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UN CENTRO ESTETICO, presentandovi un “PACCHETTO BENESSERE E DIMAGRIMENTO” vi strappa una firma? Per il Giudice di Pace di Milano: il CONTRATTO NON E’ PERFEZIONATO

By Casi
Questo è quanto ha statuito la sentenza n. 7455/2011 del Giudice di Pace di Milano, Sezione VI Civile, nella persona della Dott.ssa Teti, che, in accoglimento della tesi difensiva degli Avv.ti Luigi Lucente e Simona Tesolin, ha precisato che non basta intitolare una carta “contratto” e raccogliere una firma per considerarlo tale, essendo necessario verificare, da un lato, l’effettiva sussistenza dei suoi presupposti essenziali, e, dall’altro, quale fosse la reale intenzione dei soggetti coinvolti al momento della firma, in armonia con un insegnamento consolidato della giurisprudenza per cui “il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo e alla luce dell’esperita attività istruttoria”.
Nel caso di specie, alla Sig.ra G., era stato notificato un decreto ingiuntivo da parte di un Centro Estetico che le intimava di pagare dei trattamenti per più di € 4.000,00, dovuti, a dire del ricorrente, in virtù di un contratto sottoscritto in occasione di una visita della signora presso la loro struttura.
La Sig.ra G., tuttavia, ci ha esposto una realtà dei fatti ben diversa, e cioè che l’unico motivo per cui si era recata nel ridetto Centro Estetico era per avere delle informazioni, per ottenere le quali era stata sottoposta ad un’analisi della figura (pubblicizzata come assolutamente gratuita), necessaria per avere un preventivo di spesa.
Ha aggiunto, altresì, che l’addetta al Centro Estetico aveva, quindi, redatto un possibile piano di trattamenti in più sedute, indicando sia il preventivo di spesa pari a € 3.230,00 sia le tempistiche di successo, inducendola a sottoscrivere quella carta, a suo dire, ai fini della privacy, e rassicurandola sul fatto che si trattava di una firma assolutamente priva di impegno.
Questi difensori, pertanto, con atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo, hanno incardinato innanzi al Giudice di Pace di Milano, il procedimento che ha dato origine alla sentenza di cui si tratta perché venisse accertata l’infondatezza della pretesa avanzata dal Centro Estetico.
In particolare, la tesi difensiva seguita dagli Avv.ti Lucente e Tesolin è stata che, in occasione dell’incontro del 09 maggio 2008, la Sig. G. si era limitata a chiedere al Centro Estetico delle informazioni e un preventivo di spesa relativamente ai trattamenti di dimagrimento offerti e, in tale circostanza, venne sottoposta ad un’analisi della propria figura ASSOLUTAMENTE GRATUITA E PRIVA DI IMPEGNO finalizzata a dare una risposta alle domande della Sig.ra G. che, tuttavia, non voleva iniziare quel percorso in quel preciso momento storico né poteva farlo, dal momento che, trovandosi in infortunio, non era in condizioni di salute tali da potersi sottoporre alle prestazioni offerte dal Centro Estetico, che, tra l’altro, prevedevano almeno 60 sedute di ginnastica e, quindi, uno sforzo fisico che la signora non era in grado di affrontare.
Tra la Sig.ra G. e il Centro Estetico non si era, pertanto, perfezionato alcun contratto, come, peraltro, emergeva già per tabulas, proprio dal “modulo di iscrizione”, che controparte aveva assunto a fondamento delle proprie pretese.
Se era pur vero che in tale documento, precisamente alla clausola n. 2, si legge la parola “contratto”, altrettanto vero era che non basta un nomen iuris per giustificare la sussistenza di un istituto, ma serve che ne ricorrano i presupposti essenziali, due dei quali, peraltro, nel caso di specie, erano richiamati da questa stessa disposizione, e cioè: il “piano di trattamenti”, nonché le “condizioni di pagamento”, aspetti entrambi che – MAI sono stati discussi e/o concordati fra le parti in causa.
Se né il piano di trattamenti né le condizioni di pagamento erano state concordate, la Cliente non poteva impegnarsi ad osservarle.
Senza contare che, a parte questi dettagli espressamente richiamati dalla clausola n. 2 che controparte stessa invocava, il modulo in questione difettava anche di ulteriori elementi essenziali per potersi considerare un accordo perfezionato, e cioè:
 il calendario puntuale delle sedute;
 lo studio di un piano alimentare personalizzato;
 e, soprattutto, la visita medica preventiva.
Si è argomentato, inoltre, sul carattere generico, prestampato e redatto UNILATERLMENTE dal Centro Estetico in migliaia e migliaia di copie, del “modulo di iscrizione” che non avrebbe potuto essere assunto nel rispetto dell’art. 1362 c.c. e della giurisprudenza in materia (Cass. Civ. 09 giugno 2005 n. 12120), quale mezzo ermeneutico più idoneo per accertare la comune intenzione delle parti.
Inoltre, si è sottolineato che l’approvazione scritta da parte della Sig.ra G. delle clausole (pesantemente vessatorie) 1-13 del documento, fosse, in concreto, priva di effetti.
Le stesse, infatti, sono richiamate cumulativamente con tutte le altre e, pertanto, non soddisfano il requisito della specificità richiesto dall’art. 1341 c.c. (anch’esso non riportato sul documento) per la loro validità (06/4452, in G. Cian e A. Trabucchi, Commentario Breve al Codice Civile, VIII edizione, CEDAM, art. 1341 c.c., pag. 1511).
Non solo!
Se si leggeva con attenzione il contenuto della seconda parte del modulo, quello per intenderci dove si chiede la specifica approvazione per iscritto, saltava immediatamente agli occhi la profonda differenza rispetto ai contenuti della prima parte.
Riassumendo, nessun dubbio -per i Difensori della Sig.ra G.- che doveva essere profondamente ridimensionata la portata del modulo tanto sbandierato da controparte che, se qualche valenza aveva, era solo quella di un primo passo in una trattava, ovvero, come potremmo dire facendo nostre le parole di uno dei testimoni ascoltati, di una semplice “richiesta di informazioni”.
I testi ascoltati nel corso del processo hanno, altresì, fugato ogni dubbio in merito al fatto che la Sig.ra G. sia stata indotta a firmare delle carte con pretestuose quanto false lusinghe e “trucchetti”.
Si legge, infatti, e fra l’altro nelle dichiarazioni testimoniali: “Io non ho visto cosa ha firmato la mia amica, ma ho sentito che veniva rassicurata che la sua firma era priva di impegno”; ADR: “[…] la mia amica si è affidata alle dichiarazioni dell’addetta al Centro Estetico che la rassicurava che si trattava solo di documenti informativi e privi di impegno”.
Anzi, in proposito, ci si permette di aprire una brevissima parentesi, precisando un ulteriore aspetto, e cioè che, tra l’altro, nel “modulo di iscrizione” si legge che la validità dei trattamenti è di un anno dal primo effettuato, in tal modo, facendo dipendere l’efficacia del contratto – sempre che di contratto volesse parlarsi – dalla decisione dell’utilizzatore finale, ovvero dalla prestazione, almeno, del primo trattamento.
Tuttavia, nel caso di specie, la ridetta condizione non si è mai verificata, in quanto la Sig.ra G. non ha mai usufruito né prenotato – non potendo – alcun trattamento (come, peraltro, si evince anche dal piano di lavoro giornaliero prodotto da controparte stessa).
Va da sé che al verificarsi di tale condizione era eventualmente subordinato anche il versamento del compenso (e, quindi, l’esigibilità di esso).
Il Giudice di Milano con la sentenza in oggetto ha così statuito: “… ritiene fondata la domanda dell’opponente, in quanto il decreto ingiuntivo n. 37816/2009 deve essere revocato essendo la pretesa in esso azionata infondata in fatto e in diritto, non essendosi perfezionato il contratto posto alla base dell’ingiunzione e risultando, inoltre, l’assoluta incongruità della somma ingiunta in relazione all’accertata mancata fruizione dei trattamenti da parte della opponente.
Esaminando il preteso contratto inter partes, il Giudice rileva ictu oculi che il MODULO DI ISCRIZIONE, rappresentato da un modulo prestampato ed in parte compilato, non è un contratto definitivo, come deduce parte opposta, ma è una convenzione preliminare contenente un preventivo, da considerarsi alla stregua di una trattativa; infatti non è stato versato alcun acconto, non sono state determinate alcune clausole essenziali, in particolare le modalità del pagamento e/o dei pagamenti; non risulta, inoltre, acquisito il certificato medico, indispensabile al fine di valutare la compatibilità della signora G. a sottoporsi a un pesante programma quale prospettato nel modulo; il Modulo in questione va interpretato senza alcun dubbio alla luce della promessa di check-up iniziale gratuito da parte del Centro Estetico visionabile sul sito dell’opposta.
La clausola n. 2 dello stesso modulo è chiara: “Il cliente si impegna a corrispondere per l’intero il prezzo pattuito nel suddetto prospetto e secondo le condizioni stabilite”; nella fattispecie mancano proprio le condizioni stabilite e il relativo spazio è in bianco; non solo, la clausola n. 8 stabilisce: “I trattamenti… hanno validità di anni uno dal primo effettuato”: nel nostro caso la cliente non ha usufruito di alcun trattamento, come dichiarato dalla stesa madre della titolare”…

Il datore di lavoro ex art. 2087 è responsabile per non avere predisposto nel tempo le cautele necessarie a sottrarre il proprio dipendente al RISCHIO AMIANTO

By Pronunce
Si segnala, in tema di responsabilità del datore di lavoro nella predisposizione delle cautele necessarie a sottrarre il proprio dipendente al rischio amianto, la sentenza n. 15156 dell’11 luglio 2011 della Cassazione Civile, Sezione Lavoro.
Prima di soffermarci nel dettaglio in merito a quanto statuito nella ridetta sentenza, è doverosa una breve digressione circa la pericolosità dell’amianto, tenuto conto che l’Italia è stata una grande produttrice di questo minerale, nonché uno dei principali utilizzatori in Europa, con un picco tra il 1976 e il 1979.
Il divieto di impiego dell’amianto nel nostro Paese è giunto solo nel 1992 con la Legge 257/1992, dunque sino ad allora l’amianto è stato sempre utilizzato.
L’inalazione di una minima particella di fibre di amianto può comportare l’insorgenza di gravi patologie a lunga latenza.
La passata esposizione all’amianto uccide ancora oggi migliaia di persone l’anno. Si ritiene purtroppo che tale numero continuerà ad aumentare nei prossimi dieci anni.
 Solitamente, infatti, trascorre un lungo periodo di tempo fra la prima esposizione all’amianto e l’inizio della malattia vera e propria. Ciò può variare in un intervallo compreso fra 15 e 60 anni, ragione per cui si stima che in Italia nei prossimi anni si avrà un aumento rilevante di casi di malattie quali carcinoma polmonare e mesotelioma legati all’attività professionale.
L’amianto (o asbesto) è una sostanza di natura minerale a base di silicio, in grado di formare fibre molto flessibili resistenti al calore e chimicamente inerti.
L’amianto veniva utilizzato nel passato per le sue proprietà isolanti, sia nelle coibentazioni, sia nei materiali compositi (Eternit per le coperture dei tetti). Le fibre e la polvere di amianto se inalate, sono però cancerogene. Tale materiale viene pertanto oggi rimosso e smaltito con particolari precauzioni.
L’amianto rappresenta un rischio per la salute se le sue fibre sono rilasciate o se sono presenti nell’aria e se queste vengono respirate. Gli organi maggiormente colpiti dall’esposizione ad amianto sono i polmoni e la pleura. A carico del polmone, l’amianto può provocare il cancro o una malattia cronica detta ‘asbestosi’, mentre a carico della pleura la patologia correlata è il tumore noto anche come mesotelioma.
L’insorgenza di patologie tumorali non è sempre legata ad una lunga esposizione a fibre di amianto, ma è stato provato che è possibile contrarre malattie correlate anche con basse esposizioni. Il rischio di esposizione, non interessa solamente i lavoratori che operano su materiali contenenti amianto, ma anche tutte quelle persone che risiedono o frequentano ambienti in cui è presente amianto sotto forma di manufatti. La pericolosità delle fibre di amianto deriva dalla possibilità di essere inalate e di penetrare facilmente negli interstizi polmonari.
I manufatti contenenti amianto più diffusi sono naturalmente le lastre di eternit piane o ondulate utilizzate per copertura in edilizia. In tali manufatti l’amianto è inglobato in una matrice non friabile che, quando è in buono stato di conservazione, impedisce il rilascio spontaneo di fibre.
Dopo anni dall’installazione tuttavia, le coperture subiscono un deterioramento per azione delle piogge acide, degli sbalzi termici, dell’erosione eolica e di organismi vegetali, che determinano corrosioni superficiali con affioramento delle fibre e conseguente liberazione di queste in aria.
Le fibre rilasciate sono disperse dal vento e, in misura ancora maggiore sono trascinate dalle acque piovane, raccogliendosi nei canali di gronda o venendo disperse nell’ambiente dagli scarichi di acque piovane non canalizzate.
La sentenza de qua affronta un argomento molto “caldo” in ambito giuslavoristico, ovvero il riconoscimento del risarcimento del danno in capo  al lavoratore esposto alle polveri di amianto, connesso con il diritto alla tutela e sicurezza nei luoghi di lavoro.
Per consolidato orientamento giurisprudenziale incombe sul lavoratore dipendente che lamenta di aver subito un danno alla salute a causa dell’attività lavorativa prestata, ovvero sugli eredi di quest’ultimo, l’onere di provare:
– l’esistenza di tale danno, ovvero la lesione all’integrità psicofisica;
– la nocività dell’ambiente di lavoro in relazione al suddetto danno (il contatto con l’amianto);
– il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa resa in favore del datore di lavoro convenuto per il risarcimento del danno.
Solo ove tale prova venga raggiunta sorge la responsabilità del datore di lavoro in relazione al suddetto danno, ed il conseguente onere in capo al datore di lavoro di provare l’avvenuta adozione di tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno alla salute dei propri dipendenti. (Cfr. Cass. Sez Lav. n. 4721 del 9 maggio 1998 e Cass. n. 12661 del 1° dicembre 1995).
La sentenza indicata in epigrafe pone l’attenzione sugli adempimenti incombenti sul datore di lavoro al fine di garantire ai lavoratori la sicurezza sul luogo di lavoro.
La statuizione prende spunto da un caso di richiesta di condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno biologico, morale ed esistenziale subito dal loro dante causa, formulata dagli eredi di un lavoratore, deceduto per aver contratto, in conseguenza dell’attività lavorativa prestata, un carcinoma polmonare sinistro.
Precisamente l’Organo Supremo – rilevato che l’Inail aveva riconosciuto la natura professionale di tale malattia –  ha statuito che: “La responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087, cod.civ., non è limitata alla violazione di norme d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma va estesa, invece, nell’attuale sistema italiano, supportato a livello costituzionale, alla cura del 
lavoratore attraverso l’adozione, da parte del datore di lavoro, nel rispetto del suo diritto di libertà d’impresa, di tutte quelle misure e delle cautele che, in funzione della diffusione e della conoscibilità, pur valutata in concreto, delle conoscenze, si rivelino idonee, secondo l’id quod plerumque accidit, a tutelare l’integrità psicofisica di colui che mette a disposizione della controparte la propria energia vitale (nella specie, la Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto responsabile ex art. 2087 c.c. un datore di lavoro per non aver predisposto, negli anni che andavano dal 1975 al 1986, le cautele necessarie a sottrarre il proprio dipendente al rischio amianto)“.
IL FATTO:
Con ricorso in data 16.11.2004 avanti al Tribunale di Torino, in funzione di Giudice del lavoro, gli eredi di un lavoratore dipendente, premesso che il loro dante causa aveva prestato a decorrere dal febbraio 1975 attività lavorativa presso due società che avevano l’appalto per la verniciatura di tubazioni ed apparecchiature in ferro all’interno dello stabilimento di una terza società committente, svolgendo le mansioni di verniciatore consistenti nel ripulire dalla ruggine e nel verniciare tali tubazioni ed apparecchiature mediante l’utilizzo di pennelli e pistola a spruzzo nonché vernici alla nitro ed epossidiche con solventi vari, lamentavano che lo stesso aveva contratto in conseguenza
dell’attività suddetta un carcinoma polmonare sinistro, il quale aveva poi costituito causa del decesso.
Tenuto altresì conto che l’Inail aveva riconosciuto la natura professionale di tale malattia, chiedevano la condanna delle società sopra indicate al risarcimento del danno biologico, morale ed esistenziale subito dal loro dante causa.
Istauratosi il contraddittorio i convenuti contestavano quanto dedotto dai ricorrenti sia in ordine alla esposizione del lavoratore al rischio di inalazione di polvere di amianto o ad altri rischi, sia in ordine al nesso di causalità fra l’attività svolta e la patologia manifestatasi. Entrambe le società rilevavano altresì che l’eventuale rischio era non specifico ma ambientale, e la riferibilità dello stesso era da imputare ad altri soggetti, e, precisamente, alla società committente dei lavori di verniciatura. Le società datrici di lavoro chiedevano pertanto di essere autorizzate a chiamare in giudizio le predette società committenti per l’espletamento del diritto di rivalsa in ordine alle domande formulate dalle ricorrenti.  Inoltre una delle società datrici di lavoro chiedeva di essere autorizzata a chiamare in giudizio la  propria compagnia assicuratrice per venire dalla medesima manlevata.
Con ordinanza il Tribunale autorizzava la chiamata in giudizio della  Compagnia di Assicurazioni, ma respingeva le istanze di entrambe le convenute per la chiamata in giudizio delle società committenti.
Quindi, disposta ed espletata consulenza medico legale, con sentenza n. 4977 del 15.9 / 25.11.2006, il Tribunale adito rigettava le domande degli eredi, ritenendo non provato il nesso di derivazione eziologica fra l’attività svolta dal lavoratore deceduto e la patologia denunciata.
Avverso tale sentenza proponevano appello i ricorrenti.
La Corte di Appello di Torino, disposta la rinnovazione delle operazioni di consulenza tecnica d’ufficio, con sentenza in data 27.11.2008 / 20.1.2009, in parziale accoglimento del gravame, condannava la società appellata al risarcimento dei danni nella misura di Euro 559.894,00, oltre interessi e rivalutazione dal 1 gennaio 2008.
In particolare la Corte territoriale riteneva, in applicazione del principio della equivalenza causale sancito dell’art. 41 c.p., che gli eredi avessero assolto all’onere loro ascritto di fornire la prova della esposizione del loro dante causa alla inalazione di polveri di amianto e quindi della riconducibilità eziologica del danno riportato dal lavoratore all’inadempimento dell’obbligo di sicurezza sul lavoro posto dall’art. 2087 c.c..
Avverso questa sentenza la società condannata proponeva ricorso per cassazione con quattro motivi di impugnazione.
La Corte di Cassazione rigettava il ricorso.
In particolare la Suprema Corte ha osservato che erroneamente la società ricorrente aveva rilevato che la Corte territoriale non aveva esteso la propria indagine alla incidenza del rischio del fumo di sigaretta, al quale il lavoratore si era volontariamente esposto per tutta la vita. Ed invero i giudici di appello, nell’esaminare la problematica del nesso eziologico in relazione alla patologia tumorale da cui era affetto il lavoratore, hanno specificamente evidenziato che dagli accertamenti peritali effettuati era emersa l’esistenza di un ruolo quanto meno concausale, nell’insorgenza e lo sviluppo della patologia tumorale, sia della rilevante abitudine al fumo di sigaretta che della esposizione all’asbesto nel luogo di lavoro.
Secondo il Supremo Collegio del pari infondato è l’assunto concernente la omessa valutazione da parte della Corte territoriale dell’incidenza del fumo e della potenzialità lesiva dei rischi connessi all’attività lavorativa svolta.
Nel caso di specie, secondo l’Organo Supremo, la Corte territoriale ha correttamente evidenziato che parte ricorrente aveva fornito la prova che il lavoratore, in ragione delle mansioni cui era addetto, aveva subito la potenziale esposizione alle polveri di amianto in considerazione dei lavori di scoibentazione dei tubi di riscaldamento svolti; circostanza confermata dagli esiti della prova testimoniale svolta e delle relazioni di consulenza medico legale che avevano riscontrato la presenza in quantità cospicua di fibre di amianto nel polmone dell’interessato. Ed ha altresì correttamente evidenziato il ruolo, quanto meno concausale, della esposizione a polveri di amianto, nella determinazione dell’evento, applicando correttamente la regola contenuta nell’art. 41 c.p. alla stregua della quale va riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito alla produzione dell’evento, salvo il temperamento previsto nello stesso art. 41 c.p. in forza del quale il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l’evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni (Cass. sez. lav., 4.6.2008 n. 14770; Cass. sez. lav., 3.5.2003 n. 6722; Cass. sez. lav., 9.9.2005 n. 17959.
Infine la Corte rigettava  la censura seconda la quale il giudice di merito avrebbe omesso di considerare che l’apprezzamento della responsabilità del debitore deve avvenire, anche nelle ipotesi regolate dall’art. 2087 c.c., nel rispetto delle norme generali sull’adempimento delle obbligazioni, contenute negli artt. 1176 e 1218 c.c., che prevedono il dovere della diligenza media e l’esimente della impossibilità per causa non imputabile al debitore.
Osservava in proposito il Collegio che nella fattispecie in esame la società ricorrente ha genericamente rilevato che, trattandosi di rapporto lavorativo intercorso tra gli anni 1975 e 1986, il giudice di merito avrebbe dovuto accertare, in ossequio alle disposizioni degli artt. 1176 e 1218 c.c., quali adempimenti erano possibili e quale diligenza (media) doveva essere adottata da parte della datrice di lavoro, alla stregua delle normative vigenti e delle cognizioni possibili in quel tempo.
Sul punto peraltro la Corte (Cass. sez. lav., 7.1.2009 n. 45) ha  già avuto modo di evidenziare che i comportamenti omissivi, dai quali può discendere la responsabilità del datore di lavoro, “possono consistere nella mancata osservanza di norme specifiche di legge, oppure dettate dalla prudenza e dalla esperienza, in relazione alla particolarità del lavoro ed allo sviluppo tecnologico sia nella organizzazione del lavoro, sia nelle tecniche di prevenzione, secondo il dettato dell’art. 2087 c.c., che costituisce norma di chiusura del sistema antinfortunistico, estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate dalle norme antinfortunistiche specifiche (ex plurimis Cass., 4 marzo 2005 n. 4 723; Cass., 8 febbraio 2005 n. 2444; Cass. 22 marzo 2002 n. 4129; Cass. 20 aprile 1998 n. 4012)”.
In proposito la Corte di Cassazione ha altresì evidenziato (Cass. sez. lav., 14.1.2005 n. 644), in relazione ad attività lavorativa svoltasi dal 1959 al 1971, che “in particolare, la pericolosità dell’amianto, conclamata non da ipotetici indizi o evidenti ignoranze legali, ma da vieppiù diffusi allarmi manifestati, sin da prima del periodo qui in evidenza, dalla scienza medica sui perversi effetti incidenti sul bene primario della salute (che la Costituzione e il codice garantiscono) in caso
di situazioni non occasionate da congiunture sporadiche o transitorie, ma avvalorate da attività permanenti, contigue alle fonti di diffusione delle particelle d’asbesto, riconosciute evidenti attraverso il dibattito giudiziario e la consulenza medico legale, azzera il tentativo, espresso dal ricorso, di escludere la responsabilità contrattuale dell’Ente nei confronti dei suoi dipendenti, impedendo l’accoglimento del ricorso.

Se l’infermiere non ascolta le reiterate richieste dei parenti di un paziente ricoverato impedendo cosi’ l’intervento tempestivo del medico, risponde alla giustizia in caso di morte del paziente che aveva bisogno di cure urgenti?

By Pronunce
Si segnala una recente sentenza della Cassazione Penale, Sez. IV depositata il 20 giugno 2011 n. 24573, che prendendo le mosse da una decisione intervenuta in sede di udienza preliminare in cui il giudicante aveva escluso l’esistenza di una posizione di garanzia in capo agli infermieri, contemplata dalla fattispecie del reato omissivo improprio di cui all’art. 40, comma 2 c.p. (non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo) ha, viceversa, stabilito che “rientra nel proprium (non solo del sanitario, ma anche) dell’infermiere quello di controllare il decorso della convalescenza del paziente ricoverato in reparto, sì da poter porre le condizioni, in caso di dubbio, di un tempestivo intervento del medico”.
La triste vicenda che ha dato origine a questa sequela di pronunce che hanno poi condotto al giudizio del Supremo Collegio è quella di un signore che la mattina del  13 settembre 2005 veniva condotto con urgenza al Pronto Soccorso poiché rimasto gravemente ferito a seguito di un incidente stradale.
Sottoposto a un delicato intervento chirurgico all’arto inferiore destro che terminava alle ore 12:30. Nella fase post-operatoria emergevano delle complicazioni. La moglie del paziente, una volta notato lo stimolo al vomito, l’intensa sudorazione e il copioso sanguinamento chiedeva a più riprese  invano l’aiuto e l’intervento del personale infermieristico.
Solo alle ore 21:40 dello stesso giorno e solo grazie all’interessamento di un medico del Pronto Soccorso, il paziente veniva sottoposto a una TAC al termine della quale veniva poi finalmente trasferito, oramai in stato di incoscienza e con una seria e preoccupante diagnosi (coma con insufficienza cardiocircolatoria terminale in soggetto cranio traumatizzato), in un altro ospedale.
Nonostante un pronto e riuscito intervento di craniotomia fronto-temporo-parietale, il paziente decedeva il 17 settembre 2005 nel reparto di rianimazione della struttura sanitaria.
Nei confronti di tutti gli imputati nel corso dell’udienza preliminare veniva dichiarato il non luogo a procedere “perché il fatto non sussiste”.  Nello specifico il Pubblico Ministero imputava al personale infermieristico di non avere dato corso alle incessanti richieste di intervento medico avanzate dai familiari della vittima.
La Suprema Corte di Cassazione ha definito “del tutto improponibile giuridicamente… l’assunto del giudicante teso ad escludere la sussistenza di una posizione di garanzia degli infermieri, che, oltre ad essere affermazione apodittica, fraintende completamente i principi applicabili nella subiecta materia”.
È vero, per la Corte Suprema, il contrario, con la pregnante precisazione che ”non  è in discussione (né lo potrebbe essere) una comparazione tra gli spazi valutativi e  decisionali dell’infermiere rispetto al medico, ma solo l’obbligo per l’infermiere, anche solo in caso di dubbio ragionevole (qui, fondabile non foss’altro che per le reiterate indicazioni dei parenti), di chiamare l’intervento del medico di turno, cui poi compete la decisione ultima”.

CONSENSO DEL PAZIENTE INTERDETTO

By Pronunce
Il tema delicato del consenso alle cure del paziente interdetto è divenuto di scottante attualità a seguito della nota triste vicenda di Eluana Englaro.
Dalla sentenza che ha deciso il caso Englaro n. 21748 del 16 ottobre 2007  e dalla successiva giurisprudenza di legittimità e di merito, è disceso che il legale rappresentante ha il potere di compiere atti di cura in favore dell’incapace e, quindi, di esprimere, per conto di quest’ultimo, il consenso ai trattamenti sanitari.
Il tutore – si legge nella sentenza citata – è investito della legittima posizione di soggetto interlocutore dei medici nel decidere i trattamenti da praticare in favore dell’incapace. Questo principio trova origine e discende da una serie di disposizioni.
Al riguardo, citiamo ad esempio l’art. 6, comma 3 della Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina secondo cui <<Allorquando, secondo la legge, un maggiorenne, a causa di un handicap mentale, di una malattia o per un motivo similare, non ha la capacità di dare consenso ad un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, di autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge>>.
Occorre verificare se e come detta conclusione si concili con l’istituto dei cosiddetti “atti personalissimi”.
Gli atti racchiusi in questa categoria devono essere posti in essere esclusivamente dal titolare della situazione giuridica. Se compiuti da altri sarebbero nulli. Nessuno, infatti, può essere sostituito da un terzo, ad esempio, nella decisione di disporre per testamento, di contrarre matrimonio, di donare, oppure nella separazione personale o nel riconoscimento di figli naturali.
La  giurisprudenza della Suprema Corte ha recepito questa teoria, affermando che <<la rappresentanza dell’interdetto per infermità di mente da parte del tutore in tutti gli atti civili non comprende i c.d. atti personalissimi>>.
Con specifico riferimento al campo dei trattamenti sanitari cosiddetti life-sustaining in favore dell’interdetto, la Corte di legittimità ha richiamato tale orientamento, ribadendo la <<non configurabilità, in mancanza di specifiche disposizioni, di un generale potere di rappresentanza in capo al tutore con  riferimento ai cc.dd. atti personalissimi>>.
Rispetto a questa impostazione ( che come diremo oltre è condivisa dal Giudice tutelare parmense nel decreto che passeremo in esame), la “sentenza Englaro” segna un momento di significativa discontinuità. In tale sentenza si afferma, infatti, che  il carattere personalissimo del diritto alla salute dell’incapace non è di ostacolo all’esercizio di esso da parte del tutore in via rappresentativa. Il potere di rappresentanza del tutore, tuttavia, è sottoposto <<ad un duplice ordine di vincoli: egli deve, innanzitutto, agire nell’esclusivo interesse dell’incapace e, nella ricerca del best interest, deve decidere non “al posto  né “per” l’incapace, ma “con” l’incapace; quindi,  ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche>>.
In questo quadro – che ha suscitato numerosi dibattiti e ha diviso l’opinione pubblica – si inserisce un provvedimento del Tribunale Ordinario di Parma – Giudice Tutelare Agostini datato 07.06.2011 che è frutto secondo i commentatori di una interpretazione troppo severa della teoria dei c.d. “atti personalissimi” e fa discutere per la sua pratica realizzabilità.
Va premesso, però, che il Giudice preliminarmente rileva che dal certificato sanitario allegato non è evidenziato alcun elemento idoneo a valutare il rapporto rischio/benefici dell’intervento chirurgico, valutazione peraltro sottratta a questo Giudice Tutelare; che, nel caso di specie, non emerge dal certificato medico prodotto che l’intervento chirurgico programmato è indispensabile ad evitare eventuali conseguenze gravi; e ritenuto, pertanto, che non sussistano gli estremi dello stato di necessità…
Il Giudice di Parma così decide: “Invita il tutore ad acquisire preliminarmente una valutazione neuro-psichiatrica relativa alla capacità cognitiva ed alla capacità di autodeterminazione di G F, valutazione che ben può essere compiuta con modalità extraospedaliere, onde appurare se sia in grado di manifestare un valido consenso o dissenso in relazione all’intervento chirurgico di cui in ricorso;
Laddove risulti che lo stato mentale di G F precluda la manifestazione di un valido consenso o dissenso in relazione all’intervento chirurgico di cui in ricorso, invita il Tutore a comunicare all’operatore chirurgico la volontà presunta del Tutelato a ricevere la prestazione sanitaria, nel caso in cui dalle circostanze relative alla pregressa vita dell’interessato non emergano indizi gravi seri e concordanti che inducano a ritenere che l’incapace avrebbe rifiutato l’intervento.
Dichiara immediatamente esecutivo il presente decreto …. Omissis …”.
Quali le perplessità?
Fra tutte: può un interdetto (che per definizione è in condizioni di abituale infermità di mente e quindi incapace di provvedere ai propri interessi) esprimere un valido consenso?
E cioè può autodeterminarsi?
Probabilmente NO. Diversamente dovrebbe essere revocata l’interdizione!
La materia in ogni caso è molto delicata.
E’ da più parti auspicato un intervento chiarificatore del Legislatore.

Incidente stradale con esiti mortali per un motociclista. per la cassazione si deve riconoscere un diritto al risarcimento dei danni alla figlia della persona deceduta, sebbene nata dopo la morte del padre.

By Pronunce
Si segnala una importante sentenza della Suprema Corte di Cassazione Civile, Sez. III, 3 maggio 2011, n. 9700.
La storia è di quelle drammatiche di morte sulle strade che, questa volta, ha visto come vittima un motociclista scontratosi con una autovettura.
Dagli accertamenti eseguiti si è giunti in primo grado (e poi anche nei successivi) a ritenere colpevole dell’accaduto l’automobilista per colpa prevalente (75%) con conseguente condanna dello stesso e della sua Assicurazione a risarcire i danni ai prossimi congiunti del motociclista deceduto.
Con sentenza n. 2949 del 2009 il Tribunale di Bergamo escludeva, tuttavia, che potesse riconoscersi il risarcimento alla figlia del defunto, in quanto nata dopo la morte del padre. Si ritenne che <<ella non potesse essere titolare di alcun diritto al risarcimento in caso di lesione>> in quanto priva della capacità giuridica alla data dell’evento dannoso.
La sopraddetta sentenza è stata confermata sul punto dalla Corte d’Appello di Brescia secondo cui <<al riconoscimento di un autonomo diritto al risarcimento per la morte di un genitore, avvenuta nel periodo intercorrente tra il concepimento e la nascita, è di ostacolo insormontabile la duplice circostanza dell’inesistenza al momento del sinistro del soggetto danneggiato e della mancanza di una norma specifica che gli attribuisca siffatto diritto, pur subordinato nel suo concreto esercizio all’evento della nascita>>.
La Cassazione ritiene che [ nel caso di specie] non si ponga alcun problema relativo alla soggettività giuridica del concepito, non essendo necessario configurarla per affermare il diritto del  nato al risarcimento e non potendo, d’altro canto, quella soggettività evincersi dal fatto che il feto è fatto oggetto di protezione da parte dell’ordinamento.
Il diritto di credito è infatti vantato dalla figlia in quanto nata orfana del padre, come tale destinata a vivere senza la figura paterna. La circostanza che il padre fosse deceduto prima della sua nascita per fatto imputabile a responsabilità di un terzo significa solo che condotta ed evento materiale costituenti l’illecito si erano già verificati prima che ella nascesse, non  anche che prima di nascere potesse avere acquistato il diritto di credito al risarcimento. Il quale presuppone la lesione di un diritto (o di altra posizione giuridica soggettiva tutelata dall’ordinamento), che nel caso in scrutinio è da identificarsi con il diritto di godimento del rapporto parentale (Cass. Nn. 8827 e 8828 del 2003 e Cass., sez. un., n. 26972 del 2008), certamente inconfigurabile prima della nascita.
Così come solo successivamente alla nascita si verificano le conseguenze pregiudizievoli che dalla lesione del diritto derivano.
Del rapporto col padre e di tutto quanto quel rapporto comporta la figlia è stata privata nascendo, non prima che nascesse. Prima, esistevano solo le condizioni ostative al suo insorgere per la già intervenuta morte del padre che la aveva concepita, ma la mancanza del rapporto intersoggettivo che connota la relazione tra padre e figlio è divenuta attuale quando la figlia è venuta alla luce.
In quel momento s’è verificata la propagazione intersoggettiva dell’effetto dell’illecito per la lesione del diritto della figlia (non del feto) al rapporto col padre; e nello stesso momento è sorto il suo diritto di credito al risarcimento, del quale è dunque diventato titolare un soggetto fornito della capacità giuridica per essere nato.
Con questa sentenza la Corte di Cassazione in realtà non ha preso le distanze da quelle norme e principi dell’ordinamento che consentono di ritenere  che non possa sussistere in capo al concepito  una autonoma soggettività giuridica. Per cui – che la si condivida o meno – rimane ferma nel nostro sistema la linea interpretativa per cui finché il feto è legato dal cordone ombelicale alla madre è soltanto una mera “portio viscerum”, un qualcosa di pertinenziale alla madre, in poche parole una “cosa”.
La sentenza in commento finisce per utilizzare la categoria dei c.d. danni futuri: danni che al momento dell’illecito non esistono, in senso stretto (seppure si possano ragionevolmente intravedere!), ma si produrranno successivamente.
Il nascituro non potrebbe lamentare alcun danno per i gravi pregiudizi subiti dall’uccisione del padre durante la fase di sua gestazione solo perché nessuna relazione si poteva istaurare fra i due in quella fase.
Al momento della nascita si iniziano a manifestare gli effetti dannosi perché il nato in quel momento si ritrova privato del rapporto col padre.

Se decidi scientemente di farti trasportare su un motorino in condizioni di sicuro pericolo, per la cassazione cooperi colposamente nella determinazione dei tuoi danni

By Pronunce
Il Supremo Collegio, Sez. III Civile, con sentenza n. 10526 del 13 maggio 2011 ha voluto sottolineare a chiare lettere come il concorso di colpa si concretizzi attraverso una consapevole assunzione del rischio da parte del trasportato – danneggiato che nel caso di specie ha tenuto una condotta palesemente imprudente.
La decisione scaturisce da un fatto accaduto di notte, in una non precisata  località del Trentino, quando una sfortunata ed improvvida signora rimase coinvolta in un incidente stradale. L’autovettura dalla stessa condotta non poteva essere rimessa in moto perché gravemente danneggiata e pertanto la signora e il figlio che viaggiava con lei erano  impossibilitati a ritornare a casa. Presa dal panico, la signora accettava di intraprendere il lungo viaggio di ritorno sullo scooter di un conoscente: sul mezzo trovano sistemazione il conducente, la donna, il figlio di lei (che fortunatamente indossava l’unico casco disponibile) ed un voluminoso borsone, che veniva posizionato “di traverso sullo scooter” stesso.
Dopo aver percorso circa 100 km i ridetti soggetti  rovinavano al suolo, con conseguenti danni per la protagonista.
La vittima agiva, quindi, in giudizio contro il conducente dello scooter e contro la compagnia assicuratrice del mezzo a due ruote, per vedersi risarcire i danni conseguenti alle gravi lesioni riportate. Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Trento riconoscevano il diritto al risarcimento; con una riduzione del quantum di un quinto del totale,  ritenendo sussistente un concorso di colpa della vittima, rilevante ai sensi dell’art. 1227, comma 1, c.c. .
La Corte di Cassazione investita della questione ha osservato che i giudici di merito hanno nel caso fatto invero piena e corretta applicazione del principio da questa Corte affermato secondo cui allorquando la messa in circolazione dell’autoveicolo in condizioni di insicurezza (e tale è la circolazione di un ciclomotore con a bordo addirittura come nella specie tre persone, di cui uno minore d’età, in violazione dell’art. 170 C.d.S.) è ricollegabile all’azione o omissione sia del conducente (che prima di iniziare o proseguire la marcia deve controllare che essa avvenga in conformità delle normali norme di prudenza e sicurezza) che del trasportato emerge una fattispecie caratterizzata dal reciproco consenso dei medesimi alla circolazione, con consapevole partecipazione di ciascuno alla condotta colposa dell’altro, e accettazione dei relativi rischi, integrante un’ipotesi di cooperazione colposa dei predetti nella condotta causativa del fatto evento dannoso che, a parte i profili di responsabilità per gli eventuali danni arrecati a terzi disciplinati dall’art. 2054 c.c., obbliga il conducente del veicolo al risarcimento dei danni sofferti dal trasportato in conseguenza del sinistro.

 


Tuttavia se per il trasportato “l’avere accettato il passaggio sullo scooter, sia pure nelle condizioni di spavento e difficoltà susseguenti al primo incidente ed anche per la necessità di non rimanere sola in piena notte con il figlio di 11 anni,[ se] non può considerarsi … elemento di causa esclusiva dell’evento, va comunque stimato, quanto meno, fatto concorrente alla verificazione dell’evento. Non può tacersi, infatti, che il trasporto dei due passeggeri e di un borsone  su uno scooter, comunque di piccole dimensioni, ha indubbiamente creato un profondo turbamento dell’equilibrio del mezzo perfettamente evidente a qualunque conducente di mezzo( la Z.era abilitata alla guida), la stessa Z., nel far indossare al figlio ili solo altro casco disponibile, ha mostrato di avere perfettamente intuito il rischio che il trasporto rappresentava in ragione della complessiva inidoneità del mezzo e delle concrete modalità attraverso le quali il trasporto veniva eseguito”, pervenendo quindi a concludere che “la concitazione”, lo spavento e la preoccupazione del momento hanno indotto la Z. ad un comportamento non razionale che ha concorso a determinare l’evento sia pure senza che ciò possa essere valutato quale unica causa dell’occorso.
Nulla si legge circa la scelta di quantificare nel 20% la misura del concorso di colpa del trasportato-danneggiato!!!!

Il divieto di assegnazione a mansioni inferiori ex art. 2103 c.c. è norma inderogabile. Il danno alla immagine professionale del lavoratore per demansionamento è risarcibile se la lesione subita è grave

By Pronunce
Si segnalano due importanti sentenze della Suprema Corte di Cassazione Civile, Sez. Lavoro: la numero 8527 del 14 aprile 2011 e la n. 5337 del 4 marzo 2011. Entrambe le sentenze riguardano episodi di demansionamento posti in essere dal medesimo datore di lavoro, ma nei confronti di due diversi lavoratori. X
La sentenza n. 5337 del marzo 2011 ha ad oggetto la vicenda di un lavoratore che sosteneva  di aver subito, nel 1995 un demansionamento, in quanto, a seguito di un riordino organizzativo, il datore di lavoro lo aveva retrocesso da “capo turno” ad “addetto alla sorveglianza”. Il lavoratore ricorreva al Pretore di Milano chiedendo l’accertamento del lamentato demansionamento, la condanna della società alla riattribuzione delle precedenti mansioni, nonché la condanna della medesima al risarcimento del danno in misura pari ad una mensilità lorda di retribuzione per ciascun mese di dequalificazione subita a partire dal 15/5/1995.
La domanda veniva rigettata e il lavoratore impugnava la sentenza avanti la Corte d’Appello di Milano, che,  con sentenza 11 maggio 2001, n. 298, condannava l’Azienda a riassegnare al dipendente le mansioni di Capoturno o altre equivalenti e al risarcimento del danno, in misura pari al 10% della retribuzione globale di fatto mensile a partire dal 15.5.95.
Il datore di lavoro ricorreva in Cassazione e la Suprema Corte, con sentenza 29 ottobre 2004, n. 20889, respinti i motivi di ricorso avverso l’accertamento del demansionamento, accoglieva quello relativo alla condanna risarcitoria, cassava in parte qua la sentenza della Corte d’Appello di Milano, e rimetteva il giudizio avanti alla Corte d’Appello di Genova.
Il lavoratore con ricorso depositato il 13/6/2005 riassumeva la causa avanti la Corte d’Appello di Genova per conseguire il risarcimento dei danni derivanti dall’acclarato demansionamento, deducendo che l’accertato demansionamento aveva procurato quattro tipi di danno: 1) danno alla vita di relazione; 2) compromissione della capacità di concorrere nei rapporti sociali ed economici; 3) danno da perdita di professionalità; 4) danno patrimoniale diretto per il dimezzarsi della possibilità di accedere ai turni di reperibilità.
Il lavoratore sosteneva che tutti i predetti pregiudizi erano dimostrabili in via presuntiva e liquidabili in via equitativa, in misura pari all’ammontare di una mensilità di retribuzione lorda per ogni mese di dequalificazione.
Il datore di lavoro costituitosi eccepiva l’irritualità della riproposizione di domande risarcitorie già respinte nelle precedenti fasi del giudizio ed esorbitanti dal limite di cognizione del giudizio di rinvio, quale delineato dalla Corte di legittimità.
Nel merito il datore di lavoro  osservava che, in relazione a tutte le ragioni di danno lamentate, non era sussistente la necessaria prova secondo i criteri dettati dal recente orientamento giurisprudenziale in ordine ai danni da demansionamento.
La Corte d’Appello di Genova, rilevato che il lavoratore non aveva fornito la prova del pregiudizio da demansionamento, rigettava la domanda volta a conseguire il risarcimento del danno. Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia.
La Suprema Corte rigettava il ricorso del lavoratore statuendo che: “In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva – non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale – non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; e che “In caso di accertato demansionamento professionale, la risarcibilità del danno all’immagine derivato al lavoratore a cagione del comportamento del datore di lavoro presuppone che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità, e che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi. (Nella specie, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha rilevato la correttezza della decisione della corte territoriale che non solo ha escluso che la retrocessione da capo turno ad addetto alla sorveglianza comportasse l’esistenza di un danno “in re ipsa” rispetto alla dedotta lesione dell’immagine professionale, ma ha ritenuto di poter trarre una presunzione di segno contrario in relazione all’ “estrema modestia della limitata supremazia esercita in precedenza” dal lavoratore)”.
La sentenza n. 8527 dell’aprile 2011 trae, invece, spunto dalla vicenda accaduta ad un lavoratore che aveva citato in giudizio il datore di lavoro per ottenere la condanna di quest’ultimo al risarcimento del danno patrimoniale (differenze retributive) e del danno non patrimoniale (lesione della dignità personale e professionale) subiti in conseguenza della violazione del divieto di demansionamento posto in essere dal datore di lavoro.
Il dipendente aveva chiesto al datore di lavoro di essere trasferito presso un’altra sede della società. Il datore di lavoro accoglieva la domanda e disponeva il trasferimento del lavoratore presso la sede richiesta, ma lo adibiva a mansioni inferiori rispetto a quelle per le quali era stato assunto e che svolgeva nella sede di provenienza. Il lavoratore, peraltro, non era in possesso delle competenze necessarie per svolgere le mansioni inferiori alle quali era stato assegnato e il datore non gli aveva mai fornito la formazione e le istruzioni necessarie per l’espletamento dei nuovi compiti. Il demansionamento subito aveva comportato per il lavoratore una riduzione dello stipendio oltre ad un  pregiudizio per la dignità personale e professionale.
L’azione promossa dal lavoratore in primo grado avanti il Tribunale di Milano si concludeva con sentenza di accertamento del demansionamento e condanna del datore di lavoro al pagamento di € 36.500,00, oltre rivalutazione e interessi, per il riconoscimento del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale.
La sentenza di primo grado veniva appellata avanti la Corte d’Appello di Milano che rigettava il ricorso, confermando la sentenza di primo grado.
Avverso la statuizione della Corte d’appello il datore di lavoro promuoveva ricorso per Cassazione fondato su tre motivi.
Con il primo motivo il datore di lavoro lamentava che la Corte d’Appello nello svolgimento del suo ragionamento aveva fatto riferimento solo alle mansioni svolte dal lavoratore prima del trasferimento e non anche alla declaratoria delle mansioni inferiori alle quali lo stesso assumeva di essere stato adibito; con il secondo motivo denunciava violazione dell’art. 2103 c.c. sostenendo  che la norma sarebbe derogabile con il consenso delle parti; e con il terzo motivo lamentava che l’organo giudicante non aveva sufficientemente motivato in che cosa consistesse effettivamente il danno patito dal lavoratore.
Con riferimento al primo motivo di doglianza la Cassazione statuiva che: “il ragionamento seguito dalla Corte d’Appello di Milano è corretto e conforme agli insegnamenti della Corte di legittimità, secondo cui, ai fini della verifica del legittimo esercizio dello “ius variandi” da parte del datore di lavoro, deve essere valutata dal giudice di merito – con giudizio di fatto incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivato – la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente nella pregressa fase del rapporto e nella precedente attività svolta (Cass. n. 13173/09).
Quanto al secondo motivo la Suprema Corte evidenziava che  “l’art. 2103 c.c., che tutela la professionalità del prestatore di lavoro nonché il diritto a prestare l’attività lavorativa per la quale si è stati assunti o si è successivamente svolta, vietandone l’adibizione a mansioni inferiori, è norma imperativa e quindi non derogabile nemmeno tra le parti, come sancisce l’ultimo comma di tale norma:<<Ogni patto contrario è nullo>>”.
Infine la Cassazione statuiva  anche che “in caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell’art. 2103 c.c., il giudice di merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del relativo danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico – giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (cfr., Cass. n. 8893/2010Cass., n. 14729/2006)”.
Entrambe le sentenze della Corte di Cassazione confermano l’orientamento ormai consolidato in tema di onere probatorio: non ammettono la sussistenza di una prova del danno in re ipsa, ma attribuiscono rilevanza alle presunzioni intese come quegli elementi di fatto indicativi della quantità e qualità dell’esperienza lavorativa pregressa, della tipologia di professionalità colpita, della durata del demansionamento.
Tuttavia solo la sentenza più recente, la n. 8527/2011 riconosce il risarcimento di un danno alla professionalità del lavoratore.
Nella sentenza 5237/2011 il ragionamento presuntivo è usato a contrario, ossia per escludere la sussistenza del danno in quanto si ritiene che  “l’estrema modestia della supremazia esercitata” dal lavoratore prima del demansionamento lascia presupporre che non si sia verificato alcun danno perché manca il requisito della “gravità dell’offesa”. Il risarcimento del danno non patrimoniale viene negato sia sotto il profilo del mancato assolvimento dell’onere di allegazione, sia sotto il profilo della gravità dell’offesa.
In sostanza la sentenza individua nel criterio della gravità dell’offesa un requisito ulteriore, necessario per il riconoscimento e il risarcimento del danno non patrimoniale alla persona in conseguenza della violazione di diritti costituzionalmente garantiti. Per avere diritto al risarcimento il bene costituzionalmente tutelato e garantito deve essere leso oltre una determinata soglia che superi un grado minimo di tolleranza.
Sul piano teorico l’iter logico della sentenza n. 5237/2011 è condivisibile, tuttavia si osserva che in tal modo si finisce per utilizzare la categoria della “gravità dell’offesa” senza indicare esattamente quale sia la soglia di tollerabilità, con la rischiosa conseguenza che potrebbe non essere riconosciuto il risarcimento per quei casi per così dire “meno evidenti”.

Il diritto del figlio maggiorenne a ricevere l’assegno di mantenimento da parte dei genitori separati non cessa neanche nel momento in cui il figlio decide di sposarsi

By Pronunce
La sentenza n. 1830 del 26.01.2011 della Corte di Cassazione, Sez. I, prende le mosse da una pronuncia della Corte d’Appello di Bologna che aveva respinto un reclamo presentato avverso una decisione del Tribunale di Ferrara del 21.02.2006 che modificava le condizioni della separazione personale di due coniugi con figli.
Con il decreto 21.02.2006, il Tribunale di Ferrara esonerava il padre dal versamento del contributo di €. 436,00 mensili a favore della figlia maggiorenne perché ritenuta autosufficiente.
La madre della ragazza presentava a questo punto reclamo alla Corte di Appello di Bologna che lo respingeva con provvedimento 12.07.2006 sostenendo che la figlia era in possesso di un diploma di laurea utilizzabile per cercare e trovare un lavoro e poi perché, peraltro, la stessa aveva  contratto matrimonio dimostrando di avere raggiunto la piena indipendenza economica.
La Corte di Cassazione ha censurato il “provvedimento  impugnato per aver escluso l’obbligo della controparte (padre) di contribuire al mantenimento della figlia erroneamente ritenuta autosufficiente in mancanza di adeguata occupazione, in quanto la stessa: a) pur avendo conseguito un diploma di laurea in scienze motorie, aveva preferito iscriversi alla facoltà di medicina invece di reperire un’occupazione attraverso il titolo ottenuto; b) aveva contratto matrimonio con un giovane pur esso non indipendente perché ancora studente: senza considerare che le nozze non potevano essere equiparate alla raggiunta autosufficienza richiesta dalla legge”.
La giurisprudenza formatasi negli anni ha fissato dei paletti ben precisi riguardanti questa materia che, invece, la norma non conteneva e in particolare, dice il Supremo Collegio: “1) il Giudice di merito non può prefissare un termine a tale obbligo di mantenimento, atteso che il limite di persistenza va determinato sulla base (soltanto) del fatto che il figlio, malgrado i genitori gli abbiano assicurato le condizioni necessarie (e sufficienti) per concludere gli studi intrapresi e conseguire il titolo indispensabile ai fini dell’accesso alla professione auspicata, non abbia saputo trarne profitto, per inescusabile trascuratezza o per libera (ma discutibile) scelta delle opportunità offertegli; ovvero non sia stato in grado di raggiungere l’autosufficienza economica per propria colpa; 2) spetta al genitore interessato alla declaratoria della sua cessazione, fornire la prova di uno status di autosufficienza economica del figlio; 3) il relativo accertamento non può che ispirarsi a criteri di relatività, in quanto necessariamente ancorato alle aspirazioni, al percorso scolastico, universitario ed alla situazione attuale del mercato del lavoro…
Questo quadro è stato sostanzialmente recepito dal nuovo art. 155 quinquies cod. civ. introdotto dalla l. n. 54 del 2006, secondo cui << Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico>>”.
Nel caso in questione, è vero che la ragazza aveva conseguito un titolo di laurea breve in scienze motorie, ma altrettanto vero è che successivamente non aveva svolto  alcuna attività lavorativa perché si era iscritta alla facoltà di medicina e chirurgia: facoltà che costituiva una sua aspirazione fin da piccola e che, peraltro, frequentava con buoni risultati.
Altrettanto privo di pregio, per il Supremo Collegio, il fatto che la ragazza avesse deciso nel frattempo di sposarsi con un giovane studente di origine dominicana.
Quello che vale per tutti e cioè che il matrimonio del figlio maggiorenne fa cessare automaticamente l’obbligo del genitore al mantenimento dello stesso perché il matrimonio dà origine ad un nucleo distinto ed autonomo con obblighi reciproci dei coniugi di assistenza morale e materiale non vale in questo caso specifico in cui la ragazza, di giovanissima età, a seguito di una relazione sentimentale aveva deciso di sposarsi prima civilmente e poi con rito religioso per consentire l’espatrio del fidanzato e la permanenza di quest’ultimo nel territorio italiano.
A parte il matrimonio, la situazione sostanziale della giovane non risultava, comunque, mutata in quanto la stessa ha proseguito a vivere con la madre e a studiare con profitto per conseguire il diploma di laurea in medicina e chirurgia e, peraltro, il marito, privo di mezzi economici era iscritto ad un istituto superiore per conseguire il diploma di perito elettronico.