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Assolta psichiatra accusata di essere responsabile di un duplice efferato omicidio…

By Casi

Assolta psichiatra accusata di essere responsabile dell’efferato omicidio commesso da un uomo affetto da disturbi psichici ai danni dei genitori

Nell’inverno del 2014 una psichiatra si rivolge allo Studio Legale Lucente dopo aver ricevuto un atto in cui la si accusava di non aver colposamente ricoverato un uomo che di lì a poco avrebbe ucciso i suoi genitori.

La vicenda prende le mosse da un tragico fatto di cronaca nera avvenuto nell’hinterland milanese. Un uomo affetto da Schizofrenia Paranoidea Cronica che era stato dimesso dall’ospedale due volte a distanza di poche ore, una volta tornato a casa commetteva il feroce omicidio di entrambi i genitori; un reato sanguinolento che scosse un’intera comunità, e che trovò nella propria agghiacciante modalità di esecuzione una cassa di risonanza mediatica coinvolgente diversi tra i mass-media sia locali che nazionali.

Erano le ore 20.40 di una sera d’inverno, quando l’uomo poco più che quarantenne si recava insieme alla madre al Pronto Soccorso a causa di episodi di agitazione accompagnati da riduzione dell’appetito ed insonnia. In ospedale l’uomo veniva subito sottoposto a visita dalla psichiatra di turno, che al colloquio valutava il paziente come “vigile, lucido, sufficientemente orientato e accessibile al dialogo”, seppur “non in grado di descrivere i propri contenuti ideici e il proprio malessere”. Dopo aver eseguito gli accertamenti del caso e praticato una terapia farmacologica, il sanitario riteneva di poter dimettere il paziente, riaffidandolo alle mani del medico curante che lo seguiva per tale patologia fin dal lontano 1992.

Nonostante le recenti dimissioni, però, la mattina del giorno seguente l’uomo si presentava di nuovo al Pronto Soccorso, questa volta accompagnato da entrambi i genitori, dove veniva sottoposto a visita psichiatrica dalla medesima dottoressa che non aveva ancora terminato il proprio turno in ospedale.

Anche in tal caso, durante il consulto la psichiatra non poteva che constatare il semplice persistere della riacutizzazione dei sintomi cronici della patologia, in un soggetto che comunque si presentava collaborante e senza manifesta ansia obiettivabile, né agitazione. In tal caso si manifestava un “vissuto di angoscia correlato a idee a stampo paranoideo e relative dispercezioni acustiche [sentire delle voci nella testa], ma senza presentare alcuna ideazione autolesiva/anticonservativa, né franco scompenso”. Per questi motivi, il medico, valutato lo stato del paziente, preso atto degli elementi clinici e anamnestici, e considerata ogni altra circostanza, non riteneva anche in questo caso vi fossero gli estremi per il ricovero del paziente, e pertanto, ne disponeva nuovamente le dimissioni.

Nulla, a questo punto, pare avrebbe potuto far presagire al sanitario l’escalation di violenza che da lì a qualche ora si sarebbe verificata: l’insorgere di un’improvvisa intuizione delirante la sera stessa delle ultime dimissioni portava il figlio a ritenere che fosse in atto contro di lui un complotto da parte dei genitori, e di conseguenza, preda di tale impulso, questo giungeva alla conclusione di doversi immediatamente difendere da costoro e iniziava a colpirli con pesanti oggetti trovati all’interno dell’abitazione.

Quella stessa sera una chiamata raggiungeva le Forze dell’Ordine e dall’altra parte della cornetta la voce di un uomo chiedeva l’immediato intervento dei Carabinieri, pronunciando le seguenti parole: “i miei genitori mi volevano ammazzare e li ho ammazzati io”. Successivamente la voce al telefono si interrompeva, e si udiva in sottofondo una serie di colpi provocati da un qualche corpo contundente, chiusa dal rumore sordo di un oggetto di vetro che, cadendo, andava in frantumi.

Giunti presso il domicilio, la scena che i militari si trovavano davanti era raccapricciante: i corpi di entrambi i genitori giacevano al suolo, esanimi, oramai privi di vita; il corpo del padre era stato colpito più e più volte alla testa con un pesante posacenere; lì vicino, il cadavere della madre allo stesso modo martoriato sotto i colpi di un oggetto contundente; infine, accanto a quest’ultimo, l’inquietante visione dei cocci insanguinati di un portafiori in vetro, che facevano sospettare agli inquirenti che il duplice omicidio potesse essersi consumato addirittura mentre l’omicida si trovava ancora al telefono con la centrale operativa.

Da lì l’arresto immediato dell’individuo, affidato la notte stessa nelle mani della Giustizia, e sottoposto nei giorni seguenti a una serie di valutazioni psichiatriche post-evento. L’omicida dopo un rapido processo veniva accusato di essere l’autore del duplice delitto e, poiché al momento dei fatti ritenuto incapace di intendere e volere, veniva sottoposto alla misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario per una durata non inferiore ad anni dieci.

La vicenda, tuttavia, non si esauriva qui!

Infatti, a circa un anno di distanza dal drammatico accadimento, i parenti delle vittime provvedevano a notificare un atto di citazione in giudizio sia alla dottoressa che aveva visitato il paziente, sia alla struttura sanitaria presso la quale questa aveva operato, invitando entrambe a comparire davanti al Tribunale di Monza. Nel proprio atto costoro sostenevano che la condotta parricida del soggetto coinvolto non poteva che essere l’inevitabile conseguenza dell’omissione della psichiatra dell’ospedale, la quale a loro dire avrebbe potuto e dovuto impedire il duplice omicidio trattenendo il soggetto all’interno del nosocomio. Nei confronti delle due convenute, quindi, i parenti chiedevano al Giudice la condanna al risarcimento dei danni personalmente patiti a causa della rottura del legame di parentela che intercorreva tra ciascuno di loro e le vittime.

Fin da subito la dottoressa provvedeva ad incaricare l’Avv. Luigi Lucente e l’Avv. Orietta Grazioli per farsi rappresentare e difendere nel suddetto procedimento. Prontamente i legali indicavano la figura del noto psichiatra forense Prof. Renato Ariatti quale Consulente Tecnico di Parte da cui farsi affiancare e coadiuvare nell’impostazione della tesi difensiva.

Prima di tutto i procuratori evidenziavano come l’unica prospettiva corretta per giudicare l’operato della psichiatra fosse quella di “indossare i suoi panni”; di considerare, cioè, quale fosse la condizione clinica del paziente de visu obiettivabile nel momento in cui era stato visitato in Pronto Soccorso; quale fosse, in base alla ridetta evidenza clinica, la cura adeguata che il sanitario era tenuto ad approntare; e verificare, dunque, se l’evento aggressivo posto in essere dal paziente fosse ex ante prevedibile e/o riconducibile al momento del consulto psichiatrico.

Operando in tal guisa, sostenevano i legali, si poteva constatare che al momento degli accessi al Pronto Soccorso la sintomatologia presentata dal paziente non era certo compatibile con una fase di destabilizzazione acuta, poiché nulla si evidenziava in termini di turbe comportamentali, né venivano esternati propositi di carattere aggressivo. Inoltre, la dottoressa trovava davanti a sé un uomo che mai in anamnesi, né in quella attuale né in quella remota, aveva manifestato intenzionalità eteroaggressive, né altri fattori dinamici individuati dalla letteratura medica come importanti per una valutazione e gestione del rischio violenza, quali “comportamento ostile, scarso controllo degli impulsi, uso di alcol e/o abuso di droga, mancanza di insight, punteggi elevati ai sintomi psicotici, e non aderenza alle terapie”. E senza considerare il fatto che, a detta dei genitori che lo accompagnavano, già in passato erano emersi comportamenti analoghi, tuttavia mai sfociati in violenza e sempre risolti tramite correzioni dei protocolli farmacologici. Difatti, come risultava dalle carte, in molti anni il soggetto non aveva avuto mai necessità di essere ricoverato per fronteggiare i propri disagi e le proprie riacutizzazioni sintomatologiche. Anzi, in un’unica datata circostanza risalente a più di dieci anni prima il paziente era stato accolto in reparto, ma la degenza era esitata in un’esperienza negativa poiché si era spaventato e angosciato, con auto-dimissione contro il parere medico dopo sole ventiquattrore.

A tutto ciò, poi, concludevano gli Avv.ti Lucente e Grazioli, si aggiunga che – a riconferma dell’imprevedibilità del fatto – al momento degli ingressi in Pronto Soccorso emergeva non solo l’assenza di alcun coinvolgimento dei genitori nel delirio o nei fenomeni allucinatori del figlio, ma anche, al contrario, la rappresentazione dei genitori come unica garanzia di protezione e sicurezza agli occhi del soggetto. Nel caso in questione, infatti, al momento degli accertamenti non vi era alcun indicatore di conflittualità familiare, né della possibilità che la coesione familiare che aveva da sempre contraddistinto il rapporto del figlio con il padre e la madre potesse lacerarsi. E a dimostrazione di ciò il fatto che durante il primo accesso il paziente richiedeva espressamente la presenza della madre, spiegando di voler che ella non si allontanasse, e allo stesso modo, la mattina seguente, sempre lo stesso rispondeva al sanitario di volere accanto i genitori durante lo svolgimento del consulto psichiatrico.

Inoltre, a supporto probatorio della tesi difensiva del sanitario, gli avvocati fornivano al Tribunale alcune dichiarazioni rilasciate nell’immediatezza dei fatti da parte del sindaco della cittadina dove era avvenuto l’efferato omicidio, nonché da parte di persone che conoscevano il ragazzo e la sua particolare situazione, i quali tuttavia confermavano si trattasse comunque di “un soggetto tranquillo”, che non aveva mai dato “segnali di pericolo”, tant’è che, spiegavano, fino a quel giorno “nulla poteva lasciar presagire una cosa del genere”.

Orbene, a fronte di tutto ciò risulta evidente come l’evento delittuoso non poteva essere in alcun modo previsto dalla dottoressa, la quale correttamente valutava le rilevanze anamnestiche e diagnostiche e, non essendo nella condizione di poter prevedere il tragico evento, riteneva di dimettere il paziente. D’altronde, chiosavano i difensori, questo è l’input dato anche dall’attuale normativa di legge (L. n. 833 del 23 dicembre 1978) che ha determinato una svolta nella cura delle malattie mentali, essendo caduta la vecchia equazione “malattia mentale = pericolosità” in favore di un trattamento sanitario obbligatorio (cd. TSO) che si colloca in una prospettiva esclusivamente terapeutico-sanitaria e non più in mere ragioni di contenimento e di sorveglianza di soggetti affetti da malattie psichiche.

Nel prosieguo del processo, il Consulente Tecnico nominato appositamente dal Giudice depositava un elaborato tecnico sulla vicenda, nel quale avvalorava la tesi difensiva sostenuta dagli Avv.ti Lucente e Grazioli ponendo con forza l’attenzione sulla necessità di una valutazione allo status quo ante rispetto al duplice omicidio: “per accertare se vi fossero elementi per poter diagnosticare uno scompenso psicotico acuto bisogna rifarsi agli unici elementi oggettivi che erano in possesso della dottoressa al momento dell’accesso in Pronto Soccorso e non, chiaramente, da ciò che è avvenuto dopo, e sono la storia clinica e lo stato clinico del paziente. […] La storia clinica del paziente delinea un paziente affetto da psicosi cronica, seguito da vent’anni da uno specialista privato, con una terapia appropriata ad un quadro psicotico, ma ad un dosaggio basso che fa pensare ad una stabilizzazione del quadro più su un versante deficitario residuale che ad una patologia francamente produttiva. Altro elemento che non indica o predice un grave scompenso psicotico è che il paziente in ventidue anni di malattia non è mai stato ricoverato in un reparto di psichiatria, se non per una volta per poche ore, pur essendosi recato più volte in pronto soccorso. […] Lo stato clinico è quello di un paziente che presenta da circa una settimana una sintomatologia ingravescente, ma non specifica … non vengono descritte e quindi verosimilmente non sono presenti alterazioni comportamentali o agitazione psicomotoria … non è rilevata, né riferita, nessuna conflittualità con i familiari che accompagnano il paziente … Non sono riferiti pregressi episodi di aggressività etero-diretta da parte del paziente, né l’uso di sostanze stupefacenti, né il paziente mostra atteggiamenti ostili o disforia durante il colloquio”.

Per questi motivi il Consulente concludeva che allo stato dei fatti “non vi erano né al momento della prima né al momento della seconda valutazione elementi che facessero propendere per la necessità di un ricovero del paziente”. In applicazione della normativa vigente e nel rispetto dei protocolli e delle indicazioni della letteratura medica di settore, infatti, il semplice fatto di soffrire di una malattia a livello psichiatrico non poteva e non doveva comportare di per sé l’automatico ricovero del paziente. A seguito della riforma, sottolineava il perito del Tribunale, è scomparso il concetto di pericolosità (e quindi della funzione di custodia per motivi di pubblica sicurezza) in favore di una valutazione incentrata sul concetto di “trattamento sanitario”, sulla tutela del paziente, e che considera il ricovero quale extrema ratio applicabile solo in assenza di alternative terapeutiche, o qualora – citando letteralmente l’art. 34 della L. 833/78 – “non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere”.

Con la sentenza n. 2197/2017 il Tribunale di Monza ha aderito alla relazione del proprio consulente, e pertanto ha rigettato la domanda risarcitoria degli attori, sancendo l’assenza di qualsivoglia responsabilità attribuibile alla dottoressa e/o alla struttura sanitaria convenute. Oggi le stesse, dunque, sono state sgravate dalla importante domanda risarcitoria avanzata nei loro confronti, e ancor prima da ogni accusa a loro mossa circa la responsabilità giuridica (e morale) di non aver impedito il duplice omicidio: i fatti di quella notte non sono stati il risultato di un caso di malasanità, ma la conseguenza di uno sciagurato evento che nessuno purtroppo avrebbe potuto prevedere.

Sottopasso trappola: ecco cosa accade quando piove e l’amministrazione non provvede.

By Casi

Fosse successo a Venezia sotto il Ponte di Rialto probabilmente nessuno si sarebbe scandalizzato; ma siamo, invece, in un’altra città del nord Italia, dove le strade sono fatte di cemento e, normalmente, la barca non serve.

Vi raccontiamo la storia di un cliente dello Studio legale Lucente che, all’esito di un processo, ha visto soddisfatte le proprie pretese, e cioè riconosciuto il diritto al risarcimento di tutti i danni subiti per essere rimasto intrappolato a bordo del proprio autoveicolo in un sottopasso allagato.

Erano le 05.19 di mattina del 26 luglio ed era ancora buio quando il Sig. G.M., a bordo di un’auto Audi Q7, imboccava il sottopasso di un’importante arteria cittadina e tutt’a un tratto si ritrovava immerso nell’acqua ivi accumulatasi per la pioggia caduta durante la notte. La macchina si spegneva e il G.M. si ritrovava bloccato all’interno del sottopasso allagato, insieme ad un altro malcapitato che conduceva un taxi che, appena dietro, seguiva l’autoveicolo di G.M. e che, a sua volta, non riusciva ad evitare l’evento sinistroso.

Sul luogo accorrevano i Vigili del Fuoco, che, tramite l’ausilio di un verricello, trainavano la vettura di G.M. all’asciutto e prestavano soccorso anche all’altro mezzo rimasto in panne.

A seguito dell’infelice vicenda, il Sig. G.M. (conducente del veicolo in questione) si rivolgeva, come detto, allo Studio Legale Lucente per vedere tutelati i propri diritti, e quindi risarciti i danni provocati all’auto rimasta “incagliata” nel sottopasso.

Il 09.02.2015 veniva così regolarmente notificato atto di citazione al Comune ed instaurato il procedimento dinnanzi all’Autorità Giudiziaria. Le pretese attoree erano rivolte a veder dichiarare responsabile il Comune dei danni cagionati al veicolo Audi Q7, per non avere questa pubblica amministrazione provveduto alla manutenzione e alle altre opere derivanti dalla custodia della cosa pubblica, di cui è responsabile ai sensi dell’art. 2051 c.c. (“Ciascuno è responsabile delle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”), e quindi vederla condannare al risarcimento del danno derivante.

La convenuta amministrazione comunale si costituiva tempestivamente e, in primis, adduceva a propria discolpa l’eccezionalità del fronte temporalesco costituente – a suo dire – caso fortuito; secondariamente, incolpava dell’evento il conducente Sig. G.M., il quale – a detta del Comune – avrebbe dovuto essere in grado di evitare l’evento e quindi (ai sensi dell’art. 1227 c.c.) ne avrebbe dovuto pagare lui stesso le conseguenze; e, infine, chiamava, comunque, in causa la Società incaricata della manutenzione del sottopasso che – sempre a detta del Comune – sarebbe stata inadempiente, con particolare riferimento al mancato spurgo dei chiusini di smaltimento delle acque piovane.

Nella fase istruttoria del giudizio venivano esperiti interrogatorio formale del Sig. G.M., audizione testimoniale di uno dei Vigili del Fuoco intervenuti quella mattina, nonché audizione di un testimone oculare accorso sul luogo del sinistro subito dopo l’evento. E così, una volta ritenuta la causa matura per la decisione, in data 14 luglio 2016 il Giudice giungeva al verdetto (depositato in cancelleria in data 22 ottobre e avente numero 9701/2016).

In prima battuta, in merito alla responsabilità dell’amministrazione comunale per la custodia del sottopasso, il Giudice ha ritenuto che: “Il Comune di [omissis], allorquando si tratta di zone sensibili di tratti viari, […] ha il dovere di porre in essere le dovute cautele, pertanto la fattispecie per cui è causa è senz’altro riconducibile all’alveo di responsabilità di cui all’art. 2051 c.c[…] L’avvenuto nubifragio, iniziato peraltro fin dalla sera precedente, non esime l’Amministrazione Comunale dagli obblighi incombenti ex art. 2051: le precipitazioni meteoriche violente e concentrate per quantità di acqua riversata sono ormai da qualche anno, in certe stagioni, assai frequenti e non fatti eccezionali”.

Nessun accoglimento, peraltro, hanno trovato le pretese del Comune nei confronti della Società incaricata della manutenzione del sottopasso: “Non sono emersi neppure profili di responsabilità ascrivibili alla terza chiamata, atteso che il teste vigile del fuoco precisava di non aver riscontrato particolari problematiche sul deflusso delle acque, né vi sono stati interventi o richieste per intervenire sugli scarichi malfunzionanti di quel tratto”.

A questo punto non ci si può però esimere dal precisare come la fattispecie de qua costituisca un comune esempio di ciò che in diritto viene chiamato “trabocchetto” o “insidia”.

Buche, basoli sconnessi, manto stradale sdrucciolevole, gradini ‘invisibili’, addirittura tombini aperti; sono tutti esempi di insidie stradali che possono costituire un pericolo per il cittadino, così come allo stesso modo un sottopasso allagato può costituirlo per un ignaro automobilista. In ogni caso, le caratteristiche di un’insidia si devono ricercare nella imprevedibilità soggettiva e nella invisibilità: la differenza cromatica del sanpietrino fuori posto, la segnaletica stradale, una buona illuminazione notturna, fra le altre cose, possono così risultare fondamentali per la qualificazione del sinistro come insidia o trabocchetto. Nel caso de quo, questi elementi possono rilevare ai fini del concorso di colpa del conducente Sig. G.M. che, secondo il Comune, avrebbe dovuto/potuto prevedere l’allagamento del sottopasso, avrebbe dovuto/potuto avvedersi del crescente livello dell’acqua e, in sostanza, avrebbe dovuto/potuto evitare l’evento dannoso. Il Giudice, analizzati i fattori rilevanti e le circostanze del caso concreto, portate alla Sua attenzione dalla Difesa del Sig. G.M., ha così deciso: “La condotta di guida in questi casi può dipendere da vari fattori, né si può pretendere che le persone adottino la migliore condotta di guida in assoluto, giacché i tempi di reazione di ognuno sono diversi e variano anche dal grado di avvistabilità dell’insidia, che è rimasta un dato incerto, ovvero dalla possibilità di valutare effettivamente la percorribilità del tratto, sia pur allagato, calcolando il livello dell’acqua, ma va tenuto conto del comportamento di un utente medio ed in questo caso perfino il taxi guidato da un professionista non riusciva ad evitare l’insidia”.

Insomma, il Giudice, per questi motivi: “Accertata e ritenuta la responsabilità del Comune di [omissis], ex art. 2051 lo condanna al risarcimento del danno…”.

Nel caso di specie, il Comune è stato ritenuto responsabile, in quanto, avendo l’obbligo di custodire la strada, avrebbe dovuto immediatamente porre rimedio all’insidia venutasi a creare e, altrettanto, immediatamente avrebbe dovuto segnalare chiaramente il pericolo agli ignari automobilisti. Poiché tutto ciò non è avvenuto e non è stato pertanto dimostrato in giudizio, il Comune è stato condannato.

Incidente mortale. Dopo 7 anni la sentenza

By Casi

Si è conclusa nel 2016 la vicenda giudiziaria iniziata a seguito della tragica morte di un giovane avvenuta il 24.03.2009 sulla SP 21 tra Robecco d’Oglio e Corte de’ Cortesi.

Il responsabile, dapprima, patteggiava una pena ad un anno di reclusione con la sospensione condizionale e, allorquando la madre e i fratelli del giovane deceduto, la compagna anche in rappresentanza della figlia minore di quattro mesi, decidevano  di adire il Tribunale Civile di Cremona per ottenere il risarcimento dei danni, si costituiva in giudizio chiedendo a sua volta i danni subiti a seguito del sinistro sostenendo che la colpa di quanto accaduto non era sua.

Il Giudice, Dott. Benedetto Sieff, con la sentenza n. 63/2016, all’esito di una puntuale ricostruzione della dinamica dell’incidente e dell’esame di tutto il supporto probatorio, ha accolto le domande formulate per conto delle persone offese dagli Avvocati Ilaria Donini e Luigi Lucente.

In particolare, “Ricordando che gli atti pubblici (verbali di incidente) sono liberamente valutabili dal Giudice quanto al contenuto delle dichiarazioni di terzi, e dunque ai fatti e alle circostanze in esse riportati, e tanto più quanto alle deduzioni, alle valutazioni e alle ricostruzioni operate dal Pubblico Ufficiale, sia pure utilizzando i dati oggettivi raccolti tramite i rilievi sui luoghi, cose e persone, a giudizio di questo Tribunale, il rapporto in parola è del tutto inattendibile, quanto alle conclusioni ricostruttive dell’accaduto  cui perviene e, pertanto, assolutamente inaffidabile e quindi inutilizzabile ai fini probatori. Questo non solo perché condizionato da una limitata e  imprecisa raccolta dei dati oggettivi  […] ma anche perché lo stesso redattore del rapporto […] sentito a testimone nel processo ha completamente contraddetto e smentito la conclusione nel senso della responsabilità (del ragazzo deceduto)”.

Peraltro – come spesso accade nelle verbalizzazioni redatte nelle immediatezze dei fatti – l’agente si esprimeva in termini ipotetici e presuntivi nel rapporto nel senso che, inizialmente, presumeva  che fosse stata la vittima ad invadere la corsia opposta.

Tale presunzione veniva strumentalizzata, come detto, dal responsabile dell’incidente tanto da indurlo a contrattaccare in giudizio.

Le approfondite indagini del Giudice, tuttavia, hanno consentito allo stesso di argomentare sulla carenza di contenuto probatorio  del rapporto e sull’infondatezza delle presunzioni dell’agente verbalizzante, accertando la verità con provvedimento del 17.01.2016.

ESPOSIZIONE all’AMIANTO…

By Casi

…Gli eredi del lavoratore deceduto a causa di un mesotelioma pleurico contratto a seguito di contatto con l’amianto sul posto di lavoro hanno diritto a vedersi riconosciuto – iure hereditatis – il danno biologico permanente del defunto padre anche se la patologia contratta  aveva condotto quest’ultimo  alla morte senza che vi fosse  stata guarigione clinica? La risposta è: NO.

Con ricorso ex art. 414 c.p.c., nell’anno 2009, un figlio conveniva in giudizio avanti al Tribunale, Sezione Lavoro, la Società che era stata datrice di lavoro del defunto padre chiedendo di accertare e dichiarare la responsabilità della prima in ordine alle lesioni patite dal padre ed in ordine al successivo decesso.

Il ricorrente poneva a sostegno delle proprie ragioni le seguenti allegazioni:

-che Egli sarebbe stato l’unico erede del di lui padre deceduto nel 2007 a causa di mesotelioma pleurico, forma tumorale che colpisce esclusivamente individui esposti a contatto con l’amianto e che ha un periodo di latenza tra i 20 e i 40 anni;

-che il padre aveva prestato attività lavorativa quale idraulico manutentore in favore della resistente per 26 anni, senza soluzione di continuità fino al pensionamento;

-che durante il ridetto periodo lavorativo il padre, nell’espletamento delle proprie mansioni sarebbe venuto a contatto con “importanti quantità di polvere d’amianto” e che nel corso del rapporto di lavoro nessuno l’avrebbe informato circa i rischi specifici dell’esposizione all’amianto;

-che, dunque, essendo il periodo di latenza della forma di malattia compreso tra i 20 e i 40 anni ed avendo il padre lavorato presso la resistente in quel lasso di tempo sarebbe certo, “senza ombra di smentita”, che la malattia che ha portato alla morte è stata causata dal contatto con l’amianto.

La Società convenuta difesa dagli avvocati Luigi Lucente e Ilaria Donini si costituiva in giudizio contestando integralmente tutte le avverse prospettazioni e domande, chiedendone l’integrale reiezione.

Il Tribunale di primo grado, dopo l’istruttoria,  accoglieva il ricorso del ricorrente e con sentenza n.  241/2012 dichiarava “la responsabilità della Datrice di Lavoro per le lesioni patite dal padre del ricorrente a seguito del mesotelioma pleurico che lo condussero al decesso, accertata la sussistenza del nesso eziologico causale tra la malattia e l’attività lavorativa svolta condanna la Datrice di Lavoro a pagare il risarcimento e in particolare – per quel che attiene questo commento –  a pagare una consistente somma superiore al mezzo milione di Euro a titolo di risarcimento del danno biologico permanente e temporaneo del de cuius”.  

Il Tribunale – sul punto – disattendendo, peraltro, le valutazioni espresse nella CTU che prevedeva solo un danno di temporanea invalidità di circa 3 anni (compreso tra la diagnosi e la morte) riconosceva al lavoratore nel frattempo defunto il danno da invalidità permanente.

Si sottolinea ancora una volta che il perito del Tribunale non aveva accertato in capo al de cuius la stabilizzazione di eventuali postumi permanenti.

La Società, Datrice di Lavoro, impugnava la sentenza di primo grado innanzi alla Corte d’Appello di Milano. Criticava in generale il Giudicante di prime cure che, pur dichiarando di aderire alle valutazioni espresse al consulente tecnico d’Ufficio le aveva poi disattese senza fornire una adeguata motivazione del suo convincimento e senza indicare i criteri logici e giuridici che avevano determinato il suo giudizio.

Tra i motivi d’Appello invocati dagli Avvocati Luigi Lucente e Ilaria Donini vi era quello della:

Erroneità della sentenza sotto il profilo della determinazione del quantum del risarcimento del danno iure hereditario e omessa motivazione sul punto.  

Per i sopraddetti difensori aveva errato clamorosamente l’estensore quando, dopo aver riportato pedissequamente la quantificazione percentuale individuata dal suo C.T.U., aveva disatteso le valutazioni espresse nell’elaborato tecnico, riconoscendo in favore del ricorrente una voce di danno non accertata in sede di C.T.U assolutamente non provata dal ricorrente.

Si faceva notare  che, seppur le valutazioni del Ctu non sono vincolanti per il Giudice,  quando quest’ultimo decide di discostarsene è obbligato a fornire adeguata motivazione del proprio convincimento, indicando il percorso logico giuridico che lo ha determinato a giungere a conclusioni di segno opposto.

Nella fattispecie l’estensore, anziché limitarsi a liquidare i danni biologici da invalidità temporanea (parziale e assoluta) così come accertati dal consulente, aveva deciso senza motivare in alcun modo la propria determinazione e quindi arbitrariamente di condannare la Società  non solo al ristoro del danno biologico iure hereditario da invalidità temporanea, ma anche al risarcimento del danno biologico iure hereditario da invalidità permanente.

Ebbene  sempre secondo i difensori Lucente e Donini tale voce di danno non poteva e non doveva  essere riconosciuta al ricorrente  in quanto nel caso che ci occupa non vi era stata in capo al de cuius la stabilizzazione di eventuali postumi permanenti.

I difensori hanno esposto a sostegno delle ragioni della propria assistita che la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione sul punto è chiarissima:  in ipotesi in cui sia deceduto un lavoratore, deve essere negata la sussistenza di un danno biologico da invalidità permanente quando manca, come nel caso trattato, una censura temporale tra il periodo di invalidità permanente e quello di invalidità temporanea, non seguita dalla cessazione della malattia e dalla stabilizzazione dei relativi postumi.

Il presupposto imprescindibile per il riconoscimento del danno biologico da invalidità permanente è rappresentato, infatti, dalla stabilizzazione dei postumi: stabilizzazione che nel caso che ci occupa non si è avuta.

La malattia, dal giorno della diagnosi, è proseguita senza soluzione di continuità portando alla morte.

In un caso analogo a quello che ci occupa – hanno spiegato i difensori – agli eredi di un lavoratore deceduto a causa di mesotelioma contratto per inalazione di fibre di amianto nell’ambiente di lavoro è stato riconosciuto un danno non patrimoniale iure hereditatis da invalidità temporanea totale con relativa personalizzazione.  La Sentenza della Corte di Cassazione n. 9238 del 21.04.2011 ha, infatti,  statuito che: “La Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei  principi posti dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 26972 e, tenuto conto dell’esigenza di evitare la duplicazione dei titoli di risarcimento, ha dato atto come, nel caso,  l’invalidità temporanea  si fosse protratta dalla diagnosi della malattia al decesso del lavoratore, con la conseguenza, che mancando una censura temporale tra il periodo di invalidità permanente e quello di invalidità temporanea, non seguita dalla cessazione della malattia e dalla stabilizzazione dei relativi postumi, il riconoscimento di entrambi i titoli di danno, avrebbe comportato il ristoro, non consentito, di un identico pregiudizio”.

Ed ancora la recentissima sentenza delle Corte di Cassazione Sezione Lavoro, n. 8655 del 30.05.2012 sempre in tema di problematica concernente l’esposizione ad amianto e sempre alla stregua della sentenza delle Sezioni Unite Civili della Suprema Corte n. 26972 dell’11.11.2008,  ha riconosciuto agli eredi  di un operaio di un cantiere navale deceduto a seguito della morte a causa di una neoplasia polmonare,  quale conseguenza della inalazione delle fibre di amianto presenti sul luogo di lavoro, esclusivamente il danno non patrimoniale iure hereditario da invalidità temporanea e non quello da invalidità permanente, se pur con un criterio di personalizzazione che ha tenuto conto della intesità della sofferenza provata dalla vittima.

Sempre in tema di quantificazione del danno richiesto dagli eredi di un lavoratore addetto alla lavorazione dell’amianto  e deceduto per aver contratto la malattia in ambiente lavorativo insalubre, – i difensori hanno fatto notare che – anche la sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 2251 del 16 febbraio 2012 ha riconosciuto agli eredi del lavoratore esclusivamente il danno biologico correlato all’inabilità temporanea del de cuius per il tempo di permanenza in vita, determinato anche in  base “ alla intensità della sofferenza provata, dalle condizioni personali e soggettive del lavoratore e dalle altre particolarità del caso concreto”.

Precisamente la ridetta sentenza della Suprema Corte confermava la pronuncia n. 448/2006 della Corte d’Appello di Venezia del 09.01.2007  in punto di quantificazione del danno, laddove statuiva che l’unico danno biologico risarcibile è quello correlato all’inabilità temporanea per il tempo di permanenze in vita, mentre censurava la pronuncia di merito nella parte in cui si era proceduto alla liquidazione del danno in maniera automatica, senza tener conto della situazione soggettiva del soggetto danneggiato.

Dunque correttamente era stato riconosciuto esclusivamente il risarcimento del danno biologico e morale sofferto dal defunto, rivendicato dai figli a titolo successorio e maturato nel periodo intercorrente tra il manifestarsi della malattia e il decesso.

Ed ancora in senso conforme, con riguardo ad un caso di azione promossa per  il riconoscimento del risarcimento  dei danni da parte degli eredi di un lavoratore deceduto per infortunio, è stato riconosciuto in capo alla vittima esclusivamente un danno biologico da invalidità temporanea, la cui entità è stata personalizzata, ma non un danno da invalidità permanente (Cfr. Corte di Cassazione sentenza n. 1072 del 18.01.2011).

I difensori Lucente e Donini insistevano, dunque, affinché sul punto la sentenza venisse integralmente riformata.

La Corte d’Appello di Milano, con sentenza n. 5/2015 ha accolto il 4° motivo di appello ( di cui al presente commento).

Ha osservato come non sia stato accertato in sede peritale alcun consolidamento degli effetti invalidanti della patologia, progressivamente evolutasi dalla diagnosi al decesso – nell’arco di circa 2 anni e 8 mesi in assenza di alcuna comprovata stabilizzazione di postumi permanenti.

In tale ipotesi, secondo la giurisprudenza condivisa da questa Corte, deve farsi luogo ad una liquidazione del danno – sia pure di natura solo temporanea – che tenga conto, in base ad un procedimento di personalizzazione operato mediante “un criterio equitativo puro”, della “natura peculiare” e dell’enormità del pregiudizio” subito dal soggetto nel corso della patologia che lo conduce al decesso (v. Cass. 31.10.2014, n. 23183).  

Ciò in quanto, come rilevato dal Supremo Collegio, “tale danno, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, tanto da esitare nella morte” (Cass. 23183/14, cit.).  

La liquidazione da operarsi, alla luce di tale insegnamento, nel caso di specie, dovrà tenere conto di una serie di elementi, quali – da un lato – la protratta durata della patologia, l’assenza di prospettive di guarigione, la rilevante entità delle relative conseguenze invalidanti, come sopra evidenziate e – dall’altro – l’età avanzata del soggetto, deceduto all’età di 78 anni.

Quindi la Corte d’Appello di Milano si è uniformata all’orientamento della Suprema Corte di Cassazione per cui lo stato di “invalidità permanente” presuppone un periodo di malattia, dunque una guarigione che permetta di valutare i danni riportati.

 

(Orientamento confermato anche nella recente sentenza n. 5197 del 17 marzo 2015 Corte di Cassazione civile, sezione terza)

DIFFORMITÁ URBANISTICHE ED AMMINISTRATIVE DELL’IMMOBILE NON SANATE ALLA DATA DEL ROGITO: IL PROMISSARIO ACQUIRENTE PUO’ VALIDAMENTE LIBERARSI E PRETENDERE IL DOPPIO DELLA CAPARRA

By Casi

La controversia trae origine dal contratto preliminare di compravendita che la Sig.ra V., in qualità di promissaria acquirente,  rappresentata e difesa dall’Avv. Luigi Lucente, aveva stipulato con riferimento ad un’unità immobiliare sita nella periferia milanese.

In detto contratto, le parti avevano concordato una data per il rogito, data entro la quale il promissario venditore Signor L. si era impegnato a sanare le difformità urbanistiche, edilizie ed amministrative del bene.

Tuttavia, mentre la Signora V. aveva onoraro i propri impegni, corrispondendo a  titolo di caparra confirmatoria la somma complessiva di €. 10.000,00, altrettanto non aveva fatto la sua controparte, che aveva omesso di regolarizzare l’immobile in questione.

Di conseguenza, la Signora V. rifiutava di addivenire alla compravendita invocando il recesso per grave inadempimento del Signor L., invitandolo e  diffidandolo a restituire il doppio della caparra ricevuta.

Non essendo addivenuti ad una soluzione bonaria della vicenda, la Signora V. conveniva il Signor L. innanzi al Tribunale di Milano.

Il convenuto si costituiva nel processo incardinato e chiedeva il rigetto della domanda dell’attrice, sostenendo che la pretesa restitutoria fosse infondata, anche perchè – a suo dire – era stata la Signora V. ad essere per prima inadempiente rispetto ai suoi obblighi contrattuali non avendo corrisposto l’ulteriore somma concordata nel preliminare di €. 25.000,00 prima della data prevista per la sottoscrizione del rogito e, quindi, chiedeva al Tribunale di accertare il suo legittimo diritto di trattenere quanto versato a titolo di caparra confirmatoria ex art. 1385 del Codice Civile.

A difesa del suddetto mancato ulteriore versamento, la Sig.ra V. invocava una scrittura privata successiva al preliminare con cui era stata convenuta l’eliminazione di questo ulteriore versamento prima del rogito.

La signora infatti, aveva già iniziato a nutrire dei sospetti sul fatto che al momento della vendita il bene potesse essere in regola, e bene aveva fatto ad accordarsi per limitare gli esborsi prima del rogito.

Con sentenza n. 4745/2015 il Tribunale di Milano, sezione IV, anche all’esito di una puntuale indagine peritale sul bene oggetto di causa, ha accolto la tesi sostenuta dall’Avv. Luigi Lucente in favore della propria Assistita, motivando nel merito la decisione in questi termini: La domanda attorea è fondata […]. Il Tribunale ritiene che, come emerge dal contenuto della citata scrittura privata sottoscritta dalle parti in data 3.10.2009, con cui le parti hanno espressamente inteso integrare il contratto preliminare, i contraenti hanno inteso operare una modifica delle sole modalità di pagamento della somma complessiva che la promissaria acquirente avrebbe dovuto corrispondere al promittente venditore, eliminando la scadenza intermedia di €. 25.000,00, la quale secondo la pattuizione originaria contenuta nel preliminare avrebbe dovuto integrare la caparra confirmatoria. Ciò è deducibile chiaramente dal testo stesso della scrittura privata richiamata […].

Alla luce di quanto sin qui argomentato, dunque, si deve affermare che l’asserito inadempimento della promissaria acquirente non si è in realtà verificato, in quanto la V. ha corrisposto al promittente venditore le somme dovute con le modalità inter partes pattuite, mentre il saldo sarebbe stato dovuto solo al rogito.

Passando ora ad esaminare l’allegazione della V. in merito al fatto che la mancata stipulazione del rogito sia avvenuta per fatto imputabile alla controparte, in quanto il L. avrebbe omesso di regolarizzare l’immobile oggetto del contratto non compiendo a tal uopo le formalità burocratiche e amministrative necessarie entro la data concordata a tal fine, ossia il 15.12.2010, chiare sono le risultanze della perizia redatta dal CTU a tal fine nominato Arch. B. […]

Il CTU ha confermato che le difformità urbanistiche ed amministrative denunciate dall’attrice e che hanno portato quest’ultima a rifiutare la stipula del rogito esistevano sia alla data prevista per il rogito stesso (15.12.2010) sia alla successiva data del 27.12.2010, in cui il promittente venditore ha assicurato alla promissaria acquirente che la regolarizzazione dell’immobile era avvenuta tramite lettera raccomandata inviata in risposta ad un sollecito di questa. Per ciò solo deve ritenersi legittimo il recesso dal contratto da parte della promissaria acquirente per inadempimento della controparte […].

Egli avrebbe dovuto, innanzitutto, provvedere in tal senso entro la data di stipulazione del rogito, in disparte dal fatto che il termine fosse essenziale o meno.

In secondo luogo, è grave, ai fini dell’affidamento della promissaria acquirente che, oltre il termine per il rogito, con la raccomandata del 27.12.2010, il L. abbia consapevolmente posto in essere dichiarazioni che sapeva non essere suffragate dai fatti […].

In considerazione di quanto sin qui argomentato, trova accoglimento la domanda di parte attrice principale di accertamento della legittimità del recesso da questa invocato, per inadempimento grave imputabile al promittente venditore, e, per l’effetto, il convenuto deve essere condannato al versamento a favore dell’attrice del doppio della caparra ricevuta pari a €. 20.000,00, oltre interessi […] Le spese di lite seguono l’ordinario criterio della soccombenza e sono poste a carico del convenuto”.

ERNIA DEL DISCO LOMBARE. Durante un intervento chirurgico di discectomia L5-S1 viene mal posizionata la vite L5 di sinistra. Il MEDICO E’ RESPONSABILE…

By Casi

…non essendo stato in grado di provare l’esecuzione di controlli intra-operatori di verifica del corretto posizionamento delle viti.

Un paziente, rappresentato e difeso dall’Avv. Luigi Lucente, aveva convenuto innanzi al Tribunale di Alessandria il chirurgo (al quale si era rivolto a causa dell’insorgere di forti dolori lombari) e l’ospedale perché venisse accertato il comportamento sanitario negligente, imprudente e imperito nell’esecuzione della prestazione medico professionale e, quindi, la conseguente responsabilità.

Si invocava l’intervento dell’Autorità Giudiziaria perché fosse accertata e dichiarata la responsabilità del medico e dell’ospedale in  ordine agli esiti negativi dell’intervento chirurgico di “Discectomia L5-S1, posizionamento di cage intersomatica e stabilizzazione del passaggio L5-S1 mediante viti peduncolari collegate con due barre” al quale il paziente era stato sottoposto e poi successivamente rioperato in quanto all’esito del controllo TAC eseguito il giorno successivo al predetto intervento chirurgico, emergeva il posizionamento – “troppo mesializzato” – della vite superiore sinistra.

All’esito di una lunga istruttoria e di indagine medico-legale d’Ufficio, il Tribunale con sentenza n. 298/2015 ha deciso, così motivando:

“A parere del CTU l’unico elemento che si connota per inadeguata condotta chirurgica … è il malposizionamento della vite L5 di sinistra che ha determinato  un’intensa radicolopatia irritativa con necessità di riposizionamento chirurgico della vite.

Il malposizionamento è dipeso da mancata esecuzione del controllo intra-operatorio che sarebbe stato possibile mediante utilizzo intraoperatorio dell’amplificatore di brillanza procedendo a verifica in due proiezioni, antero-posteriore e laterale.

Senonchè, nel caso di specie, non sono state allegate alla documentazione sanitaria le due proiezioni e nemmeno risulta descritto l’uso dell’amplificatore nel verbale operatorio, per cui il convenuto non è stato in grado di dimostrare di avere adottato tutte le cautele e le procedure necessarie a verificare la corretta posizione delle viti.

Le conseguenze di tale erronea condotta sono state individuate dal CTU nella necessità di eseguire un secondo intervento, in anestesia generale, a distanza di cinque giorni dal primo, di revisione del sistema di fissazione con posizionamento più laterale della vite in L5, utilizzando la stessa via di accesso.

Tanto ha comportato un allungamento dei tempi di degenza che nella media dei casi consimili non superano la durata di una settimana.

… e postumi permanenti dovuti al duplice accesso chirurgico”.

Uomo muore a seguito di laparoscopia alla colecisti

By Casi

Il signor Antonino Incognito, di Capo d’Orlando, muore il 12 febbraio, dopo un mese di coma. Era stato sottoposto ad intervento di laparoscopia alla colecisti  all’Ospedale “Barone Romeo” di Patti (Messina).

La Procura della Repubblica apre una inchiesta.

La moglie decide di affidare il mandato allo Studio dell’avvocato Luigi Lucente.

Se un DENTISTA sbaglia ad eseguire un trattamento sanitario deve risarcire il danno al paziente e restituire il compenso percepito anche se il paziente aveva già ottenuto il rimborso di quanto pagato in forza di una polizza sanitaria privata

By Casi

Un paziente, rappresentato e difeso dall’Avv. Luigi Lucente, aveva convenuto innanzi al Tribunale di Milano il proprio dentista perché venisse accertato il comportamento negligente, imprudente e imperito del professionista nell’esecuzione della prestazione medico professionale resa (opere di carattere protesico) e, quindi, l’inadempimento del medesimo rispetto al contratto sorto fra le parti.

La prestazione eseguita dal dentista convenuto, infatti, era stata sostanzialmente inutile per il paziente (già portatore di una situazione odontostomatologica compromessa). Il malcapitato paziente non solo non aveva risolto i problemi odontoiatrici per cui si era rivolto al dentista, ma aveva – per effetto di cure incongrue – perso anche dei denti.

I marchiani errori nell’operato di tale professionista, peraltro, erano già stati certificati dalla relazione di un Consulente Tecnico dell’Ufficio, redatta in occasione dell’Accertamento Tecnico Preventivo incardinato sempre dal paziente innanzi allo stesso Ecc.mo Tribunale di Milano, all’esito del quale l’attore aveva già ottenuto un importo dalla Compagnia di Assicurazione del medico a titolo di risarcimento danni.

Conseguentemente, nel giudizio di cui si tratta, così come previsto dal Codice Civile, il paziente chiedeva venisse, altresì, dichiarata la risoluzione del rapporto con il dentista e la condanna di quest’ultimo alla restituzione dell’importo complessivo corrisposto a titolo di compenso.

Dall’inadempimento grave, infatti, secondo la tesi offerta all’attenzione del Giudicante dall’Avv. Luigi Lucente, conseguiva, per regola generale – applicabile anche nel caso in cui siano coinvolti dei dentisti – che il contraente non inadempiente ( in questo caso il paziente difeso) che avesse pagato aveva diritto, in caso di risoluzione, alla ripetizione del corrispettivo (Cass. 16 ottobre 1995, in E. Protetti – C. Protetti, Medici e biologi nella giurisprudenza, Milano 1998, pag. 315; Trib. Milano, 25 giugno 1999, in Corr. Giur. 2000, pag. 374 ss. e Trib. Varese, 5 novembre 2001, in Resp. Civ. Prev., 2002, pag. 1135, nonché nell’articolo di Daniele Maffeis “responsabilità medica e restituzione del compenso: precisazioni in tema di restituzioni contrattuali”, Resp. Civ. e Prev. 2004, 4-5, 1121, anche in De Jure on line 2014).

Si richiamava in proposito l’interessante sentenza del 30 aprile 2007 sez. XIII del Tribunale di Roma (consultabile anche sul motore di ricerca De Jure on line 2014) in cui il Giudice est. Dr. Marco Rossetti, Magistrato attualmente applicato all’Ufficio Massimario della Corte di Cassazione, trattando una fattispecie del tutto analoga, accoglieva la domanda di risoluzione contrattuale avanzata dal paziente, precisando che da ciò discende, sul piano degli effetti, che:
1) era dovuta la restituzione delle somme già versate (effetto restitutorio scaturente dalla risoluzione);
2) era dovuto il risarcimento del danno, sia non patrimoniale che patrimoniale, inteso quest’ultimo come spese mediche in futuro da sostenere in conseguenza della condotta inadempiente del medico (effetto risarcitorio scaturente dalla risoluzione, nel caso di cui ci occupa già sostenuto dalla Compagnia di Assicurazione).
Secondo il pensiero del Giudice Dr. Marco Rossetti, infatti, per quanto attiene agli obblighi restitutori scaturenti dalla risoluzione di un contratto di prestazione d’opera professionale, il controvalore di una prestazione professionale che abbia recato un danno alla salute del paziente è certamente pari a zero e, dunque, per essa, non sarebbe stato dovuto alcun corrispettivo, “[…] deve, pertanto, concludersi che il paziente non è tenuto a versare al medico professionista il corrispettivo pattuito e, se versato, ha diritto a pretenderne la restituzione, quando l’intervento sia stato eseguito in modo imperito (così Trib. Roma 20.10.2003, in Giurispr. Romana, 2004, fasc. 12)”.

Il dentista convenuto si costituiva regolarmente nel processo incardinato innanzi al Tribunale di Milano e chiedeva il rigetto della domanda attorea, sostenendo che la pretesa restitutoria fosse infondata dato che il paziente aveva già attenuto il rimborso di quanto pagato per le prestazioni eseguite da una Società terza ( compagnia di assicurazioni) in forza di una polizza privata stipulata dall’attore. In altri termini, poiché – in tempi non sospetti- il paziente aveva ottenuto il rimborso di quanto pagato al proprio dentista dalla Compagnia di Assicurazioni con cui aveva acceso una polizza sanitaria, non aveva titolo di chiedere indietro anche quanto pagato al dentista medesimo poiché  diversamente si sarebbe indebitamente arricchito.

Con la sentenza n. 10469 del 22 agosto 2014 emessa dal Tribunale di Milano, sezione I, è stata accolta la tesi sostenuta dall’Avv. Luigi Lucente in favore del proprio Assistito. La decisione del Tribunale meneghino è stata così motivata:
La domanda dell’attore è fondata.
Non sono in contestazione tra le parti:
– la ricorrenza tra loro di un rapporto contrattuale di prestazione di attività intellettuale volto all’esecuzione da parte del dott. … di quanto meglio dettagliato nei docc. … dell’attore (fatture n. … ; anche sub docc. … del convenuto con relativi “estratto conto”);
– il pagamento da parte del … (paziente) al … (dentista) della complessiva somma di €. 16.173,00 quale corrispettivo delle prestazioni rese;
– la responsabilità del convenuto “per negligenza o imperizia sia nella progettazione che nell’esecuzione dei lavori protesici e interventi non conformi alle regole dell’arte” come accertato dal consulente tecnico nominato dall’ufficio in sede di procedimento preventivo (cfr fascicolo acquisito) le cui conclusioni sono pienamente condivisibili, conseguenti ad un esauriente esame delle risultanze in esito al contraddittorio tecnico svoltosi;
– l’intervenuta transazione, in data … (doc. … attore), tra l’attore e la compagnia di assicurazione del … (medico) “a tacitazione definitiva di ogni danno, personale, materiale, patrimoniale e non patrimoniale, presente e futuro, subito in conseguenza del sinistro” (doc. … );
– l’esecuzione dell’accordo transattivo del rimborso di quanto corrisposto dal … (paziente) al … (dentista) a titolo di compenso, trattandosi di “voce” non compresa nel rischio assicurato;
– il rimborso all’attore da parte della … (terzo) di quanto da lui pagato al … dentista.
Le risultanze dell’accertamento peritale e la loro non contestazione da parte del convenuto consentono di ritenere accertato l’inadempimento del … (dentista) al contratto d’opera professionale concluso con il … (paziente) e conseguentemente di dichiararne la sua risoluzione per tale ragione.
Dalla dichiarazione di risoluzione del contratto discendono gli obblighi restitutori e nel presente giudizio il … (paziente) ha esercitato il suo diritto alla restituzione del corrispettivo versato pari ad €.16.173,00.
Il convenuto contesta la pretesa dell’attore ed afferma che l’accoglimento della domanda qui proposta rappresenterebbe per il … (paziente) “indebito arricchimento” poiché egli ha già ottenuto il rimborso della somma indicata dalla … (compagnia di assicurazione del paziente).
Ritiene questo giudice che tale motivo dedotto dal convenuto non sia fondato. Si è detto che è dato pacifico in causa che il pagamento del compenso al professionista sia stato effettuato direttamente dal … (paziente). […] l’unico soggetto legittimato a richiedere al … (dentista) la restituzione del corrispettivo versato, a  seguito della risoluzione del contratto, è il … (paziente) che ha eseguito il pagamentoNel caso di specie non può infatti configurarsi un diritto di surrogazione di … (terzo) (nei termini riservati dall’art. 1916 c.c. alle assicurazioni) né il convenuto ha dimostrato che, in forza di specifica clausola del rapporto … (paziente) / … (compagnia di assicurazione del paziente), quest’ultima al momento del rimborso all’attore si sia a lui surrogata nel diritto verso il terzo responsabile. Né l’eventuale “indebito arricchimento” che deriverebbe all’attore dall’accoglimento della domanda di restituzione, può essere legittimamente dedotto dal convenuto che non è il soggetto a danno del quale tale indebito si realizzerebbe, non avendo egli alcun titolo per trattenere il corrispettivo ricevuto in forza di  un contratto risoltosi per suo inadempimento”.

INCIDENTE STRADALE MORTALE. MASSIMALE DI POLIZZA INCAPIENTE. CONDANNA dell’Assicurazione ultra massimale per mala gestio

By Casi

INCIDENTE STRADALE MORTALE. MASSIMALE DI POLIZZA INCAPIENTE. CONDANNA dell’Assicurazione ultra massimale per mala gestio.

Nell’anno 2009, mentre si recava a lavoro, un giovane perdeva la vita a seguito di un gravissimo incidente stradale occorso sulla Strada Vigentina in Località Pontelungo di Vidigulfo (PV), in occasione del quale, altresì, decedeva un altro soggetto trasportato sull’auto investitrice e un altro ancora riportava  gravissime lesioni.
Gli Agenti della Polizia Stradale di Pavia, intervenuti sul posto, si curavano dei soccorsi e, in particolar modo, della ricostruzione della dinamica della tragedia.
Sin dai primissimi momenti emergeva che l’autoveicolo condotto dal giovane che stava recandosi a velocità moderata sul posto di lavoro era stato violentemente colpito da altro veicolo, guidato da persona sotto l’influenza di alcol e sostanze stupefacenti, proveniente dal senso opposto di marcia che nell’intento di realizzare un improbabile sorpasso effettuava una manovra azzardata e ad elevata velocità.

La vedova, giovane madre di due figlie minori, affidava all’avv. Luigi Lucente l’incarico di occuparsi della tutela dei loro diritti gravemente pregiudicati.

Questa causa è emblematica di un sistema che non protegge compiutamente le vittime della strada, sebbene sia il processo penale che il processo civile si siano conclusi con delle sonore condanne, ma probabilmente non sufficientemente punitive a causa di evidenti storture normative.

Infatti, il conducente dell’auto investitrice ( persona ubriaca e sotto l’influenza di sostanze stupefacenti al momento del sinistro) si è reso irreperibile! E per ciò è stato condannato in contumacia e senza metterci la faccia e il portafogli in un sistema che ancora aspetta a introdurre per fattispecie di questo genere – sempre  più all’ordine del giorno- il reato di “omicidio stradale”.

Inoltre, la Compagnia assicuratrice del mezzo investitore citata in giudizio, nel costituirsi, ha eccepito, che la polizza RCA a copertura del veicolo investitore aveva massimale unico di soli € 1.500.000,00, che a seguito della notifica dell’atto di citazione che ha dato origine al procedimento era stato depositato su un conto corrente fruttifero vincolato a tutti i soggetti che avevano chiesto un risarcimento in conseguenza del sinistro di cui è causa.
Anche questa dunque una ulteriore beffa per i superstiti danneggiati, a causa di un sistema normativo lacunoso e carente che all’epoca consentiva di assicurarsi per la Responsabilità Civile Auto obbligatoria con un massimale così risibile: paghi un premio minore e ti assicuro per un massimale minore! Peccato che a farne le spese erano ( e in questo caso, sono) le vittime. Paradossalmente sarebbe stato meglio che l’investitore non avesse avuto la copertura assicurativa o non fosse stato identificato cosicché il Fondo Vittime della Strada avrebbe pagato per l’intero!!!

In ogni caso, il soggetto investitore, autore di una manovra scellerata che ha portato alla morte di due persone e una sulla sedia a rotelle, è stato condannato per omicidio colposo nel processo penale.

Nel processo civile sono state totalmente accolte le domande di risarcimento svolte nell’interesse della vedova e delle figlie minori.

Interessante in quest’ultimo procedimento l’accoglimento della domanda svolta nell’interesse della vedova e delle due figlie minori di condanna per mala gestio della Compagnia di assicurazioni e quindi di pagamento a carico della medesima e ultramassimale ( e cioè oltre € 1.500.000,00 previsto da polizza) della rivalutazione monetaria, degli interessi e delle spese legali e processuali.

La Compagnia sul punto si era difesa dicendo che aveva messo a disposizione immediatamente e  ante litem il massimale di polizza di € 1.500.000,00 e che tale offerta avrebbe dovuto avere effetto liberatorio con riguardo a capitale, interessi e spese, per cui la domanda di mala gestio andava respinta.

Nella realtà dei fatti, tuttavia, è stato provato che, dopo nove mesi dalla prima raccomandata formulata nell’interesse della giovane vedova e delle sue figliuole, e, quindi, più che trascorsi i termini di legge perché l’Assicurazione formulasse un’offerta, a fronte dell’incomprensibile indifferenza e silenzio della Compagnia, le attrici si vedevano, necessariamente, costrette ad adire – in virtù delle norme sulla competenza per valore e per territorio – l’Ufficio del Tribunale di Pavia. Finalmente, solo a distanza di quasi un anno dal sinistro e più di due mesi dalla notifica dell’atto di citazione (!!!), la Compagnia si degnava di inviare alle danneggiate – moglie e figlie del giovane investito mentre si recava a lavoro-  una raccomandata con cui le notiziava PER LA PRIMA VOLTA:
–  dell’esistenza di un massimale minimo di € 1.500.000,00;
– della presenza di ben 24 potenziali danneggiati;
– e, infine, del fatto, che solo in quel momento, l’intera somma portata dalla polizza era stata versata su un conto corrente fruttifero.

Peraltro, è stato provato che la Compagnia, avendo ricevuto sin da subito ulteriori richieste di risarcimento danni dagli altri danneggiati da questo tragico sinistro, era in condizioni di sapere dopo un mese dal fatto dannoso e, conti alla mano, che ,  il massimale era già incapiente.

In base a quanto prescritto dal’art. 140 Cod. Ass., la Compagnia aveva il dovere di attivarsi con tutti i mezzi possibili per promuovere un accordo fra i vari danneggiati, fruendo di quella posizione di imparzialità in cui versa il debitore rispetto ai destinatari del pagamento, e solo, nell’ipotesi di non accettazione da parte dei singoli danneggiati, delle quote di risarcimento determinate e valutate  in relazione ai danni subiti, l’assicuratore poteva provvedere all’offerta reale di cui all’art. 1209 c.c. (G. Franco, “Infortunistica stradale, Guida alle controversie civili”, terza edizione, Vol. II, Giuffrè Editore, pag. 2441).
Invece, nel caso di specie, la Compagnia di Assicurazione aveva, addirittura, omesso di informare le attrici dell’esistenza di un massimale incapiente e della presenza di 24 potenziali danneggiati, una circostanza che, di per sé, dimostrava come la Compagnia si fosse completamente disinteressata della gestione di questo sinistro per ricordarsene solo quando le odierne attrici le avevano fatto causa!
Non vi era dubbio, quindi, che la Compagnia convenuta, con la sua inerzia, si fosse resa inadempiente nei confronti della vedova e delle sue figlie, e, pertanto, avrebbe dovuto rispondere ultramassimale delle “maggiori somme dovute per l’accumulo di interessi, della svalutazione monetaria e delle spese processuali, imputabile al ritardo dell’assicuratore e perciò dipendenti, ai sensi dell’art. 1224 c.c., da un’autonoma causa di debito dell’assicuratore verso i danneggiati, del tutto svincolata dalla limitazione rappresentata dal massimale di polizza”.
Si confidava che l’Ecc.mo Tribunale di Pavia volesse attentamente valutare l’aspetto da ultimo trattato, in quanto se era già di per sé ingiusto che, in un sistema civile, fosse consentito che 24 danneggiati dovessero dividersi un massimale ridicolo e, quindi, accontentarsi di “briciole”, sarebbe stato oltremodo offensivo che la vedova e le sue figlie si vedessero privare degli interessi e della rivalutazione sugli interi danni, nonché gravate delle spese legali del proprio difensore che, così,  sarebbero andate a ridurre ulteriormente il loro risarcimento.

Con la sentenza del 8.5.2014 n. 657/2014  il Tribunale di Pavia, Sezione III Civile,  ha accolto la tesi difensiva esposta dall’ Avv.to Luigi Lucente in favore delle proprie assistite motivando in questi termini:
Deve essere accolta la domanda di mala gestio impropria nei confronti della [ Compagnia di assicurazioni].
Infatti è provato che [ tredici giorni dal fatto]  il legale dell’attrice inoltrava la prevista domanda di risarcimento all’assicurazione.
Essa [ sempre entro un mese dal fatto ] riceveva analoga richiesta di risarcimento da congiunti [ dell’altra persona deceduta nell’incidente].
Quindi già da quel momento – ancor prima della scadenza dei 90 giorni di cui all’art. 145 d.lvo 209/05 – l’assicurazione era a conoscenza dell’incapienza del massimale. Nonostante ciò non forniva alcuna comunicazione all’attrice se non con comunicazione … dopo la notifica dell’atto di citazione … con la quale riferiva di aver depositato l’intero massimale su un conto fruttifero a disposizione della pluralità dei danneggiati.
Posto che la mala gestio impropria si sostanzia “in un comportamento dell’assicuratore ingiustificatamente dilatorio, a fronte della richiesta di liquidazione avanzata dal danneggiato, trascorso il termine di cui alla L. n. 990 del 1969, art. 22 (e, attualmente, i termini di cui al D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 145), alla cui scadenza l’assicuratore è da considerarsi in mora, sempreché sia stato posto in grado con la detta richiesta di determinarsi in ordine all’an e al quantum della somma dovuta a titolo di risarcimento” – Cass. 15397 del 28.6.2010- (anche n. 19919 del 18.7.2008), nel caso specifico, l’assicuratore poneva in essere un ritardo ingiustificato nel porre a disposizione dei danneggiati l’intera somma assicurata, pur sapendo sin dai primi elementi a sua disposizione la palese responsabilità nella causazione del sinistro del conducente dell’auto dal medesimo assicurata, nonché … [a due mesi dal fatto] …  la presenza di una pluralità di danneggiati e la prevedibile incapienza del massimale. Tale ritardo nella messa a disposizione dello stesso non era neppure dovuto ad un tentativo di trovare un accordo fra tutti i danneggiati, neppure tentato dalla compagnia assicuratrice.
Conseguentemente, stante l’ingiustificato ritardo nel mettere a disposizione dei danneggiati la somma, l’assicuratore dalla scadenza dei 90 giorni previsti dall’art. 145 d.lvo citato si trovava in mora essendo obbligato “oltre al limite del massimale, a titolo di responsabilità per inadempimento ex art. 1224 c.c., senza necessità, quindi, di altra prova del danno, quanto agli interessi maturati sul massimale per il tempo della mora ed al saggio degli interessi legali e, oltre questo livello, in presenza di allegazione e  prova (se del caso, mediante ricorso a presunzioni) del “maggior danno” di cui al cit. art. 1224, comma 2” – sentenza sopracitata – …
La domanda deve essere accolta solo nei confronti [ della vedova ] in proprio e come genitore delle figlie minori … [ con condanna della Compagnia ] a pagare, ultramassimale … gli interessi maturati sul massimale [ di € 1.500.000,00 ] per il periodo della mora … e a pagare, ultramassimale … le spese legali … oltre 15% per spese generali, oltre l’esborso per il contributo unificato, oltre IVA e CPA, nonché le spese di CTU e CTP”

RAGAZZO PERDE UN RENE a causa del non corretto intervento di pielotomia retrograda

By Casi

RAGAZZO PERDE UN RENE a causa del non corretto intervento di pielotomia retrograda. Il Tribunale di Milano condanna il chirurgo e la Casa di Cura a risarcire i danni.

Con atto di citazione a firma dell’avvocato Luigi Lucente, un giovane cliente nel mese di giugno del 2009, ha chiamato in giudizio avanti il  Tribunale di Milano il chirurgo e l’Istituto clinico affinché fosse accertata e dichiarata la responsabilità di questi ultimi in ordine agli esiti negativi dell’intervento chirurgico al quale era stato sottoposto in data 4 aprile 2008.
A  sostegno della domanda, veniva dedotto : che in data 03.04.2008 il giovane veniva sottoposto a visita, trattenuto e ricoverato presso il reparto di Urologia dell’Istituto Clinico; che in pari data lo stesso veniva visitato dal chirurgo, il quale decideva di sottoporlo, il giorno successivo, ossia il 04.04.2008, ad intervento chirurgico di endopielotomia retrograda, senza tuttavia eseguire in fase pre operatoria e/o intra operatoria  esami diagnostici atti a stabilire il decorso della vascolarizzazione dei vasi perirenali e il corretto approccio terapeutico da seguire; che nel corso del ridetto intervento di endopielotomia retrograda al giovane paziente veniva reciso un vaso con conseguente “shock emorragico da versamento ematico perirenale”, in conseguenza del quale alle ore 24.00 del 04.04.2008  veniva sottoposto, sempre presso il medesimo Istituto Clinico, ad intervento di “nefrectomia di salvataggio” del rene sinistro.

In sintesi, dunque, e per parte attrice, l’aver omesso di eseguire esami diagnostici preliminari e il non avere adottato un corretto approccio chirurgico nel corso dell’intervento, hanno senza dubbio causato al paziente le infauste conseguenze emorragiche e, così ,la perdita del rene sinistro alla giovane età di 22 anni, con rischio concreto in itinere di morire.

Il medico operatore a sua difesa ha dichiarato che in realtà avrebbe fatto un ecodoppler preoperatorio dei vasi renali al fine di verificare l’eventuale presenza di vasi anomali sul giunto pielouretrale ma non disponeva del referto in quanto era stato consegnato al paziente e perciò produceva una dichiarazione in giudizio di un collega dello stesso Istituto Clinico che attestava sotto la propria responsabilità di ricordare sia di avere effettuato l’esame sul paziente e anche l’esito dell’accertamento.

Naturalmente, tale documento è stato immediatamente contestato dall’avv. Lucente perché evidentemente privo di dignità. Come specificato non trattavasi, innanzitutto, di un referto, ma di una dichiarazione resa da un collega del convenuto che a distanza di ben 10 mesi  dalla presunta effettuazione dell’esame ricordava chiaramente sia il nome del paziente che l’esito dell’esame il che è apparso evidentemente alquanto singolare(!), ma anche perché, se un tale esame fosse stato realmente eseguito, il relativo referto sarebbe stato a suo tempo allegato alla cartella clinica del paziente costituendo –l’esame stesso- il presupposto per poter effettuare l’intervento descritto con tecnica endoscopica e dal momento che, fra l’altro, secondo la stessa dichiarazione prodotta dal medico a sua difesa, il predetto esame sarebbe stato effettuato proprio il giorno prima dell’intervento(!).

Sia i Consulenti nominati dal Tribunale e, così, anche il Giudice non hanno, infatti, tenuto conto della dichiarazione prodotta dal medico.

Il medico convenuto, inoltre, nella propria difesa ha aggiunto: “…[ poiché] sembra quasi  che l’attore ( paziente) si dolga di essere stato operato in assenza di ragioni di urgenza: l’intervento venne praticato in quanto, pur non sussistendo ragioni d’urgenza, neppure sussisteva alcuna ragione, di alcun genere, perché fosse opportuno o necessario rinviarlo … “ e ha concluso, precisando che: “ E’ appena il caso di sottolineare che la perdita di un rene non inibisce, a chi la subisca, la possibilità di mantenere una condizione di vita assolutamente normale.

Con la sentenza del 15.05.2014 n. 6380/2014  il Tribunale di Milano, Sezione V Civile,  ha accolto la tesi difensiva esposta dall’ Avv.to Luigi Lucente in favore del proprio assistito motivando in questi termini: “… nel merito i ctu nominati, effettuata accurata analisi dell’anamnesi prossima ed esaminate le ct di parte, hanno svolto ampie considerazioni cliniche e medico-legali sul caso, per concludere che il trattamento clinico, che portò alla prima operazione per via endoscopica, di “pielotomia retrograda”, non fu condotto, dalla fase diagnostica preoperatoria fino alla fase chirurgica, in maniera corretta.
L’intervento predetto era indicato per la patologia diagnosticata (stenosi del giunto pieloureterale sinistro … ), ma non fu eseguito a regola d’arte.
I ctu hanno in particolare sottolineato che, prima di optare per l’intervento endoscopico, sarebbe stato più prudente effettuare ulteriori accertamenti diagnostici strumentali, al fine di avere la più completa nozione anatomica della regione operatoria.
Le complicanze emorragiche in questo tipo di interventi si verificano infatti per lesione di arterie o vene decorrenti in prossimità del giunto pielo uretrale. Sarebbe stata perciò consigliata l’esecuzione di arteriografia o altro esame di imaging; ciò avrebbe consentito di sostituire l’intervento in via endoscopica con un intervento a cielo aperto o in laparoscopia per una migliore visione e preservazione delle strutture.
Inoltre i ctu hanno rilevato che le condizioni generali del soggetto avrebbero permesso di differire il trattamento, con possibilità di effettuare esami (scintigrafia renale sequenziale) orientali  a stabilire la funzione renale separata.
In definitiva la metodica endoscopica comportò il sezionamento  della porzione ristretta della via pieloureterale urinaria con energia diatermica sotto visione diretta interna e la complicanza gravemente emorragica costituì l’evoluzione clinica e quindi la conseguenza di tale manovra, con ogni probabilità incongrua, tale da provocare lesioni meccaniche.
Quanto al secondo intervento, di nefrectomia, effettuato d’urgenza, da considerare irrinunciabile, per salvare la vita del paziente, fu eseguito  a regola d’arte.
Il sacrificio del rene … fu la conseguenza del non corretto intervento di pielotomia retrograda e pertanto il relativo danno biologico redisuato è da imputare ai due convenuti, sanitario e struttura.
Delle conseguenze dannose subite da … devono rispondere entrambi i convenuti, il dott. … quale chirurgo operatore, e l’Istituto … , quale titolare di autonomo rapporto (contratto di spedalità).
Come ha più volte rilevato la suprema Corte (Cass, da n. 589/99 a n. 577/08), il rapporto tra la struttura sanitaria ed il paziente si instaura indipendentemente dal vincolo di dipendenza o meno del medico curante, con la conseguenza che l’Istituto [ clinico] risponde comunque in proprio, ex art. 1228 cc, del fatto del proprio ausiliario, pur non dipendente, in quanto, come contraente, non ha fornito la prova del proprio adempimento.
Considerata l’età del [ paziente] all’epoca del fatto, di circa 21 anni, e la personalizzazione, in ragione delle limitazioni imposte al suo stile di vita, in specie per facile stancabilità e mal di schiena frequente, gli viene attribuita, a titolo di invalidità permanente, quale danno non patrimoniale, la somma di €. 50.000,00, ai valori attuali. 
…”