esperito un tentativo di mediazione avanti all’Organismo di Mediazione Forense del Foro di Trani – condizione di procedibilità ex art. 5 D.Lgs 28/2010 – che tuttavia mostrava del pari esito negativo stante la mancata adesione di entrambi i soggetti invitati.

Di conseguenza veniva introitato un procedimento civile innanzi al Tribunale di Trani, a cui veniva assegnato R.G. n. 5099/2016.

Mediante difese autonome e distinte si costituivano in giudizio sia il nosocomio e sia il sanitario convenuti.

Colà, al cospetto di una combattuta fase costitutiva e istruttoria, l’Organo Giudicante disponeva, come richiesto dalla Difesa dei parenti della vittima, una Consulenza medico-legale d’Ufficio (CTU) con individuazione di periti al di fuori del distretto del Tribunale.

L’esito di tale attività tecnico-consulenziale conduceva, tuttavia, a un approdo ambivalente: da un lato il collegio peritale concludeva che “le attività terapeutiche poste in atto risultano sostanzialmente adeguate e tempestive”, ma, dall’altro, nel corpo del loro elaborato i CTU evidenziavano come l’omessa esecuzione della risonanza magnetica avesse “privato i sanitari di informazioni utili”, e ammettevano che vi fosse un “vuoto di annotazioni sul diario clinico sia medico che infermieristico della durata di circa 18 ore”. Difatti, incomprensibilmente costoro parevano giustificare il tardivo approfondimento strumentale alla stregua di “carenze strutturali” del nosocomio (dando seguito all’indimostrata tesi del sanitario secondo cui il macchinario non avrebbe consentito di eseguire la risonanza magnetica su pazienti intubati come la signora) e, sulla scorta di ciò, di una non meglio definita “impossibilità” dei sanitari di svolgere la propria prestazione, pur stigmatizzando al contempo una “mancanza di organizzazione/attrezzatura idonea” del nosocomio e l’assenza di protocolli condivisi per il trasferimento dei pazienti critici presso altre strutture adeguate. E quanto, invece, all’omesso monitoraggio e controllo durato per circa diciotto ore, gli stessi sostenevano che, pur non risultando traccia alcuna in cartella clinica di tale attività, a loro avviso la paziente doveva ritenersi essere stata “verosimilmente” monitorata e controllata.

A fronte di ciò, nell’interesse dei propri Assistiti l’Avv. Luigi Lucente depositava in Tribunale una istanza finalizzata a ottenere chiarimenti specifici dai CTU e la modifica delle relative conclusioni. Il Giudice accoglieva tale richiesta e fissava all’uopo udienza al 04.07.2022, ove i CTU, tuttavia, nonostante le denunciate criticità e incoerenze non si dimostravano disponibili a modificare il loro intendimento.

Senza rassegnazione, l’Avv. Lucente avanzava dunque nuova istanza al Giudicante, chiedendo il suo diretto intervento anche nella veste di peritus peritorum, e rimarcando l’esistenza, nei meandri dell’approfondimento peritale d’Ufficio, di elementi istruttori discordi rispetto alle relative conclusioni e che, se opportunamente reinterpretati, avrebbero invece consentito di addivenire a una pronuncia di condanna dell’ospedale e del medico. Poneva in risalto, infatti, come non potesse ex se presumersi un monitoraggio della paziente, in assenza di prove in tal senso, e come, ancor meno, potessero scaricarsi sulla paziente le conseguenze del grave ritardo diagnostico e del deficit strutturale e organizzativo comunque riconosciuti dai CTU.

Ritenuta la causa matura per la decisione e letti gli atti conclusivi del procedimento, in data 20.11.23 il Tribunale di Trani pubblicava la sentenza n. 1687/2023 con cui affermava di condividere integralmente le argomentazioni della Difesa dei familiari della vittima, reinterpretava in modo conforme a diritto le risultanze istruttorie affioranti dalle operazioni peritali, e ritenendo responsabili del decesso della paziente la struttura ospedaliera e il sanitario convenuti, li condannava al risarcimento del relativo danno.

Segnatamente, nel provvedimento decisorio si rimproverava ai CTU di aver “singolarmente ipotizzato, in maniera del tutto aprioristica ed indimostrata” l’utilizzo di sistemi di monitoraggio della paziente. Inoltre, con riguardo al tardivo espletamento di una risonanza magnetica statuiva che, in effetti, non poteva rinnegarsi “la sussistenza …di una grave carenza di diligenza e di imperizia… sia da parte della struttura per evidente carenza di adeguata strumentazione, sia da parte del medico che rilevò l’urgenza del detto approfondimento senza curarsi di acclarare che il detto prescritto esame venisse effettivamente effettuato con la rilevata urgenza o che, comunque, venissero adottate misure alternative con carattere di urgenza”. A parer del Giudicante, difatti, in ogni caso non poteva giustificarsi la gestione del caso clinico così come operata dai convenuti. E ciò anche in considerazione del fatto che, a ben vedere e anche a tutto voler concedere, la paziente veniva “persino estubata …già alle ore 13.00 del 23.5.2014” senza che però alcuna risonanza venisse disposta sino al giorno successivo.

Questi elementi hanno impedito – continua il Magistrato, sulla scorta della monografia peritale – “la percorribilità di un eventuale percorso trombolitico e di endoarteriectomia”, precludendo “molto verosimilmente di pervenire ad una diagnosi più tempestiva del severo problema ischemico in atto”. Veniva dunque perpetrata una condotta omissiva che poteva ammettersi “in assenza di altri fattori alternativi… causa dell’evento lesivo” dacché “la condotta doverosa, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento stesso”.

Conformemente a un solido orientamento giurisprudenziale, la provocazione dell’exitus della paziente veniva ritenuta idonea ad arrecare iure proprio in capo ai familiari un danno non patrimoniale da commisurarsi sulla scorta dell’effettivo legame affettivo, e che vede, quale indice presuntivo, la sussistenza di vincoli di parentela o di coniugio, nonché di una stabile convivenza. Sicché, avendo la Difesa dei familiari fornito ampia deduzione per tabulas (con documentazione anagrafica, fotografica, e non solo) di tale legame, il Tribunale riteneva provato il relativo pregiudizio e, d’effetto, risarciva al marito e ai tre figli quanto di spettanza, oltre rivalutazione monetaria, interessi e il rimborso delle spese peritali, processuali e legali sostenute dagli stessi per ottenere Giustizia. Infine, al marito veniva riconosciuto anche l’integrale rimborso delle spese funerarie sostenute per l’esequie della consorte.

A chiosa di oltre sette anni di procedimento, dunque, il Tribunale di Trani perveniva all’integrale riconoscimento delle ragioni della famiglia della paziente scomparsa, facendo, finalmente, Giustizia.

Il danneggiato rivoltosi a istituti privati per prestazioni coperte dal S.S.N. perde in tutto o in parte il diritto al risarcimento per i relativi costi? Sulla querelle è tornata la Suprema Corte di Cassazione

By Pronunce

Recentemente la Corte di legittimità, con la sentenza Cass. Civ, Sez. III, 23.10.2023, n. 29308, si è espressa sul tema della risarcibilità dei costi (o dei maggiori costi) sostenuti dal danneggiato che, pur potendo beneficiare delle prestazioni gratuite o convenzionate fornite dal S.S.N., ha preferito rivolgersi a soggetti in regime privatistico.

Secondo taluna dottrina e giurisprudenza tale atteggiamento costituirebbe a tutti gli effetti un ‘aggravamento del danno’: nella misura in cui il danneggiato avrebbe potuto evitare di aggravare il pregiudizio, rivolgendosi per l’appunto al regime convenzionato di tipo pubblico, costui deve ritenersi unico responsabile di tali conseguenze dannose, e, d’effetto, unico tenuto a subirne i relativi costi. Secondo invece una interpretazione di opposto avviso, la condotta del danneggiato non costituirebbe in tal senso un fatto imputabile alla stregua di un comportamento contrario all’ordinaria diligenza, e pertanto costui potrebbe liberamente rivolgersi indistintamente a enti pubblici, convenzionati o privati, purché idonei e ferma rigorosa prova degli esborsi concretamente sostenuti.

Ebbene, con l’arresto in commento la Suprema Corte conferma di propendere per il secondo degli esposti orientamenti, riconoscendo la risarcibilità di tali spese contratte dal danneggiato per attività resa in regime non convenzionato.

Nel caso specifico al vaglio della Corte di Cassazione il danneggiato – vittima di un sinistro stradale – censurava la sentenza della Corte di Appello di Milano per aver confermato la liquidazione delle spese mediche, già disposta dal Tribunale del capoluogo lombardo, pari al minor importo di € 10.634,74: decisione assunta avendo riguardo non al costo effettivo delle prestazioni terapeutiche e riabilitative fruite presso le strutture private, bensì al minore esborso che costui avrebbe potuto affrontare se si fosse indirizzato verso strutture pubbliche e/o convenzionate. Contestava di essere invece legittimato a rivolgersi a soggetti distinti da quelli pubblici, trattandosi di una “scelta personale quella di affidarsi ad un servizio privato piuttosto che al SSN”.

La Corte nomofilattica ha accolto il motivo di doglianza del ricorrente danneggiato, affermando che “l’obbligo di rivolgersi a struttura sanitaria pubblica anziché privata risulta invero privo di base normativa e logica (…) ai sensi dell’art. 1227 c.c. … La sentenza impugnata, pertanto, merita censura, nella parte in cui istituisce una sorta di automatismo – in relazione alla domanda di rimborso delle spese mediche – tra la scelta di rivolgersi a una struttura sanitaria privata e l’applicazione dell’art. 1227 c.c.”.

In effetti, nei suoi due commit la norma citata delegittima l’atteggiamento del danneggiato, che, rispettivamente, concorre a cagionare il danno oppure non ne impedisce l’aggravamento, solo qualora questo risulti il frutto, nel primo caso, di un comportamento colposo, e, nel secondo, di una condotta contraria all’ordinaria diligenza. D’effetto, anche volendo qualificare a titolo di lucro cessante il danno patrimoniale emergente dalla scelta del danneggiato, parrebbe comunque arduo additare tale decisione come una condotta contraria alla diligenza o, fin, come colposa. Anche se, viceversa, appare vero che in linea teorica non possa escludersi come, oltre certi limiti, un atteggiamento di sprezzante disattenzione verso i riverberi economici delle proprie scelte potrebbe anche integrare tale fattispecie. E in questo senso ad avviso dello scrivente l’assunto di matrice giurisprudenziale deve porsi come un principio generale e astratto che, dovendo sempre essere calato nel caso specifico, potrebbe anche trovare smentita all’esito delle risultanze del singolo caso.

Ad ogni modo, già in tempi passati la Suprema Corte di Cassazione si era espressa sul punto, con arresti a ben vedere sovrapponibili – anche se non sempre lineari – rispetto a quello in commento, e peraltro arrivando a estendere la legittimità di tali pretese risarcitorie fin alle spese sostenute presso strutture estere (Ex multis, Cass. Civ., Sez. III, 15.09.2023, n. 26641, Cass. Civ., Sez. VI, 13.12.2021, n. 39504, Cass. Civ. Sez. III, 28.02.2019, n. 5801 e Cass. Civ., Sez. III, 27.10.2015, n. 21782). E d’altronde, tali decisioni paiono mescolarsi coerentemente anche con i recenti approdi della Giustizia amministrativa (leggasi Consiglio di Stato, Sez. III, 26.04.2023, n. 4191), ove di recente è stato riaffermato il principio di libertà dell’utente nella scelta della struttura di fiducia per l’assistenza sanitaria, riconoscendosi la qualità di erogatori delle prestazioni sanitarie a tutti i soggetti, pubblici e privati, titolari di rapporti “fondati sul criterio dell’accreditamento delle istituzioni, sulla modalità di pagamento a prestazione e sull’adozione del sistema di verifica e revisione della qualità delle attività svolte e delle prestazioni erogate”, così come scaturente dalla riforma del S.S.N. di cui al D.Lgs 30.12.92 n. 502.

La pronuncia in commento della Sezione III della Suprema Corte, pertanto, costituisce un nuovo e importante tassello per tale orientamento perseguito dal Giudice delle leggi (a cui si oppongono ad esempio Cass. Civ, Sez. III, 29.04.2015, n. 8693, oppure, nel merito, Trib. Patti, Sez. I, 12.01.2021, n. 18, Trib. Novara, 07.01.2019, n. 24, C.d.A. Roma, Sez. III, 30.05.2018, n. 3653), che si candida, quindi, a maggioritario, trovando in questa sentenza una fonte di consolidamento.

Il Tribunale di Monza condanna lo studio dentistico e il dentista a pagare oltre € 100.000,00, comminando anche una sanzione punitiva per aver questi resistito in modo temerario alle legittime pretese del paziente

By Casi

Nell’ottobre 2009 il paziente, all’età di 36 anni, si rivolgeva a uno studio dentistico in ragione di una diffusa sensibilità dei denti posteriori agli stimoli termici e dunque di una estesa sensazione algica. Eseguita una ortopantomografia (panoramica dentale), ivi veniva preventivata la devitalizzazione pluricanalare di cinque elementi, la duplice infissione implantare all’emiarcata inferiore destra e la protesizzazione in ceramica di quattro elementi superiori a destra, cinque a sinistra, e quattro corone nell’emiarcate inferiori destra e sinistra. Nel corso del trattamento, tuttavia, la vicenda sanitaria del paziente evolveva in senso peggiorativo sino a raggiungere i connotati di un vero e proprio calvario: di volta in volta veniva prevista l’esecuzione di altri e distinti interventi; il rapporto con lo Studio si protraeva per oltre nove lunghi anni; si contavano addirittura oltre 150 incontri; il paziente medio tempore versava allo studio l’importo pari a € 16.500,00; eppure non poteva constatarsi alcun complessivo miglioramento clinico, bensì un costante peggioramento delle proprie condizioni di salute.

Nel 2018 il paziente si decideva così a interrompere le cure e sottoponeva la sua vicenda a un noto Medico Chirurgo Odontostomatologo e Consulente iscritto all’Albo del Tribunale di Milano, il quale, all’esito di un esame approfondito della vicenda e della documentazione disponibile, riscontrava l’esecuzione di molteplici trattamenti ingiustificati e inefficaci, fra cui l’avulsione immotivata dei denti dell’arcata superiore, terapie canalari malcondotte, riabilitazioni fallite, e devitalizzazioni e ricostruzioni non necessarie.

Il paziente, dunque, si rivolgeva e conferiva mandato allo Studio Legale Lucente per far valere i propri diritti. La sua posizione veniva istruita dall’Avv. Luigi Lucente mediante la raccolta e l’organizzazione dell’intero compendio documentale, e anche per il tramite di testimoni. Veniva così impostata la strategia difensiva, inquadrata la fattispecie giuridica sottesa al caso e valorizzati i postumi di carattere patrimoniale e non patrimoniale emergenti.

Lo Studio Legale intraprendeva anche un tentativo stragiudiziale finalizzato al componimento bonario della vertenza, tuttavia non coltivato dai soggetti contattati.

Veniva, altresì, incardinato il relativo procedimento di mediazione – condizione di procedibilità in materia sanitaria ex D.Lgs. 28/2010 – senza tuttavia trovare disponibilità avversaria in chiave conciliativa.

Veniva quindi instaurato il giudizio civile innanzi al competente Tribunale di Monza. I soggetti citati erano lo studio dentistico (la società in accomandita semplice e il socio accomandatario) e il medico che in principalità aveva seguito il paziente. Avverso costoro veniva formulata domanda di risarcimento, in solido, per il danno non patrimoniale da lesione dell’integrità psico-fisica patito dal paziente, a connotazione sia permanente e sia temporanea, oltreché il danno patrimoniale futuro per le spese mediche che si sarebbero rese necessarie. Nei confronti dello studio dentistico, inoltre, veniva spiegata domanda di restituzione dei compensi indebitamente versati, stante l’inadempiente prestazione sanitaria resa. Lo Studio legale avanzava, altresì, domanda di rimborso di spese legali, peritali e processuali, nonché richiesta di voler sanzionare l’indisponibilità avversaria a una risoluzione amichevole della vicenda con la condanna a una somma aggiuntiva per resistenza temeraria ex art. 96 u.c. c.p.c.

Lo Studio legale Lucente seguiva il paziente in tutte le successive fasi della causa civile. Nel corso del procedimento veniva disposta Consulenza Tecnica d’Ufficio, con nomina di un Collegio peritale composto da uno Specialista in medicina legale e delle assicurazioni e uno Specialista in odontostomatologia. Alla conclusione dell’indagine medica i Periti dell’Ufficio riconoscevano ingenti responsabilità in capo a tutti i soggetti convenuti. Costoro individuavano un danno da lesione alla integrità psico-fisica a carattere permanente nella percentuale del 9%, contestato dall’Avv. Luigi Lucente giacché ritenuto incongruo riguardo all’effettivo pregiudizio patito rispetto alla relativa voce di cui alla perizia di parte attorea e pari alla maggior misura del 15%: come si preciserà infra il Tribunale avrebbe poi assecondato la prospettazione della Difesa attorea su questo importante punto riconoscendo un danno da invalidità permanente in maggior misura rispetto a quella indicata dai CTU.

In data 31.05.2023 veniva pubblicata la SENTENZA N. 1295/2023 del Tribunale di Monza di integrale accoglimento delle pretese risarcitorie del paziente e condanna di tutti i convenuti al risarcimento del danno provocato.

Nel merito, si legge nella parte motiva del provvedimento che: “In quanto agli errori professionali, il collegio peritale ha rilevato terapie canalari malcondotte con insufficiente riempimento canalare, e conseguente formazione di lesioni endodontiche periapicali, immotivata avulsione di tutti i denti dell’arcata superiore e all’arcata inferiore dei primi molari destro e sinistro, del terzo molare destro, fallimento della riabilitazione eseguita” con “deficit sia in fase di pianificazione terapeutica che di realizzazione delle cure”. Il Tribunale di Monza ha riconosciuto “che vi siano stati inadempimenti colposi imputabili ai convenuti” e ha statuito: “Al paziente sono stati tolti complessivamente sedici denti e, quattordici di questi, del tutto immotivatamente rendendo il giovane paziente totalmente edentulo all’arcata superiore. Sono stati rimossi denti sani che avrebbero potuto fare valido pilastro per impianti”.

Quanto all’approccio terapeutico e alle modalità di gestione e indirizzo del paziente, il Giudicante ha reso una divagazione fuor di metafora dal piglio assai severo: “E’ opportuno ricordare che il paziente non ha solitamente le conoscenze che gli permettano di sapere se un dente sia sano oppure richieda una terapia endodontica o una estrazione e deve necessariamente affidarsi alle competenze ed all’onestà del dentista… Purtroppo nel campo odontoiatrico vi è un interesse economico, in capo ai medici – non così pervasivo in altri settori -, in quanto più estrazioni e terapie canalari sono eseguite, più aumentano i guadagni sia per il costo delle terapie in sé sia per il costo delle conseguenti soluzioni protesiche”.

Quanto al ristoro del pregiudizio patito dal paziente, il Tribunale riconosceva anzitutto un copioso “periodo di inabilità temporanea” pari a “giorni 60 al 50%, 90 al 25% e 120 al 10%, oltre a quota di inabilità temporanea legata alle cure future … pari a 15 gg al 50%, 20 al 25% e 20 al 10% relativo ai disagi e alle sofferenze”, con applicazione del massimo valore tabellare.

Circa il pregiudizio all’integrità psico-fisica a carattere permanente subito dal paziente, il Tribunale premetteva che “Il collegio ha sommato i punti di invalidità attribuiti singolarmente a ciascun dente ed ha ridotto il punteggio a motivo della possibilità di una riabilitazione protesica” concludendo per un danno permanente del 9%, per poi statuire: “Il Tribunale tuttavia ritiene che la indicazione del punto di 9% non consideri tutti gli aspetti del danno e che si debba riconoscere una lesione permanente nella percentuale del 14%”. Infatti, il Collegio peritale “ha errato nell’interpretazione della norma, applicando una riduzione nella misura di 1/3” in quanto “Appare interpretazione preferibile… provvedere ad un pieno risarcimento di lesioni protesizzabili particolarmente nei casi, come quello oggi in esame, di un soggetto di giovane età e di dentatura sana. Ritenere che una riduzione che debba necessariamente essere applicata ogniqualvolta sia possibile applicare una protesi comporterebbe ridurre i casi di risarcimento “pieno” a marginali ipotesi di gravissima compromissione ossea, essendo altrimenti sempre possibile l’applicazione di una protesi”.

Inoltre, con riferimento all’azione di ripetizione dei compensi versati allo studio dentistico, il Tribunale ha ritenuto l’iniziativa del paziente meritevole di accoglimento, e “provato l’effettivo pagamento di corrispettivi per € 16.500,00”. Di questi, però, “€ 5.190,00 rappresentano il controvalore di opere utilmente prestate” – si legge in sentenza – sicché al paziente veniva riconosciuto in restituzione il residuo importo pari a € 11.310,00.

In ordine, poi, al danno patrimoniale per spese mediche future, l’Autorità Giudicante riteneva fondata anche questa pretesa risarcitoria del paziente, e, all’uopo, riconosceva la somma di € 16.000,00. 

Infine, con riferimento alla richiesta di voler sanzionare ex art. 96 u.c. c.p.c. la condotta temeraria e defatigatoria delle controparti, il Giudicante valutava complessivamente il comportamento giudiziale e stragiudiziale tenuto dai convenuti (studio dentistico e sanitario), e, condividendo anche tale iniziativa del paziente, condannava gli stessi al pagamento di un ulteriore importo commisurato “in via equitativa” e pari alla “somma simbolica di € 2.000,00 per parte”.

Per l’effetto, il Tribunale di Monza, definitivamente pronunciando, con sentenza provvisoriamente esecutiva:

  • condannava tutti i convenuti, in solido fra loro e nei rapporti interni al 50% fra lo studio e il professionista, al pagamento in favore del paziente della somma di € 51.465,00 a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale per lesione dell’integrità psico-fisica, oltre interessi legali dall’01.01.13;
  • condannava la società e il socio accomandatario alla restituzione al paziente di compensi percepiti per € 11.310,00, oltre interessi legali e rivalutazione dall’01.01.13; 
  • condannava tutti i convenuti, in solido fra loro e nei rapporti interni al 50% fra lo studio e il professionista, al pagamento in favore del paziente della somma di € 16.000,00 per le spese mediche future che si renderanno necessarie; 
  • poneva a carico di tutti i convenuti, in solido fra loro e nei rapporti interni al 50% fra lo studio e il professionista, il costo dei periti dell’Ufficio e tutte le spese peritali di parte, processuali e legali del procedimento civile e della procedura di mediazione forense;
  • infine, condannava tutti i convenuti al pagamento di € 2.000,00 ciascuno “a titolo di sanzione ex art. 96 terzo comma c.p.c..

Dal Tribunale di Monza, in definitiva, è pervenuta una decisione esemplare e di dura condanna dell’operato del medico e dello studio dentistico coinvolti, atta a rendere finalmente giustizia a un paziente vittima di un così lungo e doloroso caso di malasanità.

CHIRURGIA PLASTICA DEL NASO: l’esito infausto dell’intervento di settoplastica e rinoplastica giustifica il risarcimento del paziente ed estingue il diritto al compenso del chirurgo plastico.

By Casi

Già in passato s’era toccato l’argomento dell’inefficace/dannosa prestazione sanitaria atta a legittimare la richiesta del paziente di restituzione del compenso versato. In particolare, il tema era stato affrontato sulla scorta di un precedente caso dello Studio Legale in materia odontoiatrica (qui il link: se un DENTISTA sbaglia a eseguire l’intervento odontoiatrico …). Tuttavia, l’episodio qui in commento si distingue e risulta di particolare interesse sia per la peculiarità della branca medica coinvolta, ossia quella della chirurgia estetica, e sia per i plurimi passaggi processuali si sono susseguiti (ben tre diversi procedimenti giudiziali).

La vicenda medica della paziente originava nell’autunno del 2016, quando questa si rivolgeva allo studio medico di un chirurgo plastico di zona per la risoluzione di problemi disfunzionali ed estetici del naso.

Eseguiti gli esami pre-operatori richiesti dal sanitario, la paziente veniva ricoverata in struttura e lì veniva sottoposta, per mano dello stesso, a intervento chirurgico di “settoplastica secondaria e rinoplastica open”, come recita la cartella clinica.

Il decorso post operatorio per la paziente si rivelò tuttavia una vera odissea. Al primo controllo successivo presso l’ambulatorio privato del chirurgo alla paziente veniva estratto solo uno dei due tamponi nasali lasciati in sede operatoria, ricevendo lei l’indicazione di rimuovere autonomamente l’altro, a casa, a distanza di qualche giorno. La paziente, pertanto, così provvedeva a fare, ma all’atto della rimozione si verificava una marcata epistassi che rendeva necessario il trasporto in ambulanza presso il pronto soccorso di zona. Ivi la paziente collassava e si rendeva addirittura necessario l’intervento del rianimatore, per poi procedersi in urgenza a intervento di causticazione volto a far cessare l’emorragia. Fortunamente la paziente si salvava, ma, in ragione dell’importante perdita ematica e del rischio corso, rimaneva ricoverata presso la ridetta struttura per sette giorni.

In capo alla paziente residuavano importanti esiti cicatriziali, sintomatologia algica e difficoltà respiratoria nasale: deficit estetici e funzionali che imponevano un intervento di revisione per “chirurgia di correzione della stenosi cicatriziale”.

A questo punto la signora, scoraggiata, si rivolgeva allo Studio Legale Lucente, ove veniva seguita dagli Avv. Luigi Lucente e Simona Tesolin.

Su indicazione dei legali, la paziente contattava le figure di un medico-legale e di un medico specialista in chirurgia plastica e ricostruttiva affinché, nella veste di Consulenti Tecnici di Parte, costoro valutassero la sussistenza di eventuali profili di responsabilità medica e, se riscontrati, quantificassero il danno alla salute e patrimoniale scaturito sulla sua persona.

Dall’approfondimento tecnico dei Periti di parte affiorava come la paziente avesse riportato risultati del tutto insoddisfacenti, con conseguente danno, e a monte veniva censurato il comportamento del chirurgo plastico “per non aver eseguito alcun tipo di studio preoperatorio della piramide nasale in una chirurgia secondaria su esiti con finalità sia funzionali che estetiche”, e, fra l’altro, “per aver posto indicazione ad una autorimozione dei tamponi nasali in ambiente domestico da parte della paziente”.

A quel punto la paziente, conferito formale incarico agli Avv.ti Lucente e Tesolin, loro tramite ricorreva ex art. 696 bis c.p.c. al Tribunale di Pavia (R.G. n. 7221/2017) per veder eseguita una Consulenza Tecnica d’Ufficio – ossia una relazione svolta da Periti del Tribunale – che sancisse la responsabilità del chirurgo plastico e quantificasse il pregiudizio che le era stato provocato. Si tratta di un procedimento giudiziale che prende il nome di Consulenza Tecnica Preventiva – concludendosi non con un provvedimento decisorio del Tribunale, ma con la sola perizia dei Consulenti Tecnici incaricati – ed è imposto quale condizione di procedibilità ex art. 8 L. 24/2017.

All’esito di tale procedura il Collegio dei periti del Tribunale composto da medico legale e specialista in chirurgia plastica dava sostanzialmente ragione alle lamentele della paziente, stabilendo in particolare che: “Gli esiti attualmente apprezzabili a margine dell’intervento del 01.12.16 si identificano in una prevalente alterazione morfo-strutturale a livello del dorso del naso non adeguatamente corretta e trattata chirurgicamente in relazione a un non ottimale innesto cartilagineo”. Anche la prescrizione di rimuovere da sola a casa il tampone nasale veniva fortemente censurata, in quanto “può essere necessario un nuovo tamponamento nasale anteriore, raramente anche posteriore” e può essere necessaria una cauterizzazione sotto anestesia”. Alla paziente, inoltre, veniva riconosciuto un danno iatrogeno alla salute dettato dal nocumento funzionale ed estetico subito e dai disagi e le cure a cui nei giorni successivi aveva dovuto sottostare.

Con ricorso ex art. 702 c.p.c. veniva così incardinata dalla paziente una procedura con rito sommario, sempre d’innanzi al Tribunale di Pavia, mirata questa volta a ottenere un provvedimento di condanna al risarcimento del danno: procedimento, questo, che veniva convertito in rito ordinario e in cui, su richiesta della Difesa della paziente, veniva acquisito il fascicolo della precedente procedura di Consulenza Tecnica Preventiva ex art. 696 bis c.p.c..

Nel frattempo, però, il chirurgo plastico citato in giudizio adiva il Giudice di Pace di Pavia, con ricorso per decreto ingiuntivo, richiedendo la condanna della paziente al pagamento del suo compenso per la prestazione sanitaria resa, e ottenendo l’emissione del relativo decreto ingiuntivo n. 992/2017 per € 4.500,00 oltre interessi e spese legali. Oggetto di questo ulteriore e terzo giudizio era, dunque, il diritto del chirurgo plastico di ottenere il pagamento delle proprie competenze per l’intervento chirurgico eseguito e per le attività connesse.

Incaricati anche per questo procedimento i legali Avv.ti Luigi Lucente e Simona Tesolin, la paziente si opponeva a tale ingiunzione di pagamento del chirurgo, notificando opposizione a decreto ingiuntivo.

In pendenza di questo ulteriore giudizio terminava però il procedimento davanti al Tribunale di Pavia mirato alla condanna al risarcimento del medico. Con sentenza n. 297/2020 del 20.02.2020 il Tribunale di Pavia dava ragione alle pretese della paziente e condannava il sanitario al pagamento della corrispondente somma a titolo risarcimento del danno.

Rimaneva tuttavia da decidere il giudizio d’innanzi al Giudice di Pace di Pavia per la richiesta di compensi avanzata dal dottore, ove nel frattempo la Difesa della paziente aveva prodotto, fra l’altro, la descritta sentenza del Tribunale di Pavia che inchiodava il chirurgo alle sue responsabilità.

In quella sede i legali dello Studio Lucente facevano valere il principio secondo cui, d’innanzi alla contestazione della paziente che denunciava un inadempimento del sanitario non di scarsa importanza, costui aveva l’onere di dimostrare di aver eseguito la prestazione sanitaria in modo diligente, prudente e perito (oppure che il verificarsi delle conseguenze pregiudizievoli in capo alla paziente fosse dipeso da eventi imprevedibili o inevitabili) per giustificare la bontà del suo operato, e così, di conseguenza, di vantare un diritto al relativo compenso. Ed essendo che, al contrario, al termine dell’istruttoria non solo costui non aveva dimostrato nulla di tutto ciò, ma, anzi, dagli atti emergeva la sussistenza di sue gravi responsabilità – così come individuate nella Consulenza Tecnica d’Ufficio e nella seguente sentenza del Tribunale di Pavia – il suo diritto alla controprestazione, e, quindi, al pagamento dell’onorario, si dimostrava insussistente, in forza del principio per cui in caso di prestazione inadempiente e fin dannosa viene meno il diritto del prestatore di ricevere la propria controprestazione.

Con la sentenza n. 343/21 del 26.07.21 il Giudice di Pace di Pavia accoglieva la tesi della paziente e così statuiva: “in atti è stata prodotta la sentenza … ove si legge che il collegio peritale nominato d’ufficio dal giudice «ha ravvisato condotta colposa del … (sanitario, n.d.r.) nonché il nesso di causalità tra tale condotta e il pregiudizio fisico subito … (dalla paziente, n.d.r.)» e, sulla base di tale perizia, il Tribunale ha condannato il sanitario al risarcimento dei danni alla persona patiti dalla paziente, come accertati con la Consulenza medico-legale”. “Pertanto si deve ritenere dimostrato l’inesatto adempimento della prestazione professionale posta in essere dal convenuto”. Difatti – prosegue il Giudice pavese – il chirurgo plastico “non ha assolto all’onere probatorio incombente di dimostrare la fondatezza del credito azionato in sede monitoria e, conseguentemente, si deve procedere alla revoca del decreto ingiuntivo”.

Per questi motivi il Giudice di Pace di Pavia:accerta e dichiara che nulla è dovuto” dalla paziente al medico; “per l’effetto, revoca il decreto ingiuntivo” richiesto dal sanitario; e “condanna … (il chirurgo, n.d.r.) alla rifusione delle spese di lite”.

In questo modo, dunque, la paziente otteneva, da un lato, il ristoro per i danni subiti, e, dall’altro, l’accertamento che nulla era da lei dovuto al chirurgo a titolo di compensi.

Quest’ultima decisione si uniforma a un condivisibile filone giurisprudenziale – fra i cui più recenti arresti si annoverano: Trib. Napoli, sez. VIII civ., 13.09.2021, n. 7328; Trib. Rieti, sez. civ, sentenza 20.11.19 Dott.ssa Sbarra; Trib. Milano, sentenza n. 13382/2016; Trib. Pisa, sentenza n. 371/2016; C.d.Appello Milano, sentenza n. 643/2015 – che valorizza la natura contrattuale del rapporto medico e stabilisce che in tale contesto la prestazione medico-sanitaria, se infausta e priva di vantaggio per il paziente, delegittima la controprestazione del pagamento dei compensi, i quali, quindi, potranno non essere corrisposti e, se già pagati, dovranno essere restituiti.