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CHIRURGIA PLASTICA DEL NASO: l’esito infausto dell’intervento di settoplastica e rinoplastica giustifica il risarcimento del paziente ed estingue il diritto al compenso del chirurgo plastico.

By Casi

Già in passato s’era toccato l’argomento dell’inefficace/dannosa prestazione sanitaria atta a legittimare la richiesta del paziente di restituzione del compenso versato. In particolare, il tema era stato affrontato sulla scorta di un precedente caso dello Studio Legale in materia odontoiatrica (qui il link: se un DENTISTA sbaglia a eseguire l’intervento odontoiatrico …). Tuttavia, l’episodio qui in commento si distingue e risulta di particolare interesse sia per la peculiarità della branca medica coinvolta, ossia quella della chirurgia estetica, e sia per i plurimi passaggi processuali si sono susseguiti (ben tre diversi procedimenti giudiziali).

La vicenda medica della paziente originava nell’autunno del 2016, quando questa si rivolgeva allo studio medico di un chirurgo plastico di zona per la risoluzione di problemi disfunzionali ed estetici del naso.

Eseguiti gli esami pre-operatori richiesti dal sanitario, la paziente veniva ricoverata in struttura e lì veniva sottoposta, per mano dello stesso, a intervento chirurgico di “settoplastica secondaria e rinoplastica open”, come recita la cartella clinica.

Il decorso post operatorio per la paziente si rivelò tuttavia una vera odissea. Al primo controllo successivo presso l’ambulatorio privato del chirurgo alla paziente veniva estratto solo uno dei due tamponi nasali lasciati in sede operatoria, ricevendo lei l’indicazione di rimuovere autonomamente l’altro, a casa, a distanza di qualche giorno. La paziente, pertanto, così provvedeva a fare, ma all’atto della rimozione si verificava una marcata epistassi che rendeva necessario il trasporto in ambulanza presso il pronto soccorso di zona. Ivi la paziente collassava e si rendeva addirittura necessario l’intervento del rianimatore, per poi procedersi in urgenza a intervento di causticazione volto a far cessare l’emorragia. Fortunamente la paziente si salvava, ma, in ragione dell’importante perdita ematica e del rischio corso, rimaneva ricoverata presso la ridetta struttura per sette giorni.

In capo alla paziente residuavano importanti esiti cicatriziali, sintomatologia algica e difficoltà respiratoria nasale: deficit estetici e funzionali che imponevano un intervento di revisione per “chirurgia di correzione della stenosi cicatriziale”.

A questo punto la signora, scoraggiata, si rivolgeva allo Studio Legale Lucente, ove veniva seguita dagli Avv. Luigi Lucente e Simona Tesolin.

Su indicazione dei legali, la paziente contattava le figure di un medico-legale e di un medico specialista in chirurgia plastica e ricostruttiva affinché, nella veste di Consulenti Tecnici di Parte, costoro valutassero la sussistenza di eventuali profili di responsabilità medica e, se riscontrati, quantificassero il danno alla salute e patrimoniale scaturito sulla sua persona.

Dall’approfondimento tecnico dei Periti di parte affiorava come la paziente avesse riportato risultati del tutto insoddisfacenti, con conseguente danno, e a monte veniva censurato il comportamento del chirurgo plastico “per non aver eseguito alcun tipo di studio preoperatorio della piramide nasale in una chirurgia secondaria su esiti con finalità sia funzionali che estetiche”, e, fra l’altro, “per aver posto indicazione ad una autorimozione dei tamponi nasali in ambiente domestico da parte della paziente”.

A quel punto la paziente, conferito formale incarico agli Avv.ti Lucente e Tesolin, loro tramite ricorreva ex art. 696 bis c.p.c. al Tribunale di Pavia (R.G. n. 7221/2017) per veder eseguita una Consulenza Tecnica d’Ufficio – ossia una relazione svolta da Periti del Tribunale – che sancisse la responsabilità del chirurgo plastico e quantificasse il pregiudizio che le era stato provocato. Si tratta di un procedimento giudiziale che prende il nome di Consulenza Tecnica Preventiva – concludendosi non con un provvedimento decisorio del Tribunale, ma con la sola perizia dei Consulenti Tecnici incaricati – ed è imposto quale condizione di procedibilità ex art. 8 L. 24/2017.

All’esito di tale procedura il Collegio dei periti del Tribunale composto da medico legale e specialista in chirurgia plastica dava sostanzialmente ragione alle lamentele della paziente, stabilendo in particolare che: “Gli esiti attualmente apprezzabili a margine dell’intervento del 01.12.16 si identificano in una prevalente alterazione morfo-strutturale a livello del dorso del naso non adeguatamente corretta e trattata chirurgicamente in relazione a un non ottimale innesto cartilagineo”. Anche la prescrizione di rimuovere da sola a casa il tampone nasale veniva fortemente censurata, in quanto “può essere necessario un nuovo tamponamento nasale anteriore, raramente anche posteriore” e può essere necessaria una cauterizzazione sotto anestesia”. Alla paziente, inoltre, veniva riconosciuto un danno iatrogeno alla salute dettato dal nocumento funzionale ed estetico subito e dai disagi e le cure a cui nei giorni successivi aveva dovuto sottostare.

Con ricorso ex art. 702 c.p.c. veniva così incardinata dalla paziente una procedura con rito sommario, sempre d’innanzi al Tribunale di Pavia, mirata questa volta a ottenere un provvedimento di condanna al risarcimento del danno: procedimento, questo, che veniva convertito in rito ordinario e in cui, su richiesta della Difesa della paziente, veniva acquisito il fascicolo della precedente procedura di Consulenza Tecnica Preventiva ex art. 696 bis c.p.c..

Nel frattempo, però, il chirurgo plastico citato in giudizio adiva il Giudice di Pace di Pavia, con ricorso per decreto ingiuntivo, richiedendo la condanna della paziente al pagamento del suo compenso per la prestazione sanitaria resa, e ottenendo l’emissione del relativo decreto ingiuntivo n. 992/2017 per € 4.500,00 oltre interessi e spese legali. Oggetto di questo ulteriore e terzo giudizio era, dunque, il diritto del chirurgo plastico di ottenere il pagamento delle proprie competenze per l’intervento chirurgico eseguito e per le attività connesse.

Incaricati anche per questo procedimento i legali Avv.ti Luigi Lucente e Simona Tesolin, la paziente si opponeva a tale ingiunzione di pagamento del chirurgo, notificando opposizione a decreto ingiuntivo.

In pendenza di questo ulteriore giudizio terminava però il procedimento davanti al Tribunale di Pavia mirato alla condanna al risarcimento del medico. Con sentenza n. 297/2020 del 20.02.2020 il Tribunale di Pavia dava ragione alle pretese della paziente e condannava il sanitario al pagamento della corrispondente somma a titolo risarcimento del danno.

Rimaneva tuttavia da decidere il giudizio d’innanzi al Giudice di Pace di Pavia per la richiesta di compensi avanzata dal dottore, ove nel frattempo la Difesa della paziente aveva prodotto, fra l’altro, la descritta sentenza del Tribunale di Pavia che inchiodava il chirurgo alle sue responsabilità.

In quella sede i legali dello Studio Lucente facevano valere il principio secondo cui, d’innanzi alla contestazione della paziente che denunciava un inadempimento del sanitario non di scarsa importanza, costui aveva l’onere di dimostrare di aver eseguito la prestazione sanitaria in modo diligente, prudente e perito (oppure che il verificarsi delle conseguenze pregiudizievoli in capo alla paziente fosse dipeso da eventi imprevedibili o inevitabili) per giustificare la bontà del suo operato, e così, di conseguenza, di vantare un diritto al relativo compenso. Ed essendo che, al contrario, al termine dell’istruttoria non solo costui non aveva dimostrato nulla di tutto ciò, ma, anzi, dagli atti emergeva la sussistenza di sue gravi responsabilità – così come individuate nella Consulenza Tecnica d’Ufficio e nella seguente sentenza del Tribunale di Pavia – il suo diritto alla controprestazione, e, quindi, al pagamento dell’onorario, si dimostrava insussistente, in forza del principio per cui in caso di prestazione inadempiente e fin dannosa viene meno il diritto del prestatore di ricevere la propria controprestazione.

Con la sentenza n. 343/21 del 26.07.21 il Giudice di Pace di Pavia accoglieva la tesi della paziente e così statuiva: “in atti è stata prodotta la sentenza … ove si legge che il collegio peritale nominato d’ufficio dal giudice «ha ravvisato condotta colposa del … (sanitario, n.d.r.) nonché il nesso di causalità tra tale condotta e il pregiudizio fisico subito … (dalla paziente, n.d.r.)» e, sulla base di tale perizia, il Tribunale ha condannato il sanitario al risarcimento dei danni alla persona patiti dalla paziente, come accertati con la Consulenza medico-legale”. “Pertanto si deve ritenere dimostrato l’inesatto adempimento della prestazione professionale posta in essere dal convenuto”. Difatti – prosegue il Giudice pavese – il chirurgo plastico “non ha assolto all’onere probatorio incombente di dimostrare la fondatezza del credito azionato in sede monitoria e, conseguentemente, si deve procedere alla revoca del decreto ingiuntivo”.

Per questi motivi il Giudice di Pace di Pavia:accerta e dichiara che nulla è dovuto” dalla paziente al medico; “per l’effetto, revoca il decreto ingiuntivo” richiesto dal sanitario; e “condanna … (il chirurgo, n.d.r.) alla rifusione delle spese di lite”.

In questo modo, dunque, la paziente otteneva, da un lato, il ristoro per i danni subiti, e, dall’altro, l’accertamento che nulla era da lei dovuto al chirurgo a titolo di compensi.

Quest’ultima decisione si uniforma a un condivisibile filone giurisprudenziale – fra i cui più recenti arresti si annoverano: Trib. Napoli, sez. VIII civ., 13.09.2021, n. 7328; Trib. Rieti, sez. civ, sentenza 20.11.19 Dott.ssa Sbarra; Trib. Milano, sentenza n. 13382/2016; Trib. Pisa, sentenza n. 371/2016; C.d.Appello Milano, sentenza n. 643/2015 – che valorizza la natura contrattuale del rapporto medico e stabilisce che in tale contesto la prestazione medico-sanitaria, se infausta e priva di vantaggio per il paziente, delegittima la controprestazione del pagamento dei compensi, i quali, quindi, potranno non essere corrisposti e, se già pagati, dovranno essere restituiti.

Lesione al midollo spinale durante il parto cesareo: la Corte di Appello conferma la condanna dell’Ospedale e del medico.

By Casi

Nel 2019 avevamo raccontato la vicenda di una paziente, seguita dallo Studio Legale Lucente, divenuta invalida in ragione di una lesione al midollo spinale esitata in occasione di un parto cesareo e più precisamente durante l’iniezione con cui veniva inoculato l’anestetico.

Qui il link diretto all’articolo richiamato, per conoscere la storia e il procedimento di primo grado tenutosi davanti al Tribunale di Milano e conclusosi con sentenza di condanna del nosocomio e dell’anestesista coinvolti (SENTENZA TRIB. MILANO, SEZ. I, N. 5288/19).

Riassumendo, il Tribunale di Milano, a fronte di una Consulenza tecnica dell’Ufficio che non certificava nelle conclusioni una responsabilità sanitaria, si discostava dal giudizio del Collegio peritale incaricato e, stimolato dalla Difesa dell’Avv. Luigi Lucente, reinterpretava gli esiti della perizia e così addiveniva a una pronuncia di condanna della struttura ospedaliera e del sanitario per aver praticato, durante il parto cesareo, l’iniezione spinale in uno spazio inter-vertebrale non raccomandato, provocando alla paziente una lesione midollare irreversibile.

A tale sentenza il 27.09.2019 veniva proposto appello da parte della Società Assicuratrice del medico anestesista condannato in primo grado quale materiale esecutore dell’infausta procedura anestesiologica.

L’Istituto assicurativo contestava, per un verso, l’inoperatività della polizza del sanitario e altre questioni attinenti la copertura assicurativa, mentre, per l’altro, denunciava errori del Tribunale meneghino nella parte in cui si era discostato dalla Consulenza medica, e deduceva che le complicanze verificatesi fossero da ascriversi a fattori esterni e non già all’operato del medico. La stessa contestava, altresì, la quantificazione del danno operata dal Giudicante di prime cure.

Si costituivano nel giudizio di appello tutte le parti appellate, paziente compresa. Quest’ultima nuovamente rappresentata e difesa dall’Avv. Luigi Lucente.

Tutte le parti dispiegavano le proprie difese. L’Ente ospedaliero e il sanitario coinvolti proponevano appello incidentale, e cioè a loro volta impugnavano la sentenza chiedendone la revisione in virtù dell’asserita esatta prestazione sanitaria.

Il secondo grado di giudizio si connotava per una certa celerità. Celebrata la prima udienza in data 17.12.2019, la Corte d’Appello rinviava al 23.06.2020 per la precisazione delle conclusioni. In seno a detta udienza la causa veniva trattenuta in decisione e, concessi i termini di legge per 1 gli atti difensivi conclusivi. In data 21.10.2020, infine, la causa veniva decisa in camera di consiglio e in data 18.11.2020 veniva pubblicata la sentenza (SENTENZA C.D.A. MILANO, SEZ. II CIVILE, N. 2987/20).

Nel processo di appello la Difesa della paziente, affidata all’Avv. Luigi Lucente, denunciava preliminarmente l’inammissibilità dell’appello incidentale proposto dal sanitario in quanto tardivo. E sul punto la Corte di Appello milanese riteneva fondata tale contestazione, dacché dichiarava “l’inammissibilità dell’appello incidentale” proposto dal sanitario.

Nel merito, l’Avv. Lucente replicava, eloquente, ricalcando i passi e gli spunti comunque offerti dalla Consulenza medico-legale del procedimento di primo grado, e dunque premendo sulla riconosciuta responsabilità professionale dell’anestesista, nonché del nosocomio, a cui era addivenuto il Tribunale. Veniva sottolineata, inoltre, la pacifica individuazione di un nesso causa-conseguenza fra l’operato del sanitario, responsabile, e il danno alla salute esitato sulla paziente. Venivano poi quindi riportati gli stralci della letteratura scientifica richiamata dalla Consulenza medica dell’Ufficio in modo improprio, e quindi evidenziata l’inconferenza rispetto al caso trattato. Veniva contestata l’esistenza di cause / concause nella produzione del danno afferenti alla paziente (quali l’obesità o particolari caratteristiche anatomiche del cono midollare, comunque mai dimostrate in giudizio). E di conseguenza veniva ricostruito e avvalorato l’intero iter logico-giuridico caratterizzante e fondante la pronuncia di primo grado del Tribunale meneghino, che bene aveva fatto a non dipendere unicamente dalle conclusioni del proprio collegio peritale, senza alcun vaglio critico.

Sui profili di merito la Corte di Appello, lapidaria, sentenziava: “i motivi di appello sono infondati”.

Premettendo, infatti, che la scelta del Tribunale di discostarsi dalle conclusioni della CTU era legittima e condivisibile, la Corte d’Appello ha poi precisato in sentenza “che il rilievo assegnato dai ctu alla obesità della paziente, è, quantomeno, contraddittorio. L’allegazione che l’obesità è un importante fattore di rischio per l’esecuzione dell’anestesia spirale, non può conciliarsi con quella secondo cui questo tipo di anestesia è quella maggiormente indicata per le pazienti obese. Anche … le «altre varianti anatomiche della paziente», non possono essere condivise. Anzitutto l’affermazione è formulata in termini generici ed ipotetici… inoltre, è ragionevole ritenere che, secondo canoni di perizia e prudenza esigibili da chi esercita una professione sanitaria, la accurata verifica delle caratteristiche del paziente debba precedere l’esecuzione di un qualsiasi trattamento terapeutico”.

Anche le altre doglianze rammostrate dall’Assicurazione del sanitario e finalizzate a diminuire sotto il profilo quantitativo il ristoro riconosciuto in capo alla paziente non colpivano nel segno, e, così, venivano respinte dalla Corte di Appello.

Veniva infatti confermato il discostamento (cd. personalizzazione) dai valori base di riferimento utilizzati per la quantificazione in euro del pregiudizio alla salute patito dalla paziente (le cd. Tabelle milanesi, rese dall’Osservatorio di Giustizia presso il Tribunale di Milano e aggiornate, ora, al 2018), il quale trova valida giustificazione nella “particolare afflittività” delle problematiche fisiche insorte in capo alla madre, chiamata ad accudire due figli in tenera età nelle precarie condizioni residuate dal parto cesareo.

Detto discostamento in eccesso era dunque ritenuto, a giudizio della Corte, “giustificato” e anzi “congruo”.

Per cui anche sul tema le rimostranze delle parti appellanti venivano respinte.

Rigettati, così, l’appello principale e incidentale, le spese seguivano la soccombenza. E dunque i diritti risarcitori della paziente, già consacrati all’esito del primo grado di Giudizio davanti al Tribunale di Milano, trovavano conferma d’innanzi alla Corte di Appello di Milano.

Danno odontoiatrico: trovato l’accordo con il dentista e la sua assicurazione e che soddisfa pienamente il paziente

By Casi

 

Al termine di una proficua opera conciliativa con controparte, la paziente rappresentata e difesa dall’Avv. Luigi Lucente riusciva ad ottenere, in tempi ridotti, il risarcimento dei danni subiti, e, quindi, una tutela rapida ed efficace dei propri diritti.

 

L’EPISODIO

La vicenda qui riassunta è quella di una signora che si recava presso uno Studio Dentistico dell’hinterland milanese poiché accusava un fastidioso quadro di mobilità a carico dei denti incisivi centrali superiori, uno dei quali pilastro di una protesi incollata di tre elementi sostitutiva dellincisivo laterale superiore sinistro.

 Il sanitario, titolare dello Studio Dentistico, formulava alla paziente diversi preventivi nel corso del trattamento comprensivi di ablazione tartaro, avulsioni, devitalizzazioni, inserzione di perni moncone, applicazione di denti provvisori, installazione di impianti endo-ossei, perni-moncone sugli impianti e corone oro-ceramica definitive.

Nel corso delle cure odontoiatriche, tuttavia, la paziente lamentava tutta una serie di fastidi di carattere funzionale alle protesi installate ed una chiara difficoltà nelleloquio, specie a causa di una ‘s’ sibilante in precedenza mai avuta. Oltretutto, con il trascorrere del tempo i fastidi agli impianti non accennavano a diminuire, così come persisteva, altresì, anche un insistente sanguinamento gengivale. Inoltre, la paziente poteva constatare come l’applicazione dei denti provvisori fosse insoddisfacente anche da un punto di vista estetico: i denti, infatti, erano troppo sporgenti e di differenti lunghezze, causando alla stessa seri problemi anche per tutta quella che è la componente estetica. Ed al contempo sopraggiungeva anche un ascesso gengivale e, da ultimo, la frattura di uno dei denti provvisori applicati.

LA VERTENZA

A fronte della descritta situazione, la signora si rivolgeva allo Studio Legale Lucente, conferendo allo stesso mandato di intraprendere ogni azione, giudiziale e stragiudiziale, necessaria alla tutela dei propri diritti e legittimi interessi.

La questione veniva sottoposta all’attenzione del Consulente Tecnico di Parte, il Dott. Marco Pecchioli, Medico Chirurgo Odontostomatologo e Consulente iscritto all’Albo del Tribunale di Milano, il quale individuava diversi profili di responsabilità professionale medica. In particolare, si dava risalto a due ordini di notazioni: la prima riguardante l’errata ratio della terapia protesica impostata (cd. approccio terapeutico), e la seconda attinente, invece, alla fase più propriamente  tecnica di esecuzione dei lavori.

Si procedeva, inoltre, alla quantificazione tecnica del danno alla salute emerso in capo alla paziente e delle spese necessarie alla stessa per l’emendamento futuro di questo.

Così, esperita una puntuale istruttoria della pratica, e approfonditi quindi tutti gli aspetti patrimoniali e non patrimoniali emergenti dalla fattispecie, lo Studio Legale Lucente si attivava per prendere contatti con lo Studio Dentistico.

I tentativi di componimento bonario della vertenza, tuttavia, non consentivano di addivenire ad una immediata risoluzione stragiudiziale della controversia.

Pertanto, nel febbraio del 2019 l’Avv. Luigi Lucente incardinava presso il competente Organismo di Mediazione Forense dell’Ordine degli Avvocati il procedimento di mediazione previsto ex lege quale condizione di procedibilità della domanda in materia medico-sanitaria. Tale procedura, tuttavia, non permetteva al pari di giungere a una definizione della lite.

Per l’effetto, nel mese di maggio 2019 veniva notificato alla controparte atto di citazione in Tribunale mirato ad ottenere, in particolare:

  • il risarcimento del danno non patrimoniale subito dalla paziente, sia in termini di residuali postumi permanenti (cd. invalidità permanente) che transitori (cd. inabilità temporanea).
  • il risarcimento per le spese medico-sanitarie resesi necessarie e che si sarebbero rese necessarie anche in futuro per emendare nel possibile la condizione odontoiatrica della paziente.
  • la risoluzione del contratto medico-professionale instaurato dalla paziente per fatto e colpa esclusivamente imputabili allo Studio Dentistico, con contestuale domanda di integrale ripetizione dei compensi dallo stesso percepiti per prestazioni preventivate e non eseguite ovvero eseguite in modo contrario alla leges artis in ottemperanza al principio di matrice giurisprudenziale per cui “il risarcimento dovuto si estende anche alla restituzione al cliente dei corrispettivi e dei fondi che questi ha dato, il cui pagamento diviene privo di causa in ragione della difformità di esecuzione dellopera professionale rispetto alle regole della materia e nella considerazione della inutilità dellopera e anzi della sua contrarietà allinteresse del cliente” (così, ex plurimis, Corte d’Appello di Milano, sentenza n. 643/2015).
  • il rimborso integrale delle spese legali, di giudizio e di accertamento peritale.
  • nonché i rispettivi interessi legali al saldo e, ove prevista, la rivalutazione monetaria.

Su queste basi veniva dunque introitato il relativo procedimento civile (TRIB. MILANO, SEZ. I, Dott.ssa V. Boroni, R.G. N. 27370/2019).

L’ACCORDO TRANSATTIVO.

Parallelamente, nel corso della fase introduttiva del procedimento incardinato venivano intavolate nuove ed ulteriori trattative finalizzate ad una chiusura della vertenza fuori dalle sedi giudiziarie; trattative coinvolgenti sia lo Studio Dentistico che l’Istituto Assicurativo dallo stesso interpellato quale proprio Ente Assicurativo attivato per la copertura del rischio da R.C. professionale.

Ed in quest’ottica, tramite gli uffici in chiave conciliativa dello Studio Legale Lucente si riusciva a giungere ad un valido accordo tra le parti: una soluzione valida e celere per la tutela dei diritti della paziente.

Infatti, con atto di transazione del 9 dicembre 2019 – ossia a non più di 6 mesi dall’instaurazione del Giudizio – la paziente otteneva l’assunzione di un obbligo contrattuale da parte delle citate controparti di versare in suo favore una somma pari a circa € 30.000,00 a titolo di risarcimento del danno, restituzione dei compensi professionali pagati e di rimborso delle spese vive processuali e peritali sostenute, oltre anche ad un ulteriore importo a titolo di rimborso delle spese legali sostenute.

Somme, queste, che venivano corrisposte in breve tempo tramite versamento diretto sul conto corrente.

Operazione di ernia inguinale ad impegno scrotale produttiva di seri danni al paziente: clinica e medici condannati al risarcimento del danno.

By Casi

Operazione di ernia inguinale ad impegno scrotale produttiva di seri danni al paziente: clinica e medici condannati al risarcimento del danno.

Rappresentato e difeso dall’Avv. Luigi Lucente, la vittima di una serie di errate manovre chirurgiche coinvolgenti l’apparato uro-genitale ha trovato ristoro per i danni subiti (SENTENZA TRIB. MILANO, SEZ. I, 19.11.2019, N. 10651).

Correva il mese di luglio 2014 quando presso una nota clinica privata milanese veniva previsto un intervento chirurgico di routine nel campo dell’urologia: una ernioalloplastica inguinale sec. Lichtenstein (come riportava il relativo verbale operatorio).

Al paziente quarantanovenne, infatti, era stata fornita una indicazione chirurgica in ragione della diagnosi di “ernia inguinale destra ad impegno scrotale”.

In sede operatoria non veniva evidenziata alcuna complicanza od anomalia di sorta. Giacché il giorno seguente l’operazione il paziente veniva dimesso in buone condizioni generali e con un moderato quadro algico delimitato alla zona interessata dall’intervento.

Tuttavia, nei giorni seguenti alle dimissioni la sintomatologia dolorosa non accennava a diminuire, ma, al contrario, si acuiva sin a indurre il paziente a recarsi di sua sponte presso la medesima clinica, anticipando di fatto di alcuni giorni la visita di controllo prefissata in sede di ricovero. In quell’occasione veniva riscontrata una condizione patologica grave, tale da comportare un nuovo ricovero della durata di sette giorni, a cui sarebbero seguiti, poi, diversi mesi di terapia farmacologica di natura antalgica, antinfiammatoria ed antibiotica.

All’esito della vicissitudine occorsa, residuava in capo al paziente una condizione clinica patologica stabilizzata, la quale determinava lo stesso – ancora non capacitatosi della natura del problema che lo continuava ad affliggere – a rivolgersi al Dott. Maurizio Bruni (medico specialista in Medicina Legale e delle Assicurazioni nonché specialista in Chirurgia Generale – Urologia) per un’approfondita analisi della vicenda e per l’eventuale individuazione di profili di responsabilità medico-sanitaria.

Il perito, scrutinata la vicenda clinica, disposti ed ottenuti appositi accertamenti strumentali, ed attuato un esame dell’intero incartamento medico-sanitario disponibile, individuava chiari profili di responsabilità intra-operatoria nella condotta posta in essere dagli operatori chirurgici in occasione dell’intervento occorso nel luglio del 2014. La dinamica produttiva del danno biologico – spiegava il perito – trovava origine in primis in disacconce manovre operatorie, che avevano comportato per il paziente una “necrosi dell’organo, che ora appare palpatoriamente come una struttura di consistenza aumentata (fibrotica, verosimilmente) con perdita sia della componente endocrina, sia della componente spermatogenetica … [e con] una ridotta produzione di testosterone (totale ai limiti inferiori, libero ben al di sotto del minimo)”.

Il paziente si rivolgeva dunque allo Studio Legale Lucente, al quale veniva conferito mandato di intraprendere ogni azione, anche giudiziale, necessaria alla tutela dei diritti e legittimi interessi del proprio assistito, vittima di malpratica medica. La questione veniva così dapprima istruita, sia documentalmente che attraverso l’individuazione di testimoni. Veniva quindi riassunta la cronistoria; attribuito il corretto inquadramento giuridico alla vicenda; ed enucleati tutti i vividi motivi di sofferenza e disagio che avevano caratterizzavano la delicata storia del paziente.

Dopodiché – una volta rivelatisi infruttuosi i tentativi di addivenire ad un ricomponimento bonario della vertenza, al pari anche del seguente tentativo di mediazione previsto ratione temporis quale condizione di procedibilità della domanda in materia medico-sanitaria – veniva incardinato d’innanzi al Tribunale di Milano il procedimento civile finalizzato ad ottenere il ristoro di tutti i danni, alla salute ma anche economici, capitati al paziente. Ed in particolare, venivano chiamati in giudizio la clinica presso cui si era tenuto l’atto chirurgico ed i sanitari responsabili del medesimo (I° e II° operatore), con richiesta al Tribunale meneghino di una loro condanna solidale al risarcimento del danno.

Il Tribunale milanese disponeva Consulenza Tecnica medica d’Ufficio, con collegio peritale composto da un dottore specialista in medicina legale e delle assicurazioni, un dottore specialista in urologia ed un dottore specialista in chirurgia generale.

Al termine delle operazioni di accertamento, l’elaborato peritale depositato dai Consulenti del Tribunale ricalcava e confermava i tratti della difesa attorea patrocinata dallo Studio Legale Lucente, affermando che “Da tempo sono state elaborate strategie atte a ridurre il potenziale lesivo delle manovre intra-operatorie. Tra queste si annoverano:

[1] l’adozione di una tecnica chirurgica che rispetti le strutture anatomiche del funicolo, riservando ad esempio la manovra di legatura del muscolo cremastere a pochi e selezionati casi [tra cui non rientrava, però, quello di specie];

[2] l’impiego di supporti morbidi e flessibili, quali fettucce di gomma in luogo dei divaricatori di metallo quali la pinza di Bottini nella mobilizzazione del funicolo;

[3] la sezione del sacco erniario in corrispondenza dell’orifizio inguinale interno”.

Nel caso di specie, invece – hanno proseguito i Consulenti del Tribunale –: “dalla descrizione dell’atto risulta che nel corso dell’intervento furono disattese le predette raccomandazioni, ossia:

[1] fu praticata la sezione dei fasci del muscolo cremastere;

[2] si procedette con la completa dissezione del sacco erniario;

[3] per la mobilizzazione del testicolo, si fece ricorso alla pinza di Bottini”.

Di conseguenza: “l’esecuzione tecnica dell’intervento di «ernioalloplastica inguinale sec. Lichtenstein» appare censurabile”.

Inoltre il Collegio peritale dell’Ufficio confermava la sussistenza di un danno non patrimoniale e un nesso di causa intercorrente tra il danno prodotto al paziente e l’atto chirurgico (“nell’ambito del giudizio probabilistico è da ritenere che la manipolazione intraoperatoria, per quanto detto non sufficientemente cauta, delle strutture vascolari del funicolo spermatico abbia assunto ruolo causale nel determinismo del danno ischemico del testicolo destro patito”).

A fronte dell’esito peritale l’Avv. Luigi Lucente richiamava quindi l’attenzione del Giudicante sulla riconosciuta sussistenza nel caso di specie di tutti gli elementi costitutivi della domanda risarcitoria avanzata dal paziente, chiedendone, di conseguenza, l’accoglimento.

Così il Magistrato incaricato, una volta ritenuto di non dover disporre l’ammissione di ulteriori mezzi istruttori, e, quindi, di avere già a sua disposizione tutti gli elementi necessari ai fini del giudizio, dichiarava la causa matura per la decisione e concedeva i termini di rito per gli atti difensivi conclusivi.

Seguiva pertanto, come da rito, la sentenza.

Nel corpo del provvedimento decisorio il Tribunale così disponeva: “Nel merito, le domande spiegate da **** possono essere accolte … Dalle risultanze della consulenza tecnica emerge incontrovertibilmente che la condotta professionale dei sanitari **** e **** non si è conformata alle leges artis in materia… Accertata la sussistenza di una condotta colposa in capo ai sanitari, è stato condivisibilmente evidenziato come essa sia eziologicamente riconducibile al danno patito dall’attore… Per questi motivi Il Tribunale di Milano, definitivamente pronunciando:

I. Accoglie la domanda di parte attrice e, per l’effetto, condanna la **** e i sanitari **** e **** in solido tra loro a risarcire il danno cagionato al paziente *****;

II. Condanna i convenuti ****, **** e **** in solido tra loro a rimborsare all’attore le spese di lite …

III. Pone definitivamente a carico dei convenuti ****, **** e **** le spese di Consulenza Tecnica di Ufficio del presente procedimento”.

Paziente resa invalida da una lesione al midollo spinale occorsa durante il parto cesareo

By Casi

Paziente resa invalida da una lesione al midollo spinale occorsa durante il parto cesareo (SENTENZA TRIB. MILANO, SEZ. I, 04.06.2019, N. 5288)

Il Tribunale, facendo propria la tesi patrocinata dalla difesa dell’Avv. Luigi Lucente, si dissocia dal parere tecnico negativo reso dai propri Consulenti Tecnici e, per l’effetto, condanna al risarcimento del danno la struttura ospedaliera ed il medico anestesista convenuti. In sede di parto cesareo il sanitario ha praticato l’iniezione spinale in uno spazio inter-vertebrale non raccomandato, provocando alla paziente una lesione midollare irreversibile.

LA CRONISTORIA.

La vicenda è quella della notte tra il 3 e il 4 gennaio 2014; notte in cui una donna in dolce attesa veniva ricoverata presso una struttura di rilievo nel panorama milanese dell’ostetricia e della ginecologia per dare alla luce il proprio secondogenito, un maschietto di nome Francesco.

La signora si trovava a metà della trentanovesima settimana. Pesava 109 Kg (con accrescimento ponderale pari a +13 Kg), per una statura di 170 cm. Alle ore 20.05 del 3 gennaio la partoriente veniva così portata in sala parto a causa della rottura prematura delle membrane, ma alle ore 00.15 doveva essere trasferita in sala operatoria per essere sottoposta a parto cesareo. Ivi l’anestesista di turno eseguiva puntura lombare al fine di anestetizzare la donna, ma, invece di inserire l’ago nella schiena al punto più basso raccomandato (tra gli spazi inter-vertebrali L3 e L4), decideva di introdurre l’ago in un punto più alto e rischioso (ossia tra gli interspazi L2 e L3), ed inoltre, errando anche nell’individuazione del punto esatto in cui pungere, finiva per praticare il foro ed iniettare la miscela anestetica in un sito controindicato – ossia tra gli interspazi L1 e L2, se non ancora più in alto – ledendo il sottostante midollo spinale. Oltretutto, una volta inserito l’ago e constatata la conseguente reazione algica della paziente, che infatti accusava dolore e aveva movimenti involontari degli arti inferiori, l’anestesista non ritraeva neppure l’ago per operare un riposizionamento, come avrebbe invece nel caso dovuto, ma al contrario ritraeva parzialmente l’ago ed iniettava comunque la miscela anestetica.

In ogni caso il parto si svolgeva regolarmente, e così alle ore 00.55 il piccolo Francesco veniva al mondo. Alle 08.35 della mattina del 4 gennaio, tuttavia, quando la puerpera si trovava in reparto da ormai qualche ora, veniva obiettivata una “mobilità all’arto inferiore ridotta” e rilevate delle “algie sopra il ginocchio dell’arto inferiore sinistro”. Per tutto l’arco della giornata tale sintomatologia algo-disfunzionale agli arti inferiori persisteva, e così anche fino a quella sera, quando, alle ore 21:00, veniva eseguito un controllo anestesiologico così refertato: “chiamata per ipotomia gamba sinistra. La pz è stata sottoposta a T.C. in a. spinale e riferisce “scossa” all’esecuzione della manovra. Non deficit sensitivi ma deficit motori al tibiale anteriore sx e deficit motorio alle dita del piede sinistro (III, IV, V)”. I primi sintomi di una diagnosi infausta.

Nei giorni successivi si alternavano diverse consulenze di specialisti mirate a comprendere l’origine dell’algia, fino a che, in data 07.01.2014, la paziente veniva sottoposta ad RMN, che sanciva la presenza di un grave danno midollare cagionato dell’anestesia spinale effettuata in luogo del parto cesareo. Esito, questo, confermato poi anche dai successivi accertamenti e controlli. Data l’irreversibilità e la stabilità del quadro clinico, a distanza di appena qualche giorno la neomamma poteva essere dimessa, ma la sua vita da quel dì sarebbe stata fortemente condizionata dalla lesione subita.

Le conseguenze, infatti, erano severe. “Claudicatio di fuga, steppage del piede, e rischio di caduta per eversione traumatica del piede stesso… Complessivamente si deve ritenere ridotta l’autonomia locomotoria, con impossibilità di corsa e difficoltà e rischio di caduta nelle scale e su terreni sconnessi o scivolosi o in condizioni di scarsa visibilità”, si legge nei referti. All’atto pratico la paziente non riesce a camminare se non con l’utilizzo di un tutore; non può indossare scarpe femminili; è costretta a portare dispositivi ortopedici e calzature speciali; ha dovuto rinunciare ai propri hobbies e alle proprie passioni, quali, su tutti, il tennis, le gite fuori porta con gli amici e le lunghe camminate. Veniva introdotto, infine, anche un ciclo di consultazione psicologica mirato ad affrontare questo stravolgimento di vita non indifferente. A distanza di qualche mese le veniva altresì riconosciuta una percentuale di invalidità civile pari al 34%.

L’ISTRUTTORIA DELLA CAUSA ED IL PROCESSO.

A questo punto la signora decideva di rivolgersi allo Studio Legale Lucente al fine di veder tutelati i propri diritti e, così, ottenere il risarcimento per i danni subiti. La stessa veniva affiancata da dottori specialisti del settore medico-sanitario, quali il Dott. Andrea Albertin, Direttore del Reparto di Rianimazione e del Servizio di Anestesia dell’Ospedale San Giuseppe-Multimedica di Milano e Castellanza, nonché Professore presso l’Università degli Studi di Milano, ed i Dott.ri Massimo e Daniele Sher, esperti di comprovata esperienza nel campo Medico-chirurgico, Medico-legale. Istruita nel dettaglio, così, la vicenda, ed esperito anche il tentativo di mediazione previsto come condizione di procedibilità dalla legge (con esito negativo), con atto di citazione del 31.03.2015 venivano convenuti in giudizio dinnanzi al Tribunale di Milano sia l’Istituto clinico ove si era perpetrato l’atto sanitario, sia il medico anestesista che si era materialmente occupato della puntura spinale. In sede giudiziale l’attrice domandava dunque il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale subito, producendo copiosa documentazione e mettendo a disposizione diversi testimoni allo scopo di dimostrare tutti i molteplici risvolti pregiudizievoli, anche in ambito lavorativo, scaturiti dalla vicenda. Entrambi i convenuti si costituivano in Giudizio chiedendo il rigetto delle domande attoree; rivendicando la correttezza del proprio operato, a loro avviso reso più difficoltoso dalla condizione fisica della paziente (109 chili di peso al momento del ricovero); e denunciando di aver mostrato ogni scrupolo nella ricerca e nell’individuazione del punto ove inserire l’ago per l’anestesia. Si costituiva in giudizio anche l’Istituto Assicurativo coinvolto nel procedimento dal dottore, anestesista, il quale aveva domandato di essere dallo stesso garantito in caso di accertata responsabilità.

Nel corso del procedimento veniva esperita Consulenza Tecnica medico-legale d’Ufficio finalizzata ad evidenziare eventuali profili di responsabilità in capo ai convenuti, e, dunque, in caso di riscontro positivo, ad indicare e quantificare i danni etiologicamente connessi agli stessi.

All’esito delle operazioni peritali i Consulenti nominati non mettevano in discussione la sussistenza del lamentato danno (“All’arto inferiore di sinistra si evidenziano esiti distrofici in regione calcaneale … completo deficit di dorsiflessione del piede e dell’alluce, ipoestesia tattile e puntoria limitata però alla sola gamba. Per quanto riguarda i riflessi osteotendinei risultano ridotti se comparati con l’arto inferiore destro”), né tantomeno l’esistenza di un nesso eziologico in grado di ricollegare tale danno psico-fisico alla puntura lombare avvenuta in sede di parto cesareo (“Nel caso della sig.ra **** senza dubbio esiste un nesso ben identificato tra il deficit neurologico da lei subito e l’anestesia a cui fu sottoposta il giorno 04.01.2014”). Quanto, però, all’individuazione di specifici motivi di addebito, il Collegio peritale addiveniva ad un mancato riconoscimento di profili di colpevolezza, e dunque di responsabilità, in ragione – in primis – dell’asserita presenza di rilevanti caratteristiche fisiche/cliniche della paziente che nel caso di specie avrebbero condizionato il buon esito dell’atto medico, quali un’obesità congenita e presunte “varianti anatomiche” (un cono midollare più lungo del normale ed una Tethered Cord Syndrome); ed in secundis, della coincidenza tra il comportamento tenuto dal sanitario e quanto avviene “normalmente” in sede di anestesia spinale. Su quest’ultimo punto in particolare, infatti, i CTU rilevavano che il sanitario, mirando a pungere nell’intercapedine presente tra le vertebre L2 ed L3, e così poi pungendo per errore in eccesso nell’intercapedine superiore (tra le vertebre L2 ed L1) se non addirittura più in alto, ove ha sede il midollo spinale, non avrebbe comunque tenuto una condotta rimproverabile a titolo di colpa poiché il punto lombare scelto (tra L2 ed L3), seppur non consigliato poiché al di sopra della Linea di Tuffier (la linea intercorrente tra le vertebre L3 ed L4), sarebbe comunque quello “comunemente” scelto dagli operatori in casi consimili. E così, analogamente, l’operato del sanitario non dovrebbe ritenersi censurabile neppure per l’errata individuazione del punto esatto in cui pungere, e la conseguente immissione dell’ago spinale in uno spazio inter-vertebrale superiore rispetto a quello prefissato, in quanto tale errore sarebbe da considerarsi sempre scusabile, essendo compiuto “nel 51%” dei casi dal medico che effettua tale pratica medica, anche se esperto.

Sulla relazione dei Consulenti dell’Ufficio depositata il 12.09.2017 l’Avv. Luigi Lucente sollevava eccezione di nullità, chiedendo al Magistrato, in subordine, di domandare dei chiarimenti ai CTU. In particolare, l’Avv. Lucente soffermava l’attenzione sulla circostanza che tali presunte “varianti anatomiche” fossero in realtà il frutto di una distorta interpretazione del caso da parte dei periti dell’Ufficio, del tutto disancorata dalle reali risultanze documentali del processo, e che oltretutto le stesse, al pari della condizione di obesità, nella valutazione peritale non potessero comunque assurgere ad imprevedibile complicanza, in quanto a ben vedere la signora aveva invero già subito la medesima procedura anestesiologica tre anni prima, durante il parto cesareo avvenuto in occasione della nascita del primogenito, senza alcun tipo di complicanza o strascico di sorta. A fronte dell’istanza attorea, con ordinanza del 15.11.2017 il Giudice chiedeva ai propri Consulenti specifici chiarimenti. Dopodiché, rigettate le ulteriori istanze istruttorie, la causa veniva trattenuta in decisione.

IL VERDETTO.

In data 04.06.2019 il Tribunale di Milano, sez. I, Dott.ssa Massari, pubblicava la sentenza n. 5288/2019, con la quale prendeva le distanze dalle conclusioni dei Consulenti Tecnici dell’Ufficio, ed addiveniva ad un riconoscimento di responsabilità in capo ai convenuti. “Le conclusioni cui sono giunti i periti dell’ufficio non sono pienamente condivisibili, poiché parzialmente in contrasto con alcune affermazioni degli stessi periti”, si legge nel corpo della pronuncia. In buona sostanza l’Ill.mo Giudicante, sul punto “aderendo alle osservazioni della difesa dell’attrice”, ha affermato che se è vero che “la scienza medica consiglia «di introdurre l’ago per anestesia subaracnoidea non al di sopra della linea di Tuffier» ovvero a livello L4-L5”, allora necessariamente la condotta tenuta dal sanitario nel caso in esame non può che ritenersi censurabile, giacché “l’inserimento dell’ago, che avrebbe dovuto avvenire in L4-L5, è stato fatto in L1-L2 e dunque senza rispetto delle raccomandazioni scientifiche”. Di poco significato, infatti, venivano ritenute le considerazioni addotte dai CTU in perizia per cui il medico anestesista sarebbe giustificabile in quanto si sarebbe limitato a dar corso ad una qualche diffusa prassi, essendo che “tale considerazione risulta non determinante” per due ordini di ragioni: “poiché nel caso di specie l’introduzione dell’ago è [poi comunque] avvenuta attraverso l’interspazio L1-L2 … [e quindi] oltre il punto che, sebbene più alto, i consulenti dell’ufficio ritengono ‘tollerabile’ di L2-L3”; e tenuto conto di come, a ben vedere, gli stessi CTU sostengono in ogni caso che è sempre “bene scegliere il livello di accesso al rachide più basso possibile e che la puntura a livello L2-L3 espone ad un maggior rischio di puntura del cono midollare”. Inoltre, non sono state del pari ritenute meritevoli di condivisione le doglianze delle parti convenute volte ad addossare l’infausto evento alle connaturate condizioni fisiche e/o anatomiche della paziente, dato che queste – oltre a non trovare significativo riscontro in atti – ancor prima si appalesavano in contrasto con una circostanza non trascurabile e messa in grande risalto dalla difesa attorea, ossia che la signora tre anni prima avesse già partorito facendo ricorso sempre al parto cesareo con anestesia spinale, e che in quella occasione né la similare costituzione corporea (di 108 kg, contro i 109 kg del parto oggetto di esame), né tantomeno la presenza di indimostrate anomalie anatomiche aveva impedito o anche solo in qualche modo interferito con il corretto svolgimento della procedura spinale. Per cui a parere dell’Organo giudicante nel caso de quo deve ravvisarsi “imperizia dell’operatore nell’esecuzione dell’anestesia per aver introdotto l’ago in uno spazio intervertebrale non corretto”: in occasione del (secondo) parto cesareo avvenuto nel 2014, infatti, “la puntura spinale non è stata eseguita secondo la miglior scienza medica e con la dovuta prudenza, diligenza e perizia, dal medico anestesista”. Da qui dunque la condanna di entrambi i convenuti, struttura nosocomiale e medico anestesista, al risarcimento del danno subito dalla paziente. Con applicazione dei criteri equitativi e dei più noti barémes valutativi di matrice giurisprudenziale per la commisurazione delle singole sotto-voci di danno non patrimoniale, individuazione del danno patrimoniale da ristorarsi, ed aggiunta di rimborso delle spese di giudizio e di interessi.

Paziente curata per anni per una malattia che, invece, non aveva…

By Casi

Rappresentata e difesa dall’Avv. Luigi Lucente, la paziente curata per una patologia in realtà inesistente trovava ristoro per i danni non patrimoniali subiti.

CORREVA IL MESE DI SETTEMBRE 2002, quando una signora di 53 anni e residente nella provincia di Milano, mentre si recava sul posto di lavoro accusava un formicolio con origine agli arti inferiori, con offuscamento della vista e sensazione di svenimento. Una strana sensazione che, però, si risolveva spontaneamente in pochi minuti, permettendo alla signora di raggiungere la sua destinazione senza necessità di un intervento da parte degli astanti ovvero dell’ambulanza. Rimanendo tuttavia preoccupata per il proprio stato di salute, a distanza di appena qualche giorno la signora si recava presso una struttura ospedaliera del posto e si affidava ad un noto specialista in neurologia. Nel primo incontro, quest’ultimo eseguiva un esame obiettivo neurologico, e consigliava l’esecuzione di un RMN encefalo e di un Elettroencefalogramma (EEG) allo scopo di escludere una forma di epilessia temporale.

Nonostante gli accertamenti risultassero negativi e/o aspecifici, però, in occasione della visita successiva il sanitario – senza effettuare un periodo di osservazione clinica, ovvero alcun ulteriore accertamento neurofisiologico e senza altresì considerare ipotesi di diagnostica differenziale – effettuava immediatamente una diagnosi di epilessia con “crisi parziali” e, di conseguenza, prescriveva alla paziente una terapia farmacologica comiziale basata su carbamazepina (Tegretol 200 mg fino a 3 volte al dì).

Da allora passavano giorni, mesi e poi addirittura anni, nei quali la signora si recava con cadenza semestrale a visita dal dottore, senza che fosse mai eseguito alcun ulteriore approfondimento. Per tutto questo tempo, quindi, la stessa era convinta di avere una patologia invalidante ed a alto rischio di recidiva come l’epilessia, e per questa, oltretutto, assumeva una terapia farmacologica che le provocava fastidi e forti preoccupazioni quali, ad esempio, demotivazione, sonnolenza, affaticamento, sensibilità cutanea e perdita dei capelli.

In data 16 dicembre 2010, però, la svolta: per mero scrupolo e dietro insistenza della figlia, la signora si determinava a rivolgersi ad un altro specialista neurologo presso differente Istituto Neurologico di Milano per avere un differente parere specialistico, e, in quella sede, il nuovo specialista metteva subito in forte dubbio la natura epilettica dei fenomeni accessuali descritti, prescrivendo alcuni esami strumentali ( quali il polisonnogramma) volti ad uno approfondimento diagnostico dai quali otteneva in poco tempo la conferma di un’agghiacciante verità…

Nel caso della signora, “non si osservano anomalie di significato epilettogeno”…

Da lì a poco, quindi, la stessa smetteva di assumere la terapia farmacologica antiepilettica senza comunque mai manifestare alcun tipo di nuovo evento riconducibile a tale patologia.

A FRONTE DEI FATTI OCCORSI la paziente si rivolgeva allo Studio Legale Lucente al fine di veder tutelati i propri diritti e, così, ottenere il risarcimento per i danni subiti per l’aver ritenuto per anni di essere affetta da un patologia in realtà insussistente, nonché per l’inutile assunzione di un farmaco antiepilettico.

Con atto di citazione notificato in data 21.01.2015, venivano convenuti in giudizio dinnanzi al Tribunale di Milano sia l’Istituto clinico presso il quale la paziente si era recata a visita per tutti questi anni, sia il neurologo che l’aveva seguita fin dalla prima visita e per tutto l’iter diagnostico-terapeutico. In sede giudiziale l’attrice domandava il ristoro del danno patrimoniale e non patrimoniale subito, e a sostegno della sua tesi veniva prodotta diversa documentazione comprovante lo stato di malessere in cui la stessa era versata a causa dell’assunzione del farmaco.

Sia il nosocomio che il sanitario convenuti si costituivano in Giudizio.

Nel corso del procedimento veniva esperita Consulenza Tecnica medico-legale d’Ufficio mirata ad evidenziare eventuali profili di responsabilità in capo ai convenuti, e così ad individuare e quantificare i danni psico-fisici patiti dall’attrice in nesso di causa con gli stessi.

All’esito della valutazione peritale, i Consulenti medici del Tribunale pur giustificando – in modo peraltro discutibile – l’iniziale diagnosi, ritenendo che i denunciati sintomi “potevano accordarsi ed essere inquadrati nell’ambito di crisi epilettiche parziali con e senza generalizzazione”, precisavano, quantomeno e comunque, che, in casi consimili, “le revisioni di letteratura attuali considerano la possibilità di sospendere la terapia in un range tra i due e i quattro anni dall’inizio del trattamento”, cosa che , diversamente e colposamente, nel caso di specie, non era mai stata presa neppure in considerazione.

Il Tribunale senza dare ascolto alle critiche attoree – che denunciavano la frettolosità e sufficienza della diagnosi di una malattia così grave senza indagare preventivamente ipotesi alternative, non adeguatamente considerate in sede di Consulenza dai Periti del Tribunale – tratteneva la causa in decisione.

IN DATA 28.05.2018 IL TRIBUNALE DI MILANO PUBBLICAVA LA SENTENZA N. 2965/2018, enunciando nel corpo della stessa quanto qui di seguito riportato: “Ritiene il Tribunale rilevabile a carico del professionista convenuto una violazione delle regole di perizia e prudenza professionale laddove non procedeva alla sospensione del farmaco a distanza di due anni dall’ultima crisi parziale comiziale presentata dalla paziente […] e databile al gennaio 2005… Ne deriva che dal gennaio 2007, in applicazione delle regole di prudenza nella valutazione di costi/benefici della cura, il professionista convenuto avrebbe dovuto: informare la paziente della opportunità di sospendere il farmaco e dei tempi di attuazione a tal fine indicati dai protocolli in allora in essere; procedere alla prescrizione di nuove e risolutive indagini diagnostiche per immagini e a EEG prolungato; valutarne gli esiti, verosimilmente negativi. Gli adempimenti indicati, che non risultano essere stati osservati, avrebbero portato un neurologo diligente a sospendere la terapia”.

Con precipuo riferimento, poi, al danno subito dalla paziente, il Tribunale meneghino affermava il principio di diritto della risarcibilità “non solo delle lesioni all’integrità fisica derivanti da diagnosi e cure erroneamente prestate per una malattia inesistente, o meno grave, ma specificamente, della sofferenza morale correlata a quella specifica violazione”. Il richiamo del Giudice in proposito è, infatti, a Cass. n. 1551/2007; sentenza nella quale si afferma: “poiché l’intervento del medico riguarda non tanto o non solo la fisicità del soggetto ma la persona nella sua integrità (si cura non la malattia ma il malato), è ragionevole ritenere che eventuali errori diagnostici compromettano, oltre alla salute fisica, l’equilibrio psichico della persona”.

Fatto proprio, infatti, l’insegnamento della citata pronuncia, l’Ill.mo Giudicante considerava come, anche nel caso di specie: “può ravvisarsi quale conseguenza dell’inadempimento addebitabile all’esercente la professione sanitaria un danno non patrimoniale risarcibile anche in assenza di un danno biologico individuabile secondo le bareme medico legali in uso… Non può sottacersi che parte attrice presentava un forte disagio fisico avendo sofferto di disturbi che, sebbene non integranti uno stato di vera e propria patologia […] provocavano tuttavia uno stato di costante malessere fisico, con significative ripercussioni sul tono dell’umore e del complessivo benessere psicofisico della persona. Basti pensare al defluvium capillare ed alla incidenza che tale disturbo comporta in una donna nella percezione di sé; ai problemi dermatologici ed ai fastidi correlati all’esposizione alla luce solare, alla stanchezza cronica ed allo stato di sonnolenza usualmente associati all’assunzione prolungata di farmaci antiepilettici. Da ultimo, ma non meno importante, non può essere ignorata e deve trovare adeguato ristoro la sofferenza della signora derivante dal sentirsi sottoposta per quattro lunghi anni ad un rischio, in realtà inesistente, di reiterazione di attacchi epilettici così significativo da non poter procedere ad una sospensione della terapia ed inevitabilmente incidente nelle dinamiche relazionali e nelle scelta della vita quotidiana della paziente”.

Tutte queste circostanze, quindi, giustificavano la condanna solidale dei convenuti al risarcimento del danno non patrimoniale subito dalla signora, nella somma liquidata in via equitativa dal Giudicante.

Intervento di riallineamento rotuleo non indicato e dannoso

By Casi
Intervento di riallineamento rotuleo non indicato e dannoso. Risarcimento alla paziente per i danni fisici subiti e per la mancata e distorta informazione resa dai sanitari.

La paziente – rappresentata dall’Avv. Luigi Lucente, coadiuvato dal consulente tecnico di parte Dott.ssa Anna Carla Pozzi, specialista in ortopedia – nel 2013, aveva chiesto giustizia al Tribunale di Lucca perché, innanzitutto, venisse accertata la responsabilità di un ortopedico toscano, professore di fama nazionale, all’epoca operante presso una struttura sanitaria del territorio, per averla sottoposta, nel 2008, ad un intervento a “cielo aperto” di “riallineamento rotuleo”, diverso da quello di “artroscopia di ginocchio”, che le era stato suggerito come indicato per il suo problema di salute (sofferenza osteocondrale dei condili femorali) e per cui, in qualità di paziente, era stata informata e aveva prestato il consenso all’operazione.

La paziente, quindi, era stata informata che sarebbe stata sottoposta ad un certo tipo di intervento in artroscopia, mentre al risveglio dall’anestesia scopriva di essere stata trattata con un bisturi per un’alterazione a carico della rotula che sconosceva.

Purtroppo, tale diverso trattamento chirurgico oltre che del tutto inutile era stato anche dannoso, avendo cagionato alla paziente un’invalidità finale del 18%, in altri termini rendendola zoppa all’età di 26. Conseguentemente, quest’ultima pretendeva di essere risarcita per tutti i danni subiti, alla salute e per la mancata prestazione di un consenso informato all’intervento cui era stata sottoposta.

Dopo un processo durato ben 4 anni – durante i quali, la struttura sanitaria che aveva deciso di partecipare al processo (i sanitari invece erano rimasti contumaci) si era difesa sostenendo che la paziente fosse portatrice anche di un’alterazione a carico della rotula (in particolare di una sublussazione rotulea del ginocchio sinistro), che, a suo dire, giustificava il trattamento chirurgico effettuato – con la sentenza n. 1278/2017 del 17 giugno 2017 (pubblicata il 22 giugno 2017), il Tribunale di Lucca, nella persona del Giudice Dott.ssa Alice Croce, ha dato pienamente ragione alla paziente e ha condannato ospedale e medici a pagarle un importante risarcimento, motivando la decisione in questi termini:

“L’espletata consulenza specialistica permette di valutare la sussistenza della responsabilità medica in capo ai chirurghi che ebbero ad operare […].

Le evidenze documentali fanno riferimento a due patologie distinte e non connesse: la sofferenza osteocondrale dei condili femorali e la sublussazione rotulea del ginocchio sinistro. Nella prospettazione attorea, la patologia della quale era affetta S.B. era solo la prima e solo in relazione a questa ella avrebbe prestato il proprio consenso informato, talchè l’intervento eseguito dovrebbe ritenersi inutile e dannoso. Simile prospettazione è stata confermata dal tecnico incaricato dall’ufficio. […]

L’intervento eseguito deve dunque considerarsi frutto di negligente e imperita diagnosi del caso concreto, tanto che nessun miglioramento è derivato alla problematica osteocondritica originaria, risultata immodificata.

Dato il carattere invasivo dell’intervento, definito dal c.t.u. come destruente e foriero di importanti complicanze, S.B. ha subito danni patrimoniali e non, che devono essere risarciti.

La responsabilità risarcitoria grava su tutti i convenuti in solito. In particolare mentre i chirurghi che hanno operato la paziente rispondono per il fatto proprio, l’azienda sanitaria risponde per il fatto degli ausiliari ai sensi dell’art. 1228 c.c.

Venendo all’esame delle istanze risarcitorie, è opportuno analizzare partitamente le voci azionate. Certa è la sussistenza di un danno biologico […]

All’attrice deve essere poi riconosciuta una personalizzazione del danno, per la modificazione che ne è conseguita alle attività della vita relazionale, che è circostanza ritenibile in via presuntiva, avendo accertato il c.t.u. la negativa incidenza, nella misura del 30% sulle attività motorie che presuppongano validità funzionale degli arti inferiori […].

Quanto alla invocata lesione del diritto di autodeterminazione della paziente , a causa della mancata prestazione di un consenso informato alla sottoposizione all’intervento e, quindi, dell’impedimento ad una scelta terapeutica consapevole, […] è da ritenersi che il relativo diritto sia stato leso, a causa dell’inadempimento contrattuale dei sanitari convenuti, che hanno acquisito il consenso informato dalla paziente solo per l’intervento di artroscopia, come risulta dal modulo sottoscritto contenuto in cartella clinica. Né una prova documentale può essere smentita dall’escussione testimoniale chiesta dall’azienda sanitaria […] Deve essere pertanto riconosciuta la lesione del diritto all’autodeterminazione personale, quale diritto di disporre del proprio corpo scegliendo consapevolmente, perché pienamente informati, a quali trattamenti sanitari sottoporsi, quale diritto autonomo e distinto rispetto a quello alla salute e meritevole di autonomo risarcimento. Costituisce massima giurisprudenziale consolidata quella secondo cui il consenso informato attiene al diritto fondamentale della persona all’espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico (Corte Cost. sent. 438/2008) e quindi alla libera e consapevole autodeterminazione del paziente (Cass. Sent. 12830/2014) atteso che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento se non per disposizione di legge (art. 32, comma 2 Cost.). Il trattamento medico terapeutico ha viceversa riguardo alla tutela del diverso diritto fondamentale alla salute (art. 32, comma 1 Cost.). Quanto alla liquidazione è da ritenersi che tale pregiudizio che trova idonea collocazione nel risarcimento del danno non patrimoniale complessivamente patito dal soggetto, possa essere adeguatamente ristorato procedendo ad un’ulteriore personalizzazione del danno biologico tramite un incremento pari al 25%. Ciò al fine di assicurare l’integralità del risarcimento del danno non patrimoniale subito, principio che impone al giudice di accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, individuando quali ripercussioni si siano verificate sulla persona e provvedendo alla loro integrale riparazione. […]”.

Assolta psichiatra accusata di essere responsabile di un duplice efferato omicidio…

By Casi

Assolta psichiatra accusata di essere responsabile dell’efferato omicidio commesso da un uomo affetto da disturbi psichici ai danni dei genitori

Nell’inverno del 2014 una psichiatra si rivolge allo Studio Legale Lucente dopo aver ricevuto un atto in cui la si accusava di non aver colposamente ricoverato un uomo che di lì a poco avrebbe ucciso i suoi genitori.

La vicenda prende le mosse da un tragico fatto di cronaca nera avvenuto nell’hinterland milanese. Un uomo affetto da Schizofrenia Paranoidea Cronica che era stato dimesso dall’ospedale due volte a distanza di poche ore, una volta tornato a casa commetteva il feroce omicidio di entrambi i genitori; un reato sanguinolento che scosse un’intera comunità, e che trovò nella propria agghiacciante modalità di esecuzione una cassa di risonanza mediatica coinvolgente diversi tra i mass-media sia locali che nazionali.

Erano le ore 20.40 di una sera d’inverno, quando l’uomo poco più che quarantenne si recava insieme alla madre al Pronto Soccorso a causa di episodi di agitazione accompagnati da riduzione dell’appetito ed insonnia. In ospedale l’uomo veniva subito sottoposto a visita dalla psichiatra di turno, che al colloquio valutava il paziente come “vigile, lucido, sufficientemente orientato e accessibile al dialogo”, seppur “non in grado di descrivere i propri contenuti ideici e il proprio malessere”. Dopo aver eseguito gli accertamenti del caso e praticato una terapia farmacologica, il sanitario riteneva di poter dimettere il paziente, riaffidandolo alle mani del medico curante che lo seguiva per tale patologia fin dal lontano 1992.

Nonostante le recenti dimissioni, però, la mattina del giorno seguente l’uomo si presentava di nuovo al Pronto Soccorso, questa volta accompagnato da entrambi i genitori, dove veniva sottoposto a visita psichiatrica dalla medesima dottoressa che non aveva ancora terminato il proprio turno in ospedale.

Anche in tal caso, durante il consulto la psichiatra non poteva che constatare il semplice persistere della riacutizzazione dei sintomi cronici della patologia, in un soggetto che comunque si presentava collaborante e senza manifesta ansia obiettivabile, né agitazione. In tal caso si manifestava un “vissuto di angoscia correlato a idee a stampo paranoideo e relative dispercezioni acustiche [sentire delle voci nella testa], ma senza presentare alcuna ideazione autolesiva/anticonservativa, né franco scompenso”. Per questi motivi, il medico, valutato lo stato del paziente, preso atto degli elementi clinici e anamnestici, e considerata ogni altra circostanza, non riteneva anche in questo caso vi fossero gli estremi per il ricovero del paziente, e pertanto, ne disponeva nuovamente le dimissioni.

Nulla, a questo punto, pare avrebbe potuto far presagire al sanitario l’escalation di violenza che da lì a qualche ora si sarebbe verificata: l’insorgere di un’improvvisa intuizione delirante la sera stessa delle ultime dimissioni portava il figlio a ritenere che fosse in atto contro di lui un complotto da parte dei genitori, e di conseguenza, preda di tale impulso, questo giungeva alla conclusione di doversi immediatamente difendere da costoro e iniziava a colpirli con pesanti oggetti trovati all’interno dell’abitazione.

Quella stessa sera una chiamata raggiungeva le Forze dell’Ordine e dall’altra parte della cornetta la voce di un uomo chiedeva l’immediato intervento dei Carabinieri, pronunciando le seguenti parole: “i miei genitori mi volevano ammazzare e li ho ammazzati io”. Successivamente la voce al telefono si interrompeva, e si udiva in sottofondo una serie di colpi provocati da un qualche corpo contundente, chiusa dal rumore sordo di un oggetto di vetro che, cadendo, andava in frantumi.

Giunti presso il domicilio, la scena che i militari si trovavano davanti era raccapricciante: i corpi di entrambi i genitori giacevano al suolo, esanimi, oramai privi di vita; il corpo del padre era stato colpito più e più volte alla testa con un pesante posacenere; lì vicino, il cadavere della madre allo stesso modo martoriato sotto i colpi di un oggetto contundente; infine, accanto a quest’ultimo, l’inquietante visione dei cocci insanguinati di un portafiori in vetro, che facevano sospettare agli inquirenti che il duplice omicidio potesse essersi consumato addirittura mentre l’omicida si trovava ancora al telefono con la centrale operativa.

Da lì l’arresto immediato dell’individuo, affidato la notte stessa nelle mani della Giustizia, e sottoposto nei giorni seguenti a una serie di valutazioni psichiatriche post-evento. L’omicida dopo un rapido processo veniva accusato di essere l’autore del duplice delitto e, poiché al momento dei fatti ritenuto incapace di intendere e volere, veniva sottoposto alla misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario per una durata non inferiore ad anni dieci.

La vicenda, tuttavia, non si esauriva qui!

Infatti, a circa un anno di distanza dal drammatico accadimento, i parenti delle vittime provvedevano a notificare un atto di citazione in giudizio sia alla dottoressa che aveva visitato il paziente, sia alla struttura sanitaria presso la quale questa aveva operato, invitando entrambe a comparire davanti al Tribunale di Monza. Nel proprio atto costoro sostenevano che la condotta parricida del soggetto coinvolto non poteva che essere l’inevitabile conseguenza dell’omissione della psichiatra dell’ospedale, la quale a loro dire avrebbe potuto e dovuto impedire il duplice omicidio trattenendo il soggetto all’interno del nosocomio. Nei confronti delle due convenute, quindi, i parenti chiedevano al Giudice la condanna al risarcimento dei danni personalmente patiti a causa della rottura del legame di parentela che intercorreva tra ciascuno di loro e le vittime.

Fin da subito la dottoressa provvedeva ad incaricare l’Avv. Luigi Lucente e l’Avv. Orietta Grazioli per farsi rappresentare e difendere nel suddetto procedimento. Prontamente i legali indicavano la figura del noto psichiatra forense Prof. Renato Ariatti quale Consulente Tecnico di Parte da cui farsi affiancare e coadiuvare nell’impostazione della tesi difensiva.

Prima di tutto i procuratori evidenziavano come l’unica prospettiva corretta per giudicare l’operato della psichiatra fosse quella di “indossare i suoi panni”; di considerare, cioè, quale fosse la condizione clinica del paziente de visu obiettivabile nel momento in cui era stato visitato in Pronto Soccorso; quale fosse, in base alla ridetta evidenza clinica, la cura adeguata che il sanitario era tenuto ad approntare; e verificare, dunque, se l’evento aggressivo posto in essere dal paziente fosse ex ante prevedibile e/o riconducibile al momento del consulto psichiatrico.

Operando in tal guisa, sostenevano i legali, si poteva constatare che al momento degli accessi al Pronto Soccorso la sintomatologia presentata dal paziente non era certo compatibile con una fase di destabilizzazione acuta, poiché nulla si evidenziava in termini di turbe comportamentali, né venivano esternati propositi di carattere aggressivo. Inoltre, la dottoressa trovava davanti a sé un uomo che mai in anamnesi, né in quella attuale né in quella remota, aveva manifestato intenzionalità eteroaggressive, né altri fattori dinamici individuati dalla letteratura medica come importanti per una valutazione e gestione del rischio violenza, quali “comportamento ostile, scarso controllo degli impulsi, uso di alcol e/o abuso di droga, mancanza di insight, punteggi elevati ai sintomi psicotici, e non aderenza alle terapie”. E senza considerare il fatto che, a detta dei genitori che lo accompagnavano, già in passato erano emersi comportamenti analoghi, tuttavia mai sfociati in violenza e sempre risolti tramite correzioni dei protocolli farmacologici. Difatti, come risultava dalle carte, in molti anni il soggetto non aveva avuto mai necessità di essere ricoverato per fronteggiare i propri disagi e le proprie riacutizzazioni sintomatologiche. Anzi, in un’unica datata circostanza risalente a più di dieci anni prima il paziente era stato accolto in reparto, ma la degenza era esitata in un’esperienza negativa poiché si era spaventato e angosciato, con auto-dimissione contro il parere medico dopo sole ventiquattrore.

A tutto ciò, poi, concludevano gli Avv.ti Lucente e Grazioli, si aggiunga che – a riconferma dell’imprevedibilità del fatto – al momento degli ingressi in Pronto Soccorso emergeva non solo l’assenza di alcun coinvolgimento dei genitori nel delirio o nei fenomeni allucinatori del figlio, ma anche, al contrario, la rappresentazione dei genitori come unica garanzia di protezione e sicurezza agli occhi del soggetto. Nel caso in questione, infatti, al momento degli accertamenti non vi era alcun indicatore di conflittualità familiare, né della possibilità che la coesione familiare che aveva da sempre contraddistinto il rapporto del figlio con il padre e la madre potesse lacerarsi. E a dimostrazione di ciò il fatto che durante il primo accesso il paziente richiedeva espressamente la presenza della madre, spiegando di voler che ella non si allontanasse, e allo stesso modo, la mattina seguente, sempre lo stesso rispondeva al sanitario di volere accanto i genitori durante lo svolgimento del consulto psichiatrico.

Inoltre, a supporto probatorio della tesi difensiva del sanitario, gli avvocati fornivano al Tribunale alcune dichiarazioni rilasciate nell’immediatezza dei fatti da parte del sindaco della cittadina dove era avvenuto l’efferato omicidio, nonché da parte di persone che conoscevano il ragazzo e la sua particolare situazione, i quali tuttavia confermavano si trattasse comunque di “un soggetto tranquillo”, che non aveva mai dato “segnali di pericolo”, tant’è che, spiegavano, fino a quel giorno “nulla poteva lasciar presagire una cosa del genere”.

Orbene, a fronte di tutto ciò risulta evidente come l’evento delittuoso non poteva essere in alcun modo previsto dalla dottoressa, la quale correttamente valutava le rilevanze anamnestiche e diagnostiche e, non essendo nella condizione di poter prevedere il tragico evento, riteneva di dimettere il paziente. D’altronde, chiosavano i difensori, questo è l’input dato anche dall’attuale normativa di legge (L. n. 833 del 23 dicembre 1978) che ha determinato una svolta nella cura delle malattie mentali, essendo caduta la vecchia equazione “malattia mentale = pericolosità” in favore di un trattamento sanitario obbligatorio (cd. TSO) che si colloca in una prospettiva esclusivamente terapeutico-sanitaria e non più in mere ragioni di contenimento e di sorveglianza di soggetti affetti da malattie psichiche.

Nel prosieguo del processo, il Consulente Tecnico nominato appositamente dal Giudice depositava un elaborato tecnico sulla vicenda, nel quale avvalorava la tesi difensiva sostenuta dagli Avv.ti Lucente e Grazioli ponendo con forza l’attenzione sulla necessità di una valutazione allo status quo ante rispetto al duplice omicidio: “per accertare se vi fossero elementi per poter diagnosticare uno scompenso psicotico acuto bisogna rifarsi agli unici elementi oggettivi che erano in possesso della dottoressa al momento dell’accesso in Pronto Soccorso e non, chiaramente, da ciò che è avvenuto dopo, e sono la storia clinica e lo stato clinico del paziente. […] La storia clinica del paziente delinea un paziente affetto da psicosi cronica, seguito da vent’anni da uno specialista privato, con una terapia appropriata ad un quadro psicotico, ma ad un dosaggio basso che fa pensare ad una stabilizzazione del quadro più su un versante deficitario residuale che ad una patologia francamente produttiva. Altro elemento che non indica o predice un grave scompenso psicotico è che il paziente in ventidue anni di malattia non è mai stato ricoverato in un reparto di psichiatria, se non per una volta per poche ore, pur essendosi recato più volte in pronto soccorso. […] Lo stato clinico è quello di un paziente che presenta da circa una settimana una sintomatologia ingravescente, ma non specifica … non vengono descritte e quindi verosimilmente non sono presenti alterazioni comportamentali o agitazione psicomotoria … non è rilevata, né riferita, nessuna conflittualità con i familiari che accompagnano il paziente … Non sono riferiti pregressi episodi di aggressività etero-diretta da parte del paziente, né l’uso di sostanze stupefacenti, né il paziente mostra atteggiamenti ostili o disforia durante il colloquio”.

Per questi motivi il Consulente concludeva che allo stato dei fatti “non vi erano né al momento della prima né al momento della seconda valutazione elementi che facessero propendere per la necessità di un ricovero del paziente”. In applicazione della normativa vigente e nel rispetto dei protocolli e delle indicazioni della letteratura medica di settore, infatti, il semplice fatto di soffrire di una malattia a livello psichiatrico non poteva e non doveva comportare di per sé l’automatico ricovero del paziente. A seguito della riforma, sottolineava il perito del Tribunale, è scomparso il concetto di pericolosità (e quindi della funzione di custodia per motivi di pubblica sicurezza) in favore di una valutazione incentrata sul concetto di “trattamento sanitario”, sulla tutela del paziente, e che considera il ricovero quale extrema ratio applicabile solo in assenza di alternative terapeutiche, o qualora – citando letteralmente l’art. 34 della L. 833/78 – “non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere”.

Con la sentenza n. 2197/2017 il Tribunale di Monza ha aderito alla relazione del proprio consulente, e pertanto ha rigettato la domanda risarcitoria degli attori, sancendo l’assenza di qualsivoglia responsabilità attribuibile alla dottoressa e/o alla struttura sanitaria convenute. Oggi le stesse, dunque, sono state sgravate dalla importante domanda risarcitoria avanzata nei loro confronti, e ancor prima da ogni accusa a loro mossa circa la responsabilità giuridica (e morale) di non aver impedito il duplice omicidio: i fatti di quella notte non sono stati il risultato di un caso di malasanità, ma la conseguenza di uno sciagurato evento che nessuno purtroppo avrebbe potuto prevedere.

Sottopasso trappola: ecco cosa accade quando piove e l’amministrazione non provvede.

By Casi

Fosse successo a Venezia sotto il Ponte di Rialto probabilmente nessuno si sarebbe scandalizzato; ma siamo, invece, in un’altra città del nord Italia, dove le strade sono fatte di cemento e, normalmente, la barca non serve.

Vi raccontiamo la storia di un cliente dello Studio legale Lucente che, all’esito di un processo, ha visto soddisfatte le proprie pretese, e cioè riconosciuto il diritto al risarcimento di tutti i danni subiti per essere rimasto intrappolato a bordo del proprio autoveicolo in un sottopasso allagato.

Erano le 05.19 di mattina del 26 luglio ed era ancora buio quando il Sig. G.M., a bordo di un’auto Audi Q7, imboccava il sottopasso di un’importante arteria cittadina e tutt’a un tratto si ritrovava immerso nell’acqua ivi accumulatasi per la pioggia caduta durante la notte. La macchina si spegneva e il G.M. si ritrovava bloccato all’interno del sottopasso allagato, insieme ad un altro malcapitato che conduceva un taxi che, appena dietro, seguiva l’autoveicolo di G.M. e che, a sua volta, non riusciva ad evitare l’evento sinistroso.

Sul luogo accorrevano i Vigili del Fuoco, che, tramite l’ausilio di un verricello, trainavano la vettura di G.M. all’asciutto e prestavano soccorso anche all’altro mezzo rimasto in panne.

A seguito dell’infelice vicenda, il Sig. G.M. (conducente del veicolo in questione) si rivolgeva, come detto, allo Studio Legale Lucente per vedere tutelati i propri diritti, e quindi risarciti i danni provocati all’auto rimasta “incagliata” nel sottopasso.

Il 09.02.2015 veniva così regolarmente notificato atto di citazione al Comune ed instaurato il procedimento dinnanzi all’Autorità Giudiziaria. Le pretese attoree erano rivolte a veder dichiarare responsabile il Comune dei danni cagionati al veicolo Audi Q7, per non avere questa pubblica amministrazione provveduto alla manutenzione e alle altre opere derivanti dalla custodia della cosa pubblica, di cui è responsabile ai sensi dell’art. 2051 c.c. (“Ciascuno è responsabile delle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”), e quindi vederla condannare al risarcimento del danno derivante.

La convenuta amministrazione comunale si costituiva tempestivamente e, in primis, adduceva a propria discolpa l’eccezionalità del fronte temporalesco costituente – a suo dire – caso fortuito; secondariamente, incolpava dell’evento il conducente Sig. G.M., il quale – a detta del Comune – avrebbe dovuto essere in grado di evitare l’evento e quindi (ai sensi dell’art. 1227 c.c.) ne avrebbe dovuto pagare lui stesso le conseguenze; e, infine, chiamava, comunque, in causa la Società incaricata della manutenzione del sottopasso che – sempre a detta del Comune – sarebbe stata inadempiente, con particolare riferimento al mancato spurgo dei chiusini di smaltimento delle acque piovane.

Nella fase istruttoria del giudizio venivano esperiti interrogatorio formale del Sig. G.M., audizione testimoniale di uno dei Vigili del Fuoco intervenuti quella mattina, nonché audizione di un testimone oculare accorso sul luogo del sinistro subito dopo l’evento. E così, una volta ritenuta la causa matura per la decisione, in data 14 luglio 2016 il Giudice giungeva al verdetto (depositato in cancelleria in data 22 ottobre e avente numero 9701/2016).

In prima battuta, in merito alla responsabilità dell’amministrazione comunale per la custodia del sottopasso, il Giudice ha ritenuto che: “Il Comune di [omissis], allorquando si tratta di zone sensibili di tratti viari, […] ha il dovere di porre in essere le dovute cautele, pertanto la fattispecie per cui è causa è senz’altro riconducibile all’alveo di responsabilità di cui all’art. 2051 c.c[…] L’avvenuto nubifragio, iniziato peraltro fin dalla sera precedente, non esime l’Amministrazione Comunale dagli obblighi incombenti ex art. 2051: le precipitazioni meteoriche violente e concentrate per quantità di acqua riversata sono ormai da qualche anno, in certe stagioni, assai frequenti e non fatti eccezionali”.

Nessun accoglimento, peraltro, hanno trovato le pretese del Comune nei confronti della Società incaricata della manutenzione del sottopasso: “Non sono emersi neppure profili di responsabilità ascrivibili alla terza chiamata, atteso che il teste vigile del fuoco precisava di non aver riscontrato particolari problematiche sul deflusso delle acque, né vi sono stati interventi o richieste per intervenire sugli scarichi malfunzionanti di quel tratto”.

A questo punto non ci si può però esimere dal precisare come la fattispecie de qua costituisca un comune esempio di ciò che in diritto viene chiamato “trabocchetto” o “insidia”.

Buche, basoli sconnessi, manto stradale sdrucciolevole, gradini ‘invisibili’, addirittura tombini aperti; sono tutti esempi di insidie stradali che possono costituire un pericolo per il cittadino, così come allo stesso modo un sottopasso allagato può costituirlo per un ignaro automobilista. In ogni caso, le caratteristiche di un’insidia si devono ricercare nella imprevedibilità soggettiva e nella invisibilità: la differenza cromatica del sanpietrino fuori posto, la segnaletica stradale, una buona illuminazione notturna, fra le altre cose, possono così risultare fondamentali per la qualificazione del sinistro come insidia o trabocchetto. Nel caso de quo, questi elementi possono rilevare ai fini del concorso di colpa del conducente Sig. G.M. che, secondo il Comune, avrebbe dovuto/potuto prevedere l’allagamento del sottopasso, avrebbe dovuto/potuto avvedersi del crescente livello dell’acqua e, in sostanza, avrebbe dovuto/potuto evitare l’evento dannoso. Il Giudice, analizzati i fattori rilevanti e le circostanze del caso concreto, portate alla Sua attenzione dalla Difesa del Sig. G.M., ha così deciso: “La condotta di guida in questi casi può dipendere da vari fattori, né si può pretendere che le persone adottino la migliore condotta di guida in assoluto, giacché i tempi di reazione di ognuno sono diversi e variano anche dal grado di avvistabilità dell’insidia, che è rimasta un dato incerto, ovvero dalla possibilità di valutare effettivamente la percorribilità del tratto, sia pur allagato, calcolando il livello dell’acqua, ma va tenuto conto del comportamento di un utente medio ed in questo caso perfino il taxi guidato da un professionista non riusciva ad evitare l’insidia”.

Insomma, il Giudice, per questi motivi: “Accertata e ritenuta la responsabilità del Comune di [omissis], ex art. 2051 lo condanna al risarcimento del danno…”.

Nel caso di specie, il Comune è stato ritenuto responsabile, in quanto, avendo l’obbligo di custodire la strada, avrebbe dovuto immediatamente porre rimedio all’insidia venutasi a creare e, altrettanto, immediatamente avrebbe dovuto segnalare chiaramente il pericolo agli ignari automobilisti. Poiché tutto ciò non è avvenuto e non è stato pertanto dimostrato in giudizio, il Comune è stato condannato.