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Rappresentata e difesa dall’Avv. Luigi Lucente, la paziente curata per una patologia in realtà inesistente trovava ristoro per i danni non patrimoniali subiti.

CORREVA IL MESE DI SETTEMBRE 2002, quando una signora di 53 anni e residente nella provincia di Milano, mentre si recava sul posto di lavoro accusava un formicolio con origine agli arti inferiori, con offuscamento della vista e sensazione di svenimento. Una strana sensazione che, però, si risolveva spontaneamente in pochi minuti, permettendo alla signora di raggiungere la sua destinazione senza necessità di un intervento da parte degli astanti ovvero dell’ambulanza. Rimanendo tuttavia preoccupata per il proprio stato di salute, a distanza di appena qualche giorno la signora si recava presso una struttura ospedaliera del posto e si affidava ad un noto specialista in neurologia. Nel primo incontro, quest’ultimo eseguiva un esame obiettivo neurologico, e consigliava l’esecuzione di un RMN encefalo e di un Elettroencefalogramma (EEG) allo scopo di escludere una forma di epilessia temporale.

Nonostante gli accertamenti risultassero negativi e/o aspecifici, però, in occasione della visita successiva il sanitario – senza effettuare un periodo di osservazione clinica, ovvero alcun ulteriore accertamento neurofisiologico e senza altresì considerare ipotesi di diagnostica differenziale – effettuava immediatamente una diagnosi di epilessia con “crisi parziali” e, di conseguenza, prescriveva alla paziente una terapia farmacologica comiziale basata su carbamazepina (Tegretol 200 mg fino a 3 volte al dì).

Da allora passavano giorni, mesi e poi addirittura anni, nei quali la signora si recava con cadenza semestrale a visita dal dottore, senza che fosse mai eseguito alcun ulteriore approfondimento. Per tutto questo tempo, quindi, la stessa era convinta di avere una patologia invalidante ed a alto rischio di recidiva come l’epilessia, e per questa, oltretutto, assumeva una terapia farmacologica che le provocava fastidi e forti preoccupazioni quali, ad esempio, demotivazione, sonnolenza, affaticamento, sensibilità cutanea e perdita dei capelli.

In data 16 dicembre 2010, però, la svolta: per mero scrupolo e dietro insistenza della figlia, la signora si determinava a rivolgersi ad un altro specialista neurologo presso differente Istituto Neurologico di Milano per avere un differente parere specialistico, e, in quella sede, il nuovo specialista metteva subito in forte dubbio la natura epilettica dei fenomeni accessuali descritti, prescrivendo alcuni esami strumentali ( quali il polisonnogramma) volti ad uno approfondimento diagnostico dai quali otteneva in poco tempo la conferma di un’agghiacciante verità…

Nel caso della signora, “non si osservano anomalie di significato epilettogeno”…

Da lì a poco, quindi, la stessa smetteva di assumere la terapia farmacologica antiepilettica senza comunque mai manifestare alcun tipo di nuovo evento riconducibile a tale patologia.

A FRONTE DEI FATTI OCCORSI la paziente si rivolgeva allo Studio Legale Lucente al fine di veder tutelati i propri diritti e, così, ottenere il risarcimento per i danni subiti per l’aver ritenuto per anni di essere affetta da un patologia in realtà insussistente, nonché per l’inutile assunzione di un farmaco antiepilettico.

Con atto di citazione notificato in data 21.01.2015, venivano convenuti in giudizio dinnanzi al Tribunale di Milano sia l’Istituto clinico presso il quale la paziente si era recata a visita per tutti questi anni, sia il neurologo che l’aveva seguita fin dalla prima visita e per tutto l’iter diagnostico-terapeutico. In sede giudiziale l’attrice domandava il ristoro del danno patrimoniale e non patrimoniale subito, e a sostegno della sua tesi veniva prodotta diversa documentazione comprovante lo stato di malessere in cui la stessa era versata a causa dell’assunzione del farmaco.

Sia il nosocomio che il sanitario convenuti si costituivano in Giudizio.

Nel corso del procedimento veniva esperita Consulenza Tecnica medico-legale d’Ufficio mirata ad evidenziare eventuali profili di responsabilità in capo ai convenuti, e così ad individuare e quantificare i danni psico-fisici patiti dall’attrice in nesso di causa con gli stessi.

All’esito della valutazione peritale, i Consulenti medici del Tribunale pur giustificando – in modo peraltro discutibile – l’iniziale diagnosi, ritenendo che i denunciati sintomi “potevano accordarsi ed essere inquadrati nell’ambito di crisi epilettiche parziali con e senza generalizzazione”, precisavano, quantomeno e comunque, che, in casi consimili, “le revisioni di letteratura attuali considerano la possibilità di sospendere la terapia in un range tra i due e i quattro anni dall’inizio del trattamento”, cosa che , diversamente e colposamente, nel caso di specie, non era mai stata presa neppure in considerazione.

Il Tribunale senza dare ascolto alle critiche attoree – che denunciavano la frettolosità e sufficienza della diagnosi di una malattia così grave senza indagare preventivamente ipotesi alternative, non adeguatamente considerate in sede di Consulenza dai Periti del Tribunale – tratteneva la causa in decisione.

IN DATA 28.05.2018 IL TRIBUNALE DI MILANO PUBBLICAVA LA SENTENZA N. 2965/2018, enunciando nel corpo della stessa quanto qui di seguito riportato: “Ritiene il Tribunale rilevabile a carico del professionista convenuto una violazione delle regole di perizia e prudenza professionale laddove non procedeva alla sospensione del farmaco a distanza di due anni dall’ultima crisi parziale comiziale presentata dalla paziente […] e databile al gennaio 2005… Ne deriva che dal gennaio 2007, in applicazione delle regole di prudenza nella valutazione di costi/benefici della cura, il professionista convenuto avrebbe dovuto: informare la paziente della opportunità di sospendere il farmaco e dei tempi di attuazione a tal fine indicati dai protocolli in allora in essere; procedere alla prescrizione di nuove e risolutive indagini diagnostiche per immagini e a EEG prolungato; valutarne gli esiti, verosimilmente negativi. Gli adempimenti indicati, che non risultano essere stati osservati, avrebbero portato un neurologo diligente a sospendere la terapia”.

Con precipuo riferimento, poi, al danno subito dalla paziente, il Tribunale meneghino affermava il principio di diritto della risarcibilità “non solo delle lesioni all’integrità fisica derivanti da diagnosi e cure erroneamente prestate per una malattia inesistente, o meno grave, ma specificamente, della sofferenza morale correlata a quella specifica violazione”. Il richiamo del Giudice in proposito è, infatti, a Cass. n. 1551/2007; sentenza nella quale si afferma: “poiché l’intervento del medico riguarda non tanto o non solo la fisicità del soggetto ma la persona nella sua integrità (si cura non la malattia ma il malato), è ragionevole ritenere che eventuali errori diagnostici compromettano, oltre alla salute fisica, l’equilibrio psichico della persona”.

Fatto proprio, infatti, l’insegnamento della citata pronuncia, l’Ill.mo Giudicante considerava come, anche nel caso di specie: “può ravvisarsi quale conseguenza dell’inadempimento addebitabile all’esercente la professione sanitaria un danno non patrimoniale risarcibile anche in assenza di un danno biologico individuabile secondo le bareme medico legali in uso… Non può sottacersi che parte attrice presentava un forte disagio fisico avendo sofferto di disturbi che, sebbene non integranti uno stato di vera e propria patologia […] provocavano tuttavia uno stato di costante malessere fisico, con significative ripercussioni sul tono dell’umore e del complessivo benessere psicofisico della persona. Basti pensare al defluvium capillare ed alla incidenza che tale disturbo comporta in una donna nella percezione di sé; ai problemi dermatologici ed ai fastidi correlati all’esposizione alla luce solare, alla stanchezza cronica ed allo stato di sonnolenza usualmente associati all’assunzione prolungata di farmaci antiepilettici. Da ultimo, ma non meno importante, non può essere ignorata e deve trovare adeguato ristoro la sofferenza della signora derivante dal sentirsi sottoposta per quattro lunghi anni ad un rischio, in realtà inesistente, di reiterazione di attacchi epilettici così significativo da non poter procedere ad una sospensione della terapia ed inevitabilmente incidente nelle dinamiche relazionali e nelle scelta della vita quotidiana della paziente”.

Tutte queste circostanze, quindi, giustificavano la condanna solidale dei convenuti al risarcimento del danno non patrimoniale subito dalla signora, nella somma liquidata in via equitativa dal Giudicante.