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VACANZE SOLO DA SOGNARE… È PROPRIO IL CASO DI DIRLO! CONSUMATORE ATTENZIONE: cosa e chi si può nascondere dietro l’offerta di una allettante vacanza premio?

By Casi
Con ricorso di urgenza (ex art. 700 c.p.c) depositato presso un Tribunale lombardo nel mese di gennaio 2011, due Clienti, i Sig.ri B., con il patrocinio dell’avv. Luigi Lucente, chiedevano che venisse autorizzata la sospensione dei pagamenti rateali mensili relativi al contratto di finanziamento concluso con un noto Istituto di Credito.
Tale scelta di incardinare un procedimento cautelare in attesa del giudizio ordinario – in ogni caso necessario – veniva dettata dall’esigenza di voler evitare ai Sig.ri B. di dover pagare l’intero importo del mutuo durante il periodo occorrente per la definizione di una causa di merito e, quindi, di evitare che il pregiudizio in danno dei consumatori venisse aggravato dai tempi notoriamente lunghi della Giustizia.
A sostegno della propria domanda, i ricorrenti riferivano di essere stati contattati, nel luglio del 2009, con la fraudolenta prospettazione della vincita di un viaggio gratuito a scopo promozionale dai rappresentanti di una Società del torinese, che li invitava, per il ritiro, presso un lussuoso hotel alle porte di Milano, dove, poi, in realtà, con l’allettante promessa e rassicurazione (verbale) di vacanze magnifiche e sottocosto in ogni parte del mondo – le cui immagini riempivano l’intera sala dell’albergo – veniva loro subdolamente proposto di sottoscrivere un “contratto  di compravendita”, avente ad oggetto l’acquisto di un “certificato di associazione” che avrebbe dovuto attribuire al titolare il diritto, alienabile e trasmissibile agli eredi, di godere di una settimana di vacanza in uno dei complessi turistici residenziali facenti parte del circuito turistico che pubblicizzavano.
Il tutto fino all’anno 2053 e a fronte di un corrispettivo di € 11.900,00, importo che i Clienti effettivamente pagavano, in parte mediante un acconto  – corrisposto in palese violazione dell’art. dell’art. 74 del Codice dei Consumatori (già art. 6  Decreto Legislativo 9 novembre 1998 n. 427) – per il resto, mediante contrazione di un prestito con un conosciuto Istituto di Credito italiano, indicato proprio dalla società torinese, che forniva ai Clienti i moduli per la richiesta, raccoglieva le sottoscrizioni e li consegnava alla Banca.
Dopo aver percepito il compenso, tuttavia, tale società svaniva progressivamente nel nulla fino alla completa irreperibilità e, con essa, i sogni di splendide vacanze (di cui, a distanza di più di un anno, non erano MAI riusciti ad usufruire) e i soldi dei Sig.ri B..
I malcapitati si rendevano, quindi, conto del raggiro perpetrato in loro danno e, perciò, sporgevano formale denuncia querela presso le competenti Autorità, affinché venisse avviato un procedimento contro l’Amministratore della Società torinese (attualmente, ancora in fase di indagine), ma, intanto, avevano iniziato a pagare delle somme e si erano impegnati ad onorare le rate mensili del finanziamento.
Nell’atto introduttivo del richiamato procedimento di urgenza, si argomentava sul fatto che l’esame della documentazione offerta in produzione e, in particolare, del contratto di compravendita e dei documenti allegati allo stesso, rivelava l’assoluta nullità dell’accordo stipulato fra la Società torinese e i Sig.ri B., poiché privo del requisito essenziale previsto dall’art. 1346 del Codice Civile per cui l’oggetto del contratto deve essere determinato o determinabile
Nell’intestazione, infatti, si parlava di un “Contratto di compravendita”, il cui oggetto sarebbe stato rappresentato da un certificato di associazione che avrebbe attribuito al titolare “il diritto alienabile e trasmissibile agli eredi di occupare, godere e utilizzare in modo pieno ed esclusivo, per il periodo di una settimana all’anno una suite/appartamento in uno dei complessi turistici residenziali facenti parte del “New Club Elite” in periodi settimanali ricompresi fra le settimane n. 1 e n. 52 di ogni anno solare da stabilirsi annualmente previa comunicazione alla società di gestione al prezzo e alle condizioni generali e particolari qui di seguito indicate”.
Non era, tuttavia, dato capire, neppure con la lettura delle altre clausole contrattuali, di che tipo di associazione si trattasse né quale fosse l’effettiva collocazione temporale del periodo di godimento dell’immobile/i, anch’esso/i a sua/loro volta del tutto imprecisato/i.
Ebbene, in proposito, è doveroso rilevare che la giurisprudenza, già chiamata a pronunciarsi su altre vicende analoghe a quelle dei nostri Clienti (fra le altre, Tribunale di Firenze, 02.04.2004; Tribunale di Parma sent. N. 171/2009; Tribunale Ordinario di Milano Sezione Distaccata di Rho 457/2008; Tribunale di Parma 443/2010; tribunale di Parma n. 652/2009), è concorde nel ritenere che questi spunti ed espressioni “nebulose” (per usare un eufemismo), non solo non siano sufficienti ad integrare il requisito di cui al’art. 1346 del Codice Civile, ma, anzi, determinino proprio l’effetto contrario, e cioè quello di aumentare l’incertezza circa l’oggetto del contratto, dal momento che non è affatto chiaro cosa l’acquirente abbia comprato.
Pur ritenendo assorbente quanto detto circa tale profilo di nullità, si rilevava, altresì, come l’accordo de quo non soddisfasse neppure i requisiti indicati dall’art. 71 (già art. 3 del Decreto Legislativo 98/427) del Codice dei Consumatori: a solo titolo esemplificativo, nel contratto, infatti, non vi era traccia del diritto oggetto del contratto (art. 71, comma II e art. 70, I comma, lett. a); delle informazioni relative ai singoli complessi turistici (art. 71 e art. 70, II comma); del periodo di tempo destinato al godimento del diritto (art. 71).
E se è ben vero che, espressamente, tale normativa prevede la nullità solo per l’ipotesi di carenza di forma scritta, altrettanto vero è che tale onere formale, essendo il medesimo rivolto ad assicurare all’acquirente la piena consapevolezza del proprio operato, non è rispettato anche quando nella scrittura – come nel caso di specie – non sono adoperati termini o frasi intellegibili e, comunque, indicati gli elementi ritenuti necessari dal Legislatore (Tribunale di Firenze 02.04.2004).
Senza contare che vi è un’altra ragione per ritenere nullo il contratto quando lo stesso non contiene le indicazioni prescritte dal menzionato art. 71.
Detta norma, infatti, deve considerarsi imperativa, essendo la stessa diretta a realizzare un interesse indisponibile, cioè quello del consumatore di conoscere con esattezza ciò che sta comprando  e gli impegni che sta assumendo.
Di conseguenza, la nullità, in ipotesi come quella di cui si trattava di inosservanza della ridetta disposizione, discendeva dall’art. 1418 del Codice Civile.
Ancora…
Nella vicenda de qua, era doveroso tenere in debita considerazione due ulteriori aspetti:
 Innanzitutto, il fatto che vi era, nella fattispecie di cui è causa, anche una ragione per annullare il contratto a norma dell’art. 1439 del Codice Civile: i Clienti, infatti, erano stati attirati dalla Società torinese con il pretesto – falso! – di essere stati prescelti per trascorrere una vacanza gratuita di una settimana.
Una condotta già perpetrata a danno di altri consumatori e segnalata dalla Confcosumatori all’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, che, con riferimento alla denuncia inoltrata nei confronti della “V. & V. Viaggi e Vacanze S.r.l.”, in data 31.05.2001, ha affermato: “I messaggi telefonici in esame, alla luce delle dichiarazioni espresse dal segnalante, inducono il destinatario a ritenere di  aver ricevuto in regalo una vacanza senza alcun tipo di onere o condizione annessa alla fruizione della stessa. I messaggi lasciano, infatti, intendere che l’assegnatario contattato telefonicamente, recandosi in una data concordata nel luogo indicato dall’operatore, potrà ritirare omaggio promesso”.
I fatti, invece, allora come nel caso qui narrato, dimostravano che la diretta e reale finalità dell’iniziativa di tali società, che è rappresentata dalla promozione della vendita di quote di multiproprietà, non risulta esplicitata dal messaggio e, quindi, è in contrasto con la normativa attualmente in vigore in materia di “pubblicità ingannevole”.
Il testo della telefonata, infatti, non riportava alcun riferimento a qualsivoglia proposta contrattuale in realtà formulata al Cliente al momento dell’incontro per il ritiro dell’omaggio.
Si era quindi, evidentemente, in presenza di una c.d. “pubblicità ingannevole”, come tale idonea ad indurre in errore un consumatore, convinto a recarsi all’appuntamento – dove, poi, ha firmato il contratto – perché credeva di andar lì solo per ritirare un premio, mentre, invece, si trattava del mezzo, fraudolento, per convincerlo ad assistere alla promozione e alla vendita di una forma di multiproprietà (c.d. Timeshare): donde la ricorrenza di un tipico caso di “dolo determinante”, causa di annullamento del contratto ex art. 1439 c.c.
 In secondo luogo, la Società torinese, nonostante fosse stata più volte sollecitata dai Clienti al fine di ottenere quanto promesso, in qualità di venditrice e di diretta referente ex art. 70 lettera l) del Codice dei Consumatori, si era completamente sottratta anche all’unico obbligo contrattuale che chiaramente si era assunta, e cioè quello di consegnare quel fantomatico pezzo di carta qualificato “Certificato di Associazione intestato all’Acquirente” di cui si è già ampiamente parlato.
Di conseguenza, persino nella denegata e non creduta ipotesi in cui si fosse voluto riconoscere una qualche validità all’accordo di cui si tratta, in ogni caso, lo stesso, in considerazione dello spirare del termine essenziale assegnato dai ricorrenti alla società torinese, si era risolto di diritto e, quindi, era privo di effetti.
Riassumendo, quindi, sotto qualsiasi profilo giuridico si considerasse la fattispecie concreta, il risultato era sempre l’inefficacia dell’accordo stipulato fra la Società torinese e i Clienti (fumus boni iuris).
Non vi era, poi, dubbio che tale effetto travolgesse anche il contratto di finanziamento dal momento che, nel caso concreto, era evidente il collegamento funzionale fra i due accordi “concepiti e voluti come avvinti teleologicamente da un nesso di reciproca interdipendenza per cui le vicende dell’uno debbano ripercuotersi sull’altro, condizionandone la validità ed efficacia” (Cass. 27 marzo 2007, n. 7424; Cfr. in tal senso anche Tribunale di Parma 171/2009) e che “in tal caso grava sul venditore, che ha ricevuto la somma mutuata, l’obbligo di restituirla al mutuante, non già sul mutuatario” (App. Milano, 13 ottobre 2004 in Giur. Merito 2005, 12 2618).
Di conseguenza i consumatori avevano diritto, per effetto dell’inefficacia, di ottenere la restituzione di quanto pagato alla finanziaria e, in sede tutelare, di ottenere l’autorizzazione a sospendere i pagamenti “a venire” per limitare il già grave pregiudizio patito (periculum in mora).
L’unica controparte che si costituiva in giudizio era proprio l’Istituto di credito, il quale, nel proprio atto, si difendeva con un unico argomento, che, qui di seguito si trascrive:
I due contratti richiamati in narrativa non hanno alcun legame tra di loro e, ad un attento esame, risultano ben distinti ed autonomi, sia sotto il profilo formale che quello sostanziale. 
Tali contratti disciplinano invero fattispecie del tutto diverse.
In particolare quello di “prestito personale e Carta di Credito” stipulato con [ l’Istituto di credito]  non contiene la benché minima indicazione della causa della richiesta del prestito, nel senso che il cliente avrebbe potuto utilizzare l’importo ricevuto per qualsiasi finalità. […] 
Peraltro, quand’anche controparte dimostrasse di aver utilizzato le somme effettivamente per il saldo della [Società torinese], nulla cambierebbe atteso che i negozi giuridici sono del tutto distinti ed autonomi e l’ipotetico vizio di uno non inficia l’efficacia del’altro”.
A conclusione del processo il Giudice ha così motivato il provvedimento di accoglimento del ricorso dei Clienti:
Ferma la totale genericità del contratto nell’individuazione dei beni immobili oggetto del diritto di godimento derivante dal certificato di associazione e la conseguente radicale nullità dello stesso ex artt. 70-71 del Codice del Consumo, dalle missive prodotte dai ricorrenti e dall’atto di denuncia-querela presentato in data 15.12.2010 alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Monza emerge che la [Società torinese] si è resa totalmente inadempiente agli obblighi contrattuali assunti con il contratto di compravendita, pacificamente riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 69 D. lgs. N. 205/2006 (c.d. multiproprietà).
Le domande di nullità e risoluzione prospettate dai ricorrenti sono pertanto senz’altro supportate dal fumus boni iuris, emergendo, per tabulas, che la [Società torinese] dopo aver incamerato il corrispettivo, si è resa irreperibile, abbandonando la propria sede legale, senza  comunicare in Camera di Commercio la nuova sede e ha totalmente omesso di riscontrare le richieste di adempimento dei [Clienti].
Totalmente infondate appaiono le contestazioni sollevate dalla Banca in merito all’autonomia dei due rapporti contrattuali (vendita-finanziamento).
Dalla documentazione contrattuale in atti emerge chiaramente che il prestito dalla stessa concesso ai ricorrenti era finalizzato all’acquisto da parte degli stessi del prodotto “turistico” della [Società torinese].
Il collegamento funzionale tra i due rapporti è espressamente indicato sia nelle condizioni generali del contratto di compravendita, nelle quali si prevede la facoltà della [Società torinese] di concedere al compratore (consumatore) di pagare il prezzo tramite società finanziaria dalla medesima indicata (art. 3), che nel modulo di richiesta di prestito, riportante quale causale finanziamento “VIAGGI”.
E’ quindi evidente che il prestito per cui è causa è stato erogato dalla Banca in forza di un accordo esistente tra la stessa e la parte venditrice [Società torinese], ipotesi per la quale il Codice del Consumo, con riferimento al prodotto qui esaminato, contempla una specifica ipotesi di collegamento contrattuale (vs. art. 77 D. lgs. 205/2006).
Quanto all’incidenza dell’inadempimento del contratto principale sulle sorti del collegato contratto di finanziamento, la fattispecie risulta attualmente disciplinata dall’art. 125 – quinquies del T.U.B., introdotto dal D. lgs. N. 141/2010 in attuazione della Direttiva CE 2008/48, a mente del quale “nei contratti di credito collegati, in caso di inadempimento da parte del fornitore dei beni o dei servizi, il consumatore, dopo aver inutilmente effettuato la costituzione in mora del fornitore, ha diritto alla risoluzione del contratto di credito, se con  riferimento al contratto di fornitura di beni o servizi ricorrono le condizioni di cui all’art. 1455 c.c. . La risoluzione del contratto di credito non comporta l’obbligo del consumatore di rimborsare al finanziatore l’importo che sia stato già versato al fornitore dei beni o dei servizi. Il finanziatore ha il diritto di ripetere detto importo nei confronti del fornitore stesso”.
Detta disposizione, costituendo l’attuazione di una direttiva comunitaria già vigente all’epoca della conclusionale del contratto per cui è causa, deve ritenersi applicabile anche all’odierna controversia.
Ciò non tanto in ragione della sua diretta efficacia retroattiva, quanto piuttosto in forza del principio generale per cui il giudice interno è tenuto ad interpretare la normativa in senso conforme al diritto comunitario, disapplicandola in caso di riscontrata difformità e riconoscendo allo stesso prevalenza.
Va al riguardo rilevato che la pregressa previsione normativa (art. 42 del codice del Consumo), abrogata dal d. lgs. 141/2010, sanciva la responsabilità sussidiaria del finanziatore in caso d’inadempimento del fornitore, solo in presenza di un accordo di esclusiva, lasciando così ampi margini per l’elusione delle sue finalità di tutela.
La nuova direttiva comunitaria già dal 2008 aveva rivisto il relativo regime, generalizzando la corresponsabilità del finanziatore in tutti i casi di credito al consumo collegati a contratti di fornitura in base agli accordi assunti tra finanziatore e fornitore, sicché a sopravvenuta normativa interna non ha fatto che dare attuazione a detto principio.
Va in ogni caso rilevato che anche a voler escludere che tale novellata disciplina trovi applicazione nel caso di specie, in difetto di specifiche allegazioni di segno contrario, deve presumersi che la Banca, essendo stata indicata dalla stessa [Società torinese], avesse in corso con la stessa accordi in esclusiva per la concessione di credito relativa ai prodotti dalla stessa commercializzati.
In accoglimento del ricorso, il tribunale ritiene pertanto di autorizzare i ricorrenti a sospendere con effetto immediato il pagamento dei ratei di rimborso del prestito ancora in scadenza”.
Naturalmente, l’Istituto di Credito non ha accolto di buon grado  tale decisione e, così, ha proposto reclamo ai sensi di legge contestando la sussistenza del collegamento funzionale accertato dal primo Giudice, reclamo che il Tribunale in composizione collegiale – onestamente davvero contro ogni nostra previsione – ha accolto.
Molti lettori si potranno chiedere che senso può avere scrivere di un caso che, almeno fino a questo momento, non ha avuto un epilogo favorevole per i Ns. Clienti.
Orbene, la ragione è molto semplice e si spiega con la necessità, che è sempre stata il principio ispiratore di questo studio legale e alimenta la passione di chi pratica questo mestiere, di raccontare sempre la nostra verità dei fatti, continuando a combattere per difenderla, anche quando le “circostanze”cercano di piegarci.
Perché anche chi non si occupa di diritto, e vive le aule di Tribunale solo attraverso i mass media, conosca anche questi scorci di vita comune.
Proprio  in virtù di tale rivendicata trasparenza si ritiene, quindi, doveroso, riportare le motivazioni che il Tribunale ha addotto per concludere che i consumatori, pur avendo ragione circa l’effettiva nullità e/o risoluzione del contratto con la Società di Viaggi, dovranno continuare  a pagare “a vuoto” la Banca.
Si legge, in proposito, nel provvedimento di cui si tratta: “[…] premettendosi ulteriormente che nessuna contestazione è mai sorta fra le parti in relazione all’effettiva fondatezza degli assunti (nullità e/o risoluzione) avanzati dagli odierni reclamati nei riguardi del contratto c.d. principale, ossia quello stipulato con (OMISSIS la Società di Viaggi) ciò che non convince è , a ben vedere, l’effettiva sussistenza del collegamento funzionale tra tale ultimo contratto e quello stipulato dai consumatori con l’istituto di credito reclamante […] . In sostanza se, da un lato, può legittimamente sostenersi che il legislatore abbia legittimamente considerato il ricorso al credito da parte del consumatore per l’acquisto di beni un’ipotesi tipica di collegamento negoziale, attribuendo alla parte debole tutelata un effetto non solo caducatorio, ma anche recuperatorio immediato e diretto nei confronti del terzo, dall’altro non può del pari non rilevarsi che, ai fini dell’effettiva sussistenza del collegamento fra i due contratti, non è certamente sufficiente, come ritenuto dal primo giudicante, la semplice facoltà della controparte espressamente prevista in contratto di scegliere la società finanziaria ovvero l’indicazione, nella causale del finanziamento, di una generica – quanto indefinita – parola “viaggi”. Indici rivelatori a tal fine avrebbero semmai essere individuati, a mero titolo esemplificativo, nella contestuale stipulazione, espressamente indicata nel contratto, del relativo finanziamento, all’uopo utilizzando moduli già in possesso del venditore, ovvero nell’espressa – ma la contempo precisa – indicazione nella proposta di finanziamento, del contratto di acquisto sopra indicato (“contratto di compravendita  del certificato di associazione rilasciato dall’Entità Fiduciaria New Club Elite Limited”) o, quantomeno di una terminologia più specificatamente idoena ad individuare il contratto in oggetto. […] In definitiva, la semplice indicazione del termine “viaggi” nella causale di finanziamento oltremodo generica, non consente certamente di associare, con ragionevole certezza, la concessione del finanziamento da parte di (OMISSIS Istituto di credito) al contratto concluso con (OMISSIS Società di Viaggi) piuttosto che ad un qualsiasi altro contratto stipulato con terzi, di modo che tra i due non può ritenersi sussistente alcun serio collegamento negoziale con l’ulteriore conseguenza che gli eventuali vizi presenti nel secondo non possono automaticamente estendersi al primo. Pertanto l’ordinanza del primo giudicante deve essere integralmente revocata.
È, tuttavia, doveroso precisare, per amor di completezza, che la causale di finanziamento sopra richiamata è stata inserita proprio dalla Società torinese, o, forse, chi lo sa, dalla Banca, ma, certamente, non dai Sig.ri B. e, ancora, che, in ogni caso, questa difesa aveva dedotto ben più di quanto l’Ecc.mo Collegio riferisce ed, anzi, proprio ciò che quest’ultimo suggerisce quali “indici rivelatori” di un collegamento fra il contratto della Società torinese ed il contratto di mutuo concesso dalla Banca, e cioè:
 la contestualità del contratto di compravendita e di mutuo;
 il fatto che i dati indicati alla voce “definizione di pagamento” della bolletta di consegna della Società di viaggi, indicavano i dettagli del finanziamento, e, così, l’importo erogato di € 11.500,00, nonché il numero di 84 ratei di mutuo;
 che tali dati corrispondevano esattamente a quelli della richiesta di finanziamento inoltrato all’Istituto di credito;
 che, contestualmente, alla ricezione della somma finanziata (10.08.2009) veniva saldato l’importo di € 11.500,00 in favore della Società di viaggi (12.08.2009), come si evince dall’estratto conto prodotto agli atti del Tribunale;
 che nella richiesta di mutuo diretta alla Banca e di cui sono in possesso i consumatori mancava qualsivoglia timbro e/o firma dell’Istituto di credito, che attestasse un rapporto diretto fra gli odierni reclamati e la banca;
 e, non da ultimo, che la modalità di pagamento concessa dalla Società di Viaggi ai Consumatori è stata effettivamente quella di un finanziamento (Cfr. Contratto di puntuazione del 25.07.2009), che non può che essere stato erogato da un Ente indicato dalla Società di Viaggi, in considerazione del fatto che, in base ad una precisa clausola contrattuale, e cioè la n. 3 per cui la Società di Viaggi “si riserva la facoltà di consentire il pagamento del prezzo a mezzo di società finanziaria da Lei indicata, con relativi oneri a carico dell’Acquirente”, questa era la condizione cui era subordinata l’accettazione di tale forma di pagamento.
Dati che trovavano la propria fonte nei documenti agli atti, ma che il Tribunale adito – a nostro modesto avviso- avrebbe potuto anche verificare, ad esempio, sentendo a sommarie informazioni quei testimoni che, pur indicati, non solo non sono stati sentiti, ma neppure presi in considerazione.
Sig.ri B., fermamente convinti delle proprie ragioni, non intendono fermarsi qui.
Perciò, nonostante il codice di procedura non preveda la possibilità di impugnare il citato provvedimento emesso a conclusione del reclamo, hanno deciso di non voler subire in silenzio e,  pertanto, attualmente, si stanno valutando tutte le possibilità percorribili per ottenere tutela.
Sarà Nostra cura, pertanto, tenerVi aggiornati sul prosieguo di questa vicenda, che, si badi bene, non vuole essere né diventare lo spunto per sterili polemiche, ma, diversamente, è la testimonianza di due consumatori che pretendono tutela.

Il danno non patrimoniale causato dalla morte di un animale da affezione non è risarcibile in quanto non configura la lesione di un bene costituzionalmente rilevante, ovvero di un diritto inviolabile delle persona.

By Pronunce
Con sentenza n. 9453 del 20 luglio 2010 il Tribunale di Milano, Sez. V – Est. Dottor Damiano Spera –  ha deciso che la richiesta attorea di risarcimento del danno non patrimoniale subito in occasione del decesso del cane in proprietà della stessa non poteva essere accolta in quanto il danno in esame non rappresenta una lesione di un diritto costituzionalmente protetto.
Nella fattispecie in esame l’attrice conveniva in giudizio il dottor M.M. e il dottor A.B. per sentirli condannare al risarcimento, in via solidale tra loro, di tutti i danni, biologico, morale esistenziale e patrimoniale, da liquidarsi in via equitativa, patiti in occasione del decesso del cane di sua  proprietà, avvenuto in data 11.03.2003.
In particolare l’attrice asseriva che, a causa del  comportamento illecito dei sanitari convenuti, aveva  subito oltre a danni patrimoniali, anche danni morali, “in ragione del coinvolgimento in termini affettivi che la relazione tra uomo e animale domestico comporta e del risultato di completamento e arricchimento della personalità dell’uomo, nonché in ragione dei sentimenti di privazione e di sofferenza psichica indotti dalla morte di “Maya”’…”, danni tutti da liquidarsi in via equitativa.
Il Giudice adito dichiarava la responsabilità dei sanitari convenuti nella produzione dell’evento lesivo occorso in data 11.03.2003, non avendo gli stessi fornito la prova di aver regolarmente adempiuto alla propria obbligazione, nonché la prova che il decesso del cane era da attribuire ad altre cause, tuttavia rigettava le domande di risarcimento danni proposte dall’attrice.
Quanto alla richiesta di risarcimento dei danni patrimoniali, la stessa non veniva accolta perché l’attrice non forniva la prova del danno patrimoniale richiesto: l’attrice, pur producendo la parcella sanitaria esposta, non aveva mai richiesto la risoluzione del contratto e la consequenziale ripetizione della somma pagata.
Anche  la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale non veniva accolta.
A tale riguardo l’estensore richiamava due precedenti, ovvero le sentenze della Cassazione n. 2697/2008 e n. 14846/2007.
Precisamente l’estensore rilevava, in primo luogo, che la Cassazione a Sez. unite (sentenza n. 26972/2008) aveva giustamente ritenuto che, nell’ambito del danno non patrimoniale, il riferimento a determinati tipi di pregiudizi, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno.
È compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione.
Inoltre nella citata sentenza la Cassazione a Sezioni Unite, nell’affermare la bipolarità del sistema risarcitorio (danno patrimoniale e non patrimoniale) ha statuito che “il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, postulando l’ingiustizia del danno di cui all’art. 2043 c.c. la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante, mentre quello del danno non patrimoniale è connotato da tipicità”, e per l’effetto tale danno è risarcibile, in tutte le ipotesi di reato ex art. 185 c.p., negli altri casi espressamente individuati dal legislatore, nonché “…nei casi in cui sia cagionato da un evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona.
In particolare, con riferimento al danno non patrimoniale da morte di un animale di affezione la Corte ha escluso che in tal caso si configuri la lesione di un diritto inviolabile della persona, non ammettendone pertanto il risarcimento.
Così anche la Cassazione, Sez. III, con sentenza n. 14846/2007, richiamata dalle Sezioni Unite, ha statuito che ” la perdita del cavallo… come animale d’affezione, non sembra riconducibile sotto una fattispecie di un danno esistenziale consequenziale alla lesione di un interesse della persona umana alla conservazione di una sfera di integrità affettiva costituzionalmente protetta…“.
Alla luce quindi di tali osservazioni l’estensore rigettava la domanda attorea.
La Sentenza del Tribunale di Milano appare assolutamente condivisibile.
Alla luce dei dettami delle cosiddette “Sentenze di San Martino” (Cassazione – Sez. Unite, 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974, 26975)  e degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali formatisi successivamente alle ridette pronunce per poter configurare un danno non patrimoniale è necessaria la lesione di un bene costituzionalmente rilevante, ed è necessario che tale lesione sia grave (e cioè superi la soglia minima di tollerabilità) e che il danno non sia futile.
Nell’elenco, non esaustivo, dei danni non patrimoniali non risarcibili che le Sezioni Unite hanno stilato rientra anche l’ipotesi della morte dell’animale di affezione.
Il rapporto uomo–animale non può, infatti, annoverarsi tra le attività realizzatrici della persona ex art. 2 della Costituzione in quanto nessuna norma della Costituzione annovera, quale diritto fondamentale ed inviolabile dell’individuo, il diritto alla conservazione del proprio rapporto con l’animale domestico.
In effetti, anche se la legge sotto diversi aspetti tutela gli animali (punendo ad esempio il maltrattamento degli stessi), al momento attuale non esistono argomentazioni valide e convincenti in ordine alla copertura costituzionale del danno non patrimoniale da perdita dell’animale di affezione.
Tutti i precedenti in termini sono nello stesso senso della pronuncia del Tribunale in esame e, anche, il Tribunale di Roma si è pronunciato con sentenza sostanzialmente identica a quella del Tribunale di Milano (cfr. Trib. Roma 19.04.2010)
Da ultimo si segnala la sentenza del Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi 12.01.2011 -Giudice Levita- che ha deciso la vicenda legata alla morte di un cane volpino che il 30 agosto 2007 era stato azzannato da due cani maremmani lasciati incustoditi dalla proprietaria.
Il proprietario del povero volpino citava in giudizio la proprietaria dei due maremmani chiedendo il ristoro dei danni patrimoniali e morali subiti per la perdita del proprio animale.
Il Giudice ha negato il risarcimento sostenendo che i danni lamentati sono da considerarsi inesistenti.
Quanto al risarcimento dei danni patrimoniali ha evidenziato che non è stata indicata in alcun modo la concreta misura del pregiudizio economico realmente subito, ma sono state usate affermazioni di stile svuotate di effettivo contenuto (es. “gran danno economico patrimoniale”).
Nel nostro sistema il danno patrimoniale – dice il Giudice – non riveste natura punitiva ma va puntualmente provato. La parte avrebbe dovuto in altri termini offrire documentazione a riprova del lamentato pregiudizio.
Quanto agli asseriti danni morali, sulla scorta della giurisprudenza dominante, il Giudice ha ritenuto non sussistere una ingiustizia costituzionalmente qualificata tanto che la perdita da animale d’affezione è stata proprio indicata in maniera esemplificativa, dalle Sezioni Unite, quale risibile prospettazione di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone, unitamente ad altre ipotesi pure ivi elencate (la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l’errato taglio di capelli, l’attesa stressante  in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l’invio di contravvenzioni illegittime, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal black-out elettrico).

Responsabilità del sanitario nel caso di concorso tra una causa umana e una causa naturale nella determinazione dell’evento lesivo.

By Pronunce

Ripartizione e graduazione della responsabilità del personale sanitario nella logica dell’apportionment of liability. La sentenza del Tribunale di Terni del 2 luglio 2010.

La vicenda presa in esame dal Tribunale di Terni trae origine dal caso di una paziente che, a seguito di sincope post minzionale, veniva ricoverata presso la divisione di cardiologia dell’Ospedale di Terni e sottoposta a terapia antiaggregante e a diversi esami strumentali tra cui il c.d. SATE. Durante e dopo la sottoposizione a questo esame la stessa paziente era andata più volte in fibrillazione atriale e dopo poche ore veniva colta da ictus cerebrale cardioembolico.

La paziente citava in giudizio l’Azienda Ospedaliera di Terni affermando che l’evento lesivo si era verificato in conseguenza della mancata sottoposizione ad una corretta terapia coagulante e antiaggregante. Il Giudice adito disponeva CTU sulla persona dell’attrice, all’esito della quale veniva rilevato che la percentuale di rischio trombo-embolico riferibile alla paziente era da comprendersi tra il 3 e il 5 % e che la terapia anticoagulante, ove praticata, avrebbe ridotto la probabilità di cardioembolismo post-cardiovesione all’1%. Alla luce delle risultanze della CTU il Tribunale, pur non escludendo che l’attacco ischemico si sarebbe potuto verificare anche in presenza della condotta commissiva dovuta, riteneva l’azienda ospedaliera responsabile nei limiti dell’incremento del rischio imputabile e di conseguenza la condannava a risarcire l’80% del danno subito dall’attrice.

La decisione del Tribunale di Terni offre lo spunto per alcune riflessioni in merito alla tematica relativa al danno da perdita di chance nell’ambito dei giudizi di responsabilità medica (medical malpractice)
La pronuncia in esame, che affronta un non semplice caso di aumento colposo del rischio di complicanza, da un lato ha il pregio di fornire un breve, ma esaustivo, riepilogo dei maggiori orientamenti giurisprudenziali formatisi in tema di responsabilità da malpractice medica, ricordando, anzitutto, come la relazione che si instaura tra medico e paziente dia luogo ad un rapporto di tipo contrattuale, con conseguente obbligo da parte del primo di svolgere l’attività necessaria e utile in relazione al caso concreto e in vista del risultato che, attraverso il mezzo tecnico e professionale, il malato spera di conseguire, dall’altro, tuttavia, si discosta nettamente dall’orientamento giurisprudenziale e dottrinale precedente sotto il profilo  della ripartizione del danno in base al diverso apporto causale che ogni concausa può aver ricoperto nella causazione dell’evento dannoso.
Ed invero la pronuncia sposa i principi generali elaborati in materia di ripartizione dell’onere probatorio e si sofferma sull’accertamento del nesso eziologico, analizzando i vari orientamenti emersi in materia in sede penale e in sede civile.
L’estensore puntualizza come i rigorosi criteri elaborati dalla giurisprudenza penale vengano attenuati in sede di imputazione della responsabilità civile, aderendo alla costruzione per cui nei due giudizi, penale e civile, sarebbe in vigore una diversa regola probatoria, nel senso che mentre nel primo occorre la prova oltre il ragionevole dubbio, nel secondo è sufficiente la preponderanza dell’evidenza o del più probabile che non.
Il Tribunale passati in rassegna i suddetti orientamenti dichiara espressamente di aderire a quello sviluppato recentemente dalle corti civili in materia di prova di esistenza del nesso eziologico
Una volta inquadrati ed esaminati detti principi giuridici, l’organo giudicante si sofferma sulle risultanze della CTU, che ha individuato un concorso di cause alla base del verificarsi dell’evento lesivo.
Tali cause sono rappresentate, da un lato, dalla negligenza del personale sanitario che non ha somministrato alla paziente l’adeguata terapia farmacologica e, dall’altro, dalle precarie condizioni di salute della paziente al momento del ricovero.
Il Tribunale, una volta accertata la presenza di due diverse cause del sinistro in concorso tra loro, attua una graduazione di responsabilità in funzione del rischio circa la produzione del sinistro che può essere attribuita a ciascun antecedente causale, così da circoscrivere il risarcimento in proporzione all’incidenza statistica della condotta del danneggiante.
La decisione elabora un’imputazione articolata della responsabilità. Dopo aver accertato senza margini di dubbio che la causa dell’evento andava individuata in una cardioembolia e dopo aver stabilito con analoga certezza che il controfatto colpevolmente omesso avrebbe ridotto le probabilità di incorrere in complicanze dal 5% all’1%, con un conseguente incremento del rischio cardioembolico pari all’80%, la sentenza indica che non potendosi escludere che la complicanza intervenuta, e dunque il fenomeno ischemico, si sarebbe verificata anche in presenza della condotta commissiva dovuta consistente nella somministrazione di anticoagulante, l’azienda ospedaliera convenuta deve essere ritenuta responsabile esclusivamente nei limiti dell’incremento del rischio imputabile alla negligente condotta omissiva e dunque condannata a risarcire l’80% del valore complessivo del danno.

Sotto quest’ultimo profilo il Tribunale si pone in netto contrasto con l’orientamento giurisprudenziale e dottrinale prevalente in materia di concorso tra cause naturali e cause umane, orientamento in virtù del quale la concausa naturale rileva solo se  idonea ad interrompere il nesso causale tra la condotta umana e l’evento. Secondo il disposto del Tribunale, invece, nell’ambito della responsabilità medica, quando non si può escludere che il danno si sarebbe verificato anche in presenza della condotta commissiva dovuta, l’azienda ospedaliera deve essere ritenuta responsabile esclusivamente nei limiti dell’incremento del rischio.

Così facendo si accoglie una prospettiva diversa da quella del risarcimento da perdita di chance focalizzata solo sulla possibilità di conseguire un risultato positivo così da sfuggire alla logica del “ all or nothing” ( tutto o niente).

La sentenza può essere condivisibile o meno, ma di fatto la logica di apportionment of liability adottata dall’estensore consente di contemperare efficacemente l’interesse del danneggiato ad ottenere un parziale risarcimento anche in ipotesi di causalità incerta e dall’altro l’esigenza del medico di non vedersi costretto a risarcire anche conseguenze dannose riconducibili a fattori causali a lui stesso non direttamente imputabili.

La decisione in esame può esser discussa nella sua impostazione ma è, se non altro, coerente, perché propone la soluzione a monte della liquidazione, non ritenendo evidentemente corretto, seguendo il percorso evidenziato, addossare al debitore della prestazione il danno integrale.

Se un’anziana signora viene aggredita per strada da un cane randagio chi risponde dei danni subiti dalla vittima?

By Pronunce
Il problema della responsabilità dei danni cagionati da animali randagi coinvolge principalmente due aspetti: il primo profilo concerne l’individuazione del soggetto tenuto ex lege a prevenire il fenomeno del randagismo e quindi l’individuazione del soggetto legittimato passivo in sede di risarcimento dei danni, mentre il secondo profilo concerne l’applicazione alla fattispecie del regime di cui all’art. 2043 del c.c. oppure del regime della responsabilità oggettiva di cui all’art. 2052 c.c.
Il proprietario della fauna selvatica, tradizionalmente considerata res nullius, è la Pubblica Amministrazione. Con l’entrata in vigore della Legge  quadro sulla caccia, infatti, gli animali selvatici sono stati considerati beni facenti parte del patrimonio indisponibile dello Stato. Quest’ultimo, in qualità di proprietario, è quindi chiamato a rispondere dei danni cagionati dagli animali selvatici e randagi.
Si è allora aperto un complesso dibattito in ordine alla necessità di  indagare i profili concernenti i rapporti tra A.s.l. e Comune, al fine di identificare il soggetto tenuto a risarcire i danni cagionati da un animale randagio.
L’orientamento maggioritario ritiene che il debole legame che ancora oggi sussiste tra A.s.l. e Comune non possa fondare la legittimazione passiva del Comune. Le funzioni organizzative espletate dal Sindaco non consentirebbero di ritenere il Comune solidalmente responsabile con l’A.s.l.: solo quest’ultima può essere chiamata a rispondere dei danni causati da un animale randagio, a fronte della mancata adozione di azioni finalizzate alla prevenzione del randagismo.
Quanto alla natura della responsabilità della P.A. sussistono diversi orientamenti.
Il primo orientamento inquadra la responsabilità dell’ente alla stregua dei principi generali della responsabilità aquiliana: i danni causati da animale randagio ricadono sulla P.A. secondo il generale regime di responsabilità ex art. 2043 c.c. Del tutto scorretto sarebbe, dunque, il richiamo all’art. 2052 c.c., poiché mancherebbe, nel caso di specie, la disponibilità giuridica e di fatto collegata al potere di controllo.
Un secondo orientamento ritiene, invece, che il vero fondamento dell’art. 2052 c.c. andrebbe individuato nella creazione di un rischio collegato alla percezione di un’utilità, rappresentata, nel caso della fauna selvatica, dalla protezione della fauna stessa. La P.A. appare, dunque, l’unico soggetto capace di incidere effettivamente sul verificarsi del rischio di danno adottando misure preventive volte alla minimizzazione dei costi sociali.
Attualmente l’operatività del regime di responsabilità oggettiva pare la soluzione maggiormente condivisibile.
Con la recente sentenza n. 10190, 8 aprile 2010 (che di seguito viene sinteticamente riportata) la Suprema Corte di Cassazione Civile, Sez. III, in merito alla questione della risarcibilità dei danni prodotti da animali randagi, ha aderito all’orientamento minoritario, affermando la responsabilità del Comune per i danni subiti da una donna morsa da un cane randagio.
Il Comune non ha provveduto alla “vigilanza del territorio, alla custodia ed al mantenimento dei cani randagi”: a parere della Corte  tale condotta omissiva integra il necessario antecedente causale dell’evento dannoso.
Quanto alla natura della responsabilità della P.A. la Corte non affronta il tema, rinviando la Causa alla Corte d’Appello affinché venga decisa nel merito.
Con sentenza n.  10190,  Cassazione Civile, Sez. III , 8 aprile 2010 –  è stato statuito che “Va cassata la pronuncia di merito con cui è stata negata la responsabilità del Comune per i danni subiti da una persona anziana a seguito dell’aggressione di un cane randagio lungo una via comunale, violando le norme che impongono ai comuni di assumere provvedimenti per evitare che gli animali randagi arrechino disturbo alle persone e ritenendo erroneamente che la tarda età della vittima e la piccola taglia del cane valessero a porre a carico della danneggiata l’intera responsabilità dell’incidente … A norma della legge-quadro 14 agosto 1991 n. 281, e delle singole leggi regionali di recepimento, sui comuni grava l’obbligo di assumere i provvedimenti necessari affinché gli animali randagi non arrechino disturbo alle persone nelle vie cittadine; pertanto, una volta accertata l’indebita presenza di un cane randagio lungo una strada comunale, il Comune risponde dei danni che tale animale abbia cagionato, con il proprio comportamento aggressivo, nei confronti di un passante, indipendentemente dal fatto che la vittima, in ragione della propria età avanzata, abbia tenuto un comportamento caratterizzato da particolare debolezza e sensibilità
Per la cronaca, nel caso in esame, un’anziana Signora aveva subito un’aggressione da parte di un cane randagio lungo una via comunale.
In primo grado il Giudice di Santa Maria Capua Vetere  aveva condannato il Comune convenuto al risarcimento dei danni subiti dalla donna, che, in seguito alla caduta dovuta all’aggressione dell’animale si era fratturata un ginocchio.
Tuttavia la pronuncia del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere  era stata completamente riformata dalla Corte di Appello di Napoli, secondo la quale al Comune non era imputabile alcuna responsabilità per non avere adottato misure idonee a prevenire la lotta contro il randagismo.
La rottura del femore, secondo l’organo di secondo grado, sarebbe stata causata dal timore della donna di essere aggredita e non dall’aggressione canina.
Secondo la Cassazione la Corte di Appello, escludendo la responsabilità del Comune, è incorsa nella violazione delle norme di legge sul randagismo, che impongono ai Comuni di assumere provvedimenti per evitare che gli animali randagi arrechino disturbo alle persone, nelle vie cittadine; tale violazione, inoltre, risulta aggravata dalla circostanza che vi erano state diverse segnalazioni della presenza dell’animale randagio, da parte della cittadinanza.
La Corte ha poi negato la responsabilità del Comune con motivazione intrinsecamente illogica ed antigiuridica, nella parte in cui ha ritenuto che la tarda età della vittima e la piccola taglia del cane valessero a porre a carico della danneggiata l’intera responsabilità dell’incidente.
Sussistendo l’illecito, cioè l’indebita presenza sulla strada del cane randagio, la peculiare debolezza e sensibilità della vittima che – in base alla ricostruzione dei fatti che si legge nella sentenza impugnata – si è spaventata ed è caduta, per il timore di essere morsa dall’animale che le abbaiava contro, manifestando intenzioni aggressive, non rende il danno meno grave ed ingiusto.
Anche le persone anziane debbono poter circolare sul territorio pubblico, senza essere esposte a situazioni di pericolo, ed in particolare a quelle che l’ente pubblico è espressamente obbligato a prevenire, quali il randagismo.
Né l’eventuale debolezza o lo scarso controllo dei propri movimenti da parte della vittima valgono di per sé ad escludere il nesso causale fra l’illecito e il danno, salvo che si dimostri che tali condizioni fossero di tale gravità da potersi considerare sufficienti da sole a produrre l’evento (artt. 40 e 41 cod. pen., su cui cfr. Cass. civ., Sez. 3^, 10 ottobre 2008 n. 25028 e 4 gennaio 2010 n. 4, fra le altre).

Danno tanatologico. Va ricondotta nella dimensione del danno morale la sofferenza patita dalla vittima che sia rimasta lucida in consapevole attesa della propria fine. Il relativo diritto al risarcimento è trasmissibile agli eredi iure sucessionis.

By Pronunce
Tradizionalmente, per i giudici italiani, la perdita del bene primario (per ogni individuo) della vita, in quanto strettamente connessa alla vittima, non è meritevole di essere risarcito quando il suo titolare muore. L’evento mortale non è suscettibile di risarcimento “per mancanza del soggetto che dell’utilità sostitutiva del bene perduto possa giovarsi” (Cass. 25 Febbraio 1997, n.1704).
In Lettere a Meteco di Epicuro si legge: “…quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte non ci siamo più noi. La morte quindi è nulla, per i vivi come per i morti: perché per i vivi essa non c’è ancora, mentre per quanto riguarda i morti, sono essi stessi a non esserci
Ciò ha portato all’assurdo paradosso che il danneggiante che uccide viene “graziato” mentre paga se ferisce!!!
Si è allora aperto un complesso dibattito in ordine alla pretesa risarcitoria che potrebbe essere avanzata dagli eredi della vittima per il pregiudizio subito dal loro congiunto nella fase compresa fra l’evento e la morte. Più precisamente quella fase di agonia in cui il malcapitato attende la propria fine.
Infatti, l’orientamento tradizionale ha sempre fermamente negato ipotesi di risarcimento di sorta in caso di morte immediata. Esempio in Cassazione 30.10.1998 n.10896 “…in caso di morte immediata gli eredi non acquistano alcun diritto al risarcimento del danno (alla vita) sofferto dal proprio dante causa: perché la morte determina l’assoluta incapacità, da parte del defunto, a disporre di ogni diritto”.
Invece ha lasciato aperto uno spiraglio al dibattito nelle ipotesi in cui intercorra un congruo o apprezzabile lasso di tempo fra l’evento dannoso e il decesso tanto da far maturare un danno che poi cada in successione. Se, in altri termini, sopravvive all’evento dannoso, il danneggiato in quanto soggetto ancora fornito di capacità giuridica ha diritto al ristoro del danno e per logica implicazione lo stesso danno può trasferirsi poi, dopo la morte, per via derivata agli eredi.
La recente sentenza (che di seguito viene sinteticamente riportata) lungi dal riconoscere il danno da perdita della vita in sé, riconduce il c.d. danno tanatologico o da morte immediata alla dimensione del danno morale “sofferenza della vittima che lucidamente assiste allo spegnersi della propria vita”.
Infatti, con sentenza n. 8360, Cassazione Civile, Sez. III, 8 aprile 2010 –  ha deciso che “…in ordine al  c.d. danno tanatologico, si deve tenere conto, nel quantificare la somma dovuta in risarcimento dei danni morali, anche della sofferenza psichica subita dalla vittima di lesioni fisiche alle quali sia seguito dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l’agonia, in consapevole attesa della fine”…”Il giudice deve cioè personalizzare la liquidazione dell’unica somma dovuta in risarcimento dei danni morali, tenendo conto anche del c.d. tanatologico, ove i danneggiati ne facciano specifica e motivata richiesta e le circostanze del caso concreto ne giustifichino la rilevanza.
Nella specie la Corte di Appello, in contrasto con i suddetti principi, ha del tutto negato ai ricorrenti il risarcimento, a titolo ereditario, dei danni morali subiti dalla vittima, a causa delle gravi sofferenze che hanno preceduto la morte.
La somma liquidata in risarcimento dei danni morali risulta infatti quantificata con esclusivo riferimento al compenso spettante ai superstiti per i danni morali subiti iure proprio, a causa della perdita del rapporto parentale”.
Per la cronaca, nel caso in esame, è stato liquidato agli eredi un risarcimento di € 90.000,00  per il danno sofferto dalla vittima nell’arco di mezz’ora in cui è rimasta lucida durante l’agonia in attesa della fine.
In conclusione, l’avverbio “anche” non accompagnato da nessuna valutazione in ordine ad altre poste di danno e l’entità del risarcimento farebbero pensare più che ad un danno da morte ad un danno da agonia.
Nel senso della risarcibilità del danno tanatologico (tesi prevalente), si veda Cassazione Civile 13672/2010 (<<la brevità del periodo di sopravvivenza alle lesioni, se esclude l’apprezzabilità ai fini risarcitori del deterioramento della qualità della vita in ragione del pregiudizio della salute, ostando alla configurabilità di un danno biologico risarcibile, non esclude viceversa che la vittima abbia potuto percepire le conseguenze catastrofiche delle lesioni subite e patire sofferenza, il diritto al cui risarcimento, sotto il profilo del danno morale, risulta pertanto già entrato a far parte del suo patrimonio al momento della morte, e può essere conseguentemente fatto valere “iure hereditatis”>>) e Cassazione Civile, SS.UU., 2672/2008.
Sull’argomento, da ultimo, si registra la pronuncia n. 1072 del 18.01.2011 della  Cassazione Civile sezione lavoro, secondo la quale: “In caso di lesione che abbia portato a breve distanza di tempo ad esito letale, sussiste in capo alla vittima che abbia percepito lucidamente l’approssimarsi della morte, un danno biologico di natura psichica, la cui entità non dipende dalla durata dell’intervallo tra lesione e morte, bensì dall’intensità della sofferenza provata dalla vittima dell’illecito ed il cui risarcimento può essere reclamato dagli eredi della vittima.
Invero il danno biologico, consistente nel danno non patrimoniale da lesione della salute, costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi alla salute concretamente patiti dal soggetto, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici. Ne consegue che è inammissibile, perché costituisce una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione al soggetto del risarcimento sia per il danno biologico,  inteso per come detto quale danno alla salute, che per il danno  morale, inteso, quale intensa sofferenza psichica”.
Come si può notare facilmente, quello che abbiamo definito danno “da agonia”, in quest’ultima pronuncia, viene fatto rientrare nella categoria del “danno biologico di natura psichica”, diversamente dalle altre sentenze in commento laddove lo si definisce un “danno morale”.
Al di la dell’inquadramento nell’una o nell’altra categoria di danno non patrimoniale, i Supremi Giudici, in ogni caso, tendono sempre a precisare che bisogna non cadere nell’errore di duplicare il risarcimento “attraverso l’attribuzione di nomi diversi e pregiudizi identici”.
Che lo si chiami danno biologico (inteso come danno  alla salute) o danno morale (inteso come sofferenza interiore), questo danno costituisce un’unica posta di risarcimento che può essere trasmesso agli eredi della vittima.

Incidente stradale causato dalla fauna selvatica: fenomeno in continuo aumento.

By Pronunce
L’art. 2052 del Codice Civile così recita: “Il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni cagionati dall’animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito salvo che provi il caso fortuito”.
Per il Supremo Collegio questo articolo che prevede una presunzione di responsabilità non si applicherebbe al caso del cinghiale finito contro un’automobile. Vediamo perché…
Per consolidata giurisprudenza: “il danno cagionato dalla fauna selvatica, che ai sensi della L.27 dicembre 1977, n. 968, appartiene alla categoria dei beni patrimoniali indisponibili dello Stato, non è risarcibile in base alla presunzione stabilita nell’art. 2052 c.c. (05/24895), inapplicabile con riguardo alla selvaggina, il cui stato di libertà è incompatibile con un qualsiasi obbligo di custodia da parte della P.A., ma solamente alla stregua dei principi generali della responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c., anche in tema di onere della prova, e perciò richiede l’individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all’ente pubblico (06/7080; 03/10008; 00/1638)
Il caso in commento riguarda lo scontro tra un’automobile e un cinghiale avvenuto su una strada provinciale umbra.
L’automobile aveva riportato danni preventivati in € 4.000,00 circa, mentre il cinghiale dopo lo scontro si era dileguato e quindi non era dato sapere i danni dallo stesso riportati.
Il proprietario del veicolo citava in giudizio la Regione Umbria davanti al Giudice di Pace competente.
La scelta di citare la Regione, sebbene il sinistro fosse avvenuto su strada provinciale, veniva giustificata da una generalizzata tendenza della giurisprudenza di merito ad addossare alle regioni la responsabilità per i danni di questo tipo. Ad ogni modo, il giudice accoglieva la domanda del proprietario del veicolo danneggiato. Il Tribunale, in appello, assolveva invece la Regione.
Si finisce così in Cassazione.
Con sent. n 5202 del 04 marzo 2010 la Suprema Corte di Cassazione ha deciso che “in tema di responsabilità extracontrattuale il danno cagionato dalla fauna selvatica ai veicoli in circolazione non è risarcibile in base alla presunzione stabilita dall’art. 2052c.c., inapplicabile alla selvaggina, il cui stato di libertà è incompatibile con un qualsiasi obbligo di custodia da parte della P.A., ma soltanto alla stregua dei principi generali sanciti dall’art. 2043 c.c., e tanto anche in tema di onere della prova con la conseguente necessaria individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all’ente pubblico.
Ciò detto, certo che nella specie il giudice di appello, con un accertamento di fatto insindacabile in questa sede, ha escluso che la attrice L. abbia dato la prova che la Regione ha posto in essere una condotta causativa del danno patito dalla stessa attrice (certo essendo, da un lato, che non era stata fornita alcuna prova dell’eccessivo incremento e ripopolamento di animali selvatici imputabile alla Regione, dall’altro, che la Regione, non essendo l’ente preposto alla gestione della strada sulla quale si è verificato l’incidente non aveva alcun obbligo di apporre segnaletica idonea a indicare una situazione di pericolo per la sicurezza della circolazione; che giusta la stessa prospettazione dell’attrice l’incidente si sarebbe verificato anche in presenza di adeguata segnalazione: certo essendo che il cinghiale aveva attraverso la strada secondo gli stessi assunti dell’attrice repentinamente e inaspettatamente), è palese che correttamente il tribunale ha rigettato la domanda risarcitoria proposta dalla L.

DEMANSIONAMENTO. Prova e Liquidazione del danno non patrimoniale da contratto di lavoro. La sentenza Cassazione Civile n. 4063 del 22 Febbraio 2010 e la sentenza Cassazione Civile n. 12318 del 19 Maggio 2010

By Pronunce
Le due pronunce citate in epigrafe, pur avendo ad oggetto vicende completamente differenti, affrontano alcuni profili comuni in tema di risarcimento del danno da contratto, ovvero il problema della prova del danno e dell’individuazione dei criteri per la sua liquidazione.
In particolare la sentenza del Supremo Organo n. 4063 del 22 Febbraio 2010 ha statuito che: “Accertato il demansionamento professionale del lavoratore, il relativo danno può essere desunto in base ad una valutazione presuntiva con riferimento alle concrete circostanze della operata dequalificazione, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, frustrazione professionale) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo riferimento a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove. Il danno non patrimoniale è configurabile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato in modo grave i diritti oggetto di tutela costituzionale, che dovranno essere individuati caso per caso, distinguendo i meri pregiudizi dai danni risarcibili.
Mentre la sentenza della Corte di Cassazione n. 12318 del 15 Maggio 2010 ha statuito che: “la valutazione equitativa del danno, in quanto inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimatività, è suscettibile di rilievi in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio della motivazione, solo se difetti totalmente la giustificazione che quella statuizione sorregge, o macroscopicamente si discosti dai dati di comune esperienza, o sia radicalmente contraddittoria
Nello stesso senso, peraltro si è espressa anche la sentenza n. 13281  31 maggio 2010, con la quale sempre in tema di mansioni inferiori, è stato stabilito che: “in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo, mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psicofisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale – da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva e interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno – va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità ecc.) – il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico – si possa coerentemente risalire dal fatto noto al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove. Il danno non patrimoniale è configurabile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato in modo grave i diritti oggetto di tutela costituzionale, che dovranno essere individuati caso per caso, distinguendo i meri pregiudizi dai danni risarcibili.”
Per meglio comprendere le statuizioni della Suprema Corte ecco succintamente quanto accaduto nelle fattispecie giunte al vaglio dell’Organo Giudicante.
La vicenda da cui è scaturita la pronuncia  n. 4063 del 22 Febbraio 2010 riguarda un dipendente pubblico del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale che, inquadrato nella sesta qualifica funzionale in qualità di assistente amministrativo, a seguito di ordine di servizio del direttore dell’Ufficio del Lavoro aveva assunto le funzioni vicarie, con poteri di coordinamento e di firma, della direttrice responsabile della sezione circoscrizionale, e per il protrarsi dell’assenza della titolare e aveva retto venendo anche nominato “reggente ad interim”. Al dipendente era stata affidata, inoltre, la responsabilità di collaborare con il consegnatario dell’Ufficio Provinciale nella custodia e manutenzione del patrimonio mobiliare degli uffici; era stato poi successivamente trasferito all’Ufficio Provinciale, dove, però, era stato costretto ad una quasi totale inattività e al disimpegno di compiti mortificanti (addetto alle informazioni generali sulle competenze della Direzione Provinciale, addetto al protocollo della corrispondenza), tanto da essere colpito da vari disturbi di natura psico-somatica che lo avevano indotto, infine, al pensionamento. Il dipendente agiva in giudizio domandando la condanna del Ministero al pagamento delle differenze retributive per lo svolgimento delle mansioni superiori e il risarcimento del danno professionale, biologico ed esistenziale “da mobbing” in conseguenza del successivo demansionamento.
Il Tribunale di Siena, con sentenza del 13 dicembre 2002, accoglieva la domanda e condannava l’Amministrazione al pagamento di Euro 2.265,18 per differenze retributive correlate alle mansioni superiori ed Euro 17.000 per danni conseguenti al demansionamento.
Tuttavia tale decisione veniva parzialmente riformata dalla Corte d’appello di Firenze, che, con sentenza del 1 luglio 2005, depositata il 2 settembre 2005, dichiarava il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in relazione alla domanda di differenze retributive e condannava il Ministero alle sole differenze relative al periodo successivo, nonché al risarcimento del danno patrimoniale, liquidato in Euro 1.000,00, e del danno non patrimoniale, liquidato in Euro 3.000,00, in relazione al demansionamento.
La Suprema Corte di Cassazione investita della questione, come sopra già anticipato, chiariva alcuni aspetti fondamentali e determinanti in tema di prova del danno e di individuazione dei criteri per la sua liquidazione.
  • Innanzitutto statuiva che ove il pubblico dipendente proponga, nei confronti dell’amministrazione datrice di lavoro, domanda di risarcimento danni per lesione dell’integrità psico – fisica, non rileva, ai fini dell’accertamento della natura giuridica dell’azione di responsabilità proposta, la qualificazione formale data dal danneggiato in termini di responsabilità contrattuale o extracontrattuale, ovvero mediante il richiamo di norme di legge (art. 2043 c.c. e ss., art. 2087 c.c.), indizi di per sé non decisivi, essendo necessario considerare i tratti propri dell’elemento materiale dell’illecito posto a base della pretesa risarcitoria, onde stabilire se sia stata denunciata una condotta dell’amministrazione la cui idoneità lesiva possa esplicarsi, indifferentemente, nei confronti della generalità dei cittadini e nei confronti dei propri dipendenti, costituendo, in tal caso, il rapporto di lavoro mera occasione dell’evento dannoso.
  • Asseriva che l’esistenza del demansionamento era stata accertata dai giudici di merito in base ad una ricostruzione puntuale dei compiti affidati al dipendente dopo la sua assegnazione alla sede della direzione provinciale sino alla cessazione del rapporto per pensionamento, con la descrizione dettagliata delle mansioni svolte nei diversi periodi e di quelle corrispondenti alla sua qualifica; alla stregua di tale accertamento, la complessiva valutazione di “sostanziale privazione di mansioni” non è per niente incoerente con il riconoscimento che per un limitato periodo il lavoratore abbia svolto “un’attività consona alla (sua) professionalità”.
  • L’Organo Supremo statuiva, poi, che una volta accertato il demansionamento professionale del lavoratore, il giudice del merito aveva correttamente desunto l’esistenza del relativo danno in base ad una valutazione presuntiva, riferendosi alle circostanze concrete della operata dequalificazione; e ciò è conforme al principio enunciato da questa Corte secondo cui il danno conseguente al demansionamento va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, frustrazione professionale) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove (cfr. Cass., sez. un. n. 6572 del 2006Cass. n. 29832 del 2008n. 28274 del 2008).
  • Con riguardo, in particolare, al danno non patrimoniale, l’Organo Supremo chiariva che  esso è stato coerentemente individuato dai giudici di merito, occorrendo rilevare che nella disciplina del rapporto di lavoro, ove numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona del lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, il danno non patrimoniale è configurabile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, tali diritti: questi, non essendo regolati ex ante da norme di legge, per essere suscettibili di tutela risarcitoria dovranno essere individuati, caso per caso, dal giudice del merito, il quale, senza duplicare il risarcimento (con l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici), dovrà discriminare i meri pregiudizi – concretizzatisi in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili – dai danni che vanno risarciti (cfr. Cass. n. 10864 del 2009). Nella specie, il danno risarcibile è stato esattamente identificato negli “aspetti di vissuta e credibile mortificazione derivanti al ricorrente dalla situazione lavorativa in cui si trovò ad operare”, secondo una valutazione che si fonda sull’accertamento del nesso causale tra la condotta illecita datoriale e lo stato di mortificazione del lavoratore.
La vicenda da cui è scaturita, invece, la pronuncia n. 12318 del 19 maggio 2010 riguarda  un caso di molestie sessuali ai danni di una lavoratrice a cui i giudici di merito hanno  riconosciuto il risarcimento del danno biologico, morale ed esistenziale. La Corte d’appello di Torino, in parziale riforma della decisione non definitiva del Tribunale della medesima città,  condannava la S.p.A. datrice di lavoro, con sentenza depositata il 17 luglio 2006 e notificata il 6 settembre successivo, a pagare alla propria ex dipendente la somma di Euro 30.150,00, oltre accessori, a titolo di danni biologico, morale ed esistenziale da quest’ultima riportati a seguito delle molestie sessuali subite dal legale rappresentante della società.
Con ricorso, affidato a cinque motivi la società chiedeva la cassazione di tale sentenza e la lavoratrice resisteva alle domande della società con rituale controricorso.
La Suprema Corte di Cassazione investita della questione chiariva, ancora una volta alcuni punti fondamentali e determinanti in tema di risarcimento del danno non patrimoniale da contratto di lavoro.
  • Preliminarmente rilevava che la sentenza impugnata si sottraeva alle censure svolte con i motivi in esame, avendo provveduto ad esaminare le risultanze in giudizio, a partire dalle dichiarazioni rese dalla originaria ricorrente in sede di risposta all’interrogatorio, ritenute attendibili anche e soprattutto alla stregua dei riscontri probatori costituiti da testimonianze che avevano riferito di ripetuti comportamenti di molestie sessuali posti in essere dal datore di lavoro nei confronti di altre lavoratrici, valutati come univocamente significativi della veridicità delle denuncie della dipendente (così correttamente utilizzando, come prove, presunzioni semplici, risalendo da fatti noti ad un fatto ignoto da provare, come consentito dall’art. 2727 c.c. e segg. e non, come dedotto dalla ricorrente, mere presumptiones de presunto).
  • La Corte Suprema precisava poi che anche i criteri adottati dal Tribunale di Torino in materia di liquidazione del danno non patrimoniale e richiamati dalla ricorrente per censurarne la mancata utilizzazione da parte della Corte territoriale costituivano e non possono non costituire espressione di un giudizio equitativo, e ad essi la difesa della lavoratrice aveva fatto riferimento, col valutarne opportuna l’adozione, non in assoluto, ma partendo dalla considerazione di un danno c.d. biologico di rilevante consistenza (e quindi formulando richieste risarcitorie ben più elevate di quelle determinate dai giudici), senza quindi vincolarsi ad essi in ogni casoDi conseguenza correttamente la Corte territoriale, accertando la lievità del danno biologico ma anche la particolare gravità ed odiosità del comportamento lesivo e quindi la sua notevole capacità di offendere i beni personali costituzionalmente protetti indicati come lesi dalla lavoratrice, aveva proceduto ad una liquidazione equitativa del danno non patrimoniale sulla base di criteri diversi, che alludono esplicitamente, in particolare, per ciò che riguarda il cd. danno morale da reato, alla menzionata odiosità della condotta lesiva, indotta soprattutto dallo stato di soggezione economica della vittima e per la parte concernente il c.d. danno esistenziale, al clima di intimidazione creato nell’ambiente lavorativo dal comportamento del datore di lavoro e al peggioramento delle relazioni interne al nucleo familiare della lavoratrice in conseguenza di esso.
  • Infine l’Organo Supremo precisava che, secondo la recente giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal collegio (Cass. 26 gennaio 2010 n. 1529), la valutazione equitativa del danno, in quanto inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimatività, e’ suscettibile di rilievi in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio della motivazione, solo se difetti totalmente la giustificazione che quella statuizione sorregge, o macroscopicamente si discosti dai dati di comune esperienza, o sia radicalmente contraddittoria.
In sintesi con le sopra menzionate sentenze è stato confermato l’orientamento varato dalle Sezioni Unite del marzo 2006 e ripreso da sentenze del 2008: LA CONDOTTA LESIVA DEL DATORE DI LAVORO CHE SIA RICONDUCIBILE AL RAPPORTO DI IMPIEGO ED AGLI SPECIFICI OBBLIGHI DI PROTEZIONE DEI LAVORATORI E’ ANCORATA ALL’ART. 2087 C.C., SENZA NECESSITA’ DI RICORSO NE’ ALL’ART. 1223 NE’ ALL’ART. 2059 C.C.. Nei casi che possiamo ricondurre ad occasione di lavoro “LA RESPONSBILITA’ HA NATURA CONTRATTUALE CONSEGUENDO L’INGIUSTIZIA DEL DANNO ALLE VIOLAZIONI DI TALUNA DELLE SITUAZIONI GIURIDICHE IN CUI IL RAPPORTO DI LAVORO SI ARTICOLA E SOSTANZIANDOSI LA CONDOTTA LESIVA NELLE SPECIFICHE MODALITA’ DI GESTIONE DEL RAPPORTO”.
Le norme cui ancorare la tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore e la dignità dello stesso vengono poi rinvenute nella Costituzione che funge da filtro per discriminare i meri pregiudizi dai danni che vanno risarciti.
Uno dei passaggi più interessanti della sentenza n. 4063 del 22.02.2010 riguarda poi l’aspetto della prova del danno e della c.d teoria “danno-conseguenza”: la prova per presunzioni permette di risalire, con prudente apprezzamento, dal fatto noto (demansionamento) al fatto ignoto (danno), facendo ricorso alle nozioni generali derivanti dall’esperienza. Ciò comporta la necessità di provare non solo il nesso eziologico tra fatto illecito e pregiudizio lamentato ma anche, seppur a seguito di presunzioni, l’esistenza del danno.
La sentenza n. 12318 del 19 maggio 2010, ha dedicato ampio spazio ai criteri di liquidazione del danno ammettendo la legittimità del criterio della liquidazione equitativa del danno biologico purché il risarcimento sia “personalizzato” ossia purché si valuti il caso concreto e la reale entità del danno. Infatti secondo la Cassazione tale liquidazione “può essere effettuata dal giudice sulla base di criteri standardizzati e predeterminati, assumendosi come parametro il valore medio per punto, calcolato sulla media dei precedenti in virtù delle c.d. “tabelle” in essere presso l’Ufficio giudiziario, sempre che il risultato in tal modo raggiunto venga poi “personalizzato” tenendo conto della particolarità del caso concreto e della reale entità del danno.

Consenso informato. Conseguenze della violazione del diritto di autodeterminazione del paziente anche in caso di intervento correttamente eseguito. La sentenza Cassazione Civile n. 2847 del 09 Febbraio 2010.

By Pronunce
La pronuncia in commento della Cassazione in tema di obbligo di informazione incombente sul medico e di consenso informato del paziente conferma la recente giurisprudenza circa la risarcibilità di “ogni tipo di pregiudizio non patrimoniale” derivato da una prestazione sanitaria in assenza di consenso, anche se l’intervento è stato eseguito “ex lege artis” e senza danno per il paziente, essendo leso il suo diritto di autodeterminazione.
La sentenza in esame ha statuito che anche in caso di sola violazione del diritto all’autodeterminazione, pur senza correlativa lesione del diritto alla salute ricollegabile a quella violazione per essere stato l’intervento terapeutico necessario e correttamente eseguito, può  sussistere uno spazio risarcitorio.
La violazione di un diritto fondamentale della persona costituzionalmente garantito, quale è quello  della autodeterminazione dell’ammalato in ordine alla tutela terapeutica della propria salute, comporta, infatti,  la risarcibilità di ogni tipo di pregiudizio non patrimoniale che ne è derivato, anche se l’intervento terapeutico era necessario ed è stato correttamente eseguito.
Il diritto all’autodeterminazione rappresenta, ad un tempo, una forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi, che si sostanzia non solo nella facoltà di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma altresì di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, atteso il principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé e ne sancisce il rispetto in qualsiasi momento della sua vita e della  integrità alla sua persona.
Secondo la definizione della Corte costituzionale (sentenza n. 438 del 2008, sub. n. 4 del “Considerato in diritto”) il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono rispettivamente che “la libertà personale è inviolabile” e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge“.

Ove manchi il consenso informato e quindi sia stato violato il diritto di autodeterminazione del paziente, sarà risarcibile -a condizione che esso varchi la soglia della gravità dell’offesa- il conseguente danno non patrimoniale, che corrisponde sia alla privazione della possibilità di scelta spettante al paziente, sia al turbamento e alla sofferenza provocati dal verificarsi di conseguenze del tutto inaspettate.

 

Ciò su cui il Giudice deve indagare è il nesso causale tra mancata informativa e scelta circa esecuzione o meno dell’intervento, ovvero si tratta di accertare se, in caso di intervento eseguito correttamente, il paziente si sarebbe sottoposto ugualmente all’intervento se il sanitario lo avesse preventivamente informato in maniera completa anche circa le possibili conseguenze negative.
La risarcibilità del danno da lesione della salute che si verifichi per le non imprevedibili conseguenze dell’atto terapeutico necessario e correttamente eseguito a regola d’arte medica, ma tuttavia effettuato senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli e dunque senza un consenso consapevolmente prestato, necessariamente presuppone l’accertamento che il paziente quel determinato intervento avrebbe rifiutato se fosse stato adeguatamente informato.
Per meglio comprendere le statuizioni della Suprema Corte ecco succintamente quanto accaduto nella fattispecie giunta al vaglio dell’Organo Giudicante.
Nel febbraio 1993 una paziente agiva nei confronti del medico che la aveva sottoposta ad intervento chirurgico per cataratta asportandole il cristallino dell’occhio destro e ne chiedeva la condanna al risarcimento dei danni patiti per le complicanze (comportate da cheratite corneale bollosa) e le lesioni che ne erano conseguite, costringendola a sottoporsi ad ulteriore intervento chirurgico per trapianto di cornea presso altra struttura sanitaria.
La paziente asseriva di non essere stata preventivamente informata dal primo medico circa la possibile insorgenza della cheratite bollosa e che, se fosse stata correttamente informata della possibilità dell’insorgere di tale malattia probabilmente avrebbe modificato la propria scelta terapeutica.
In primo grado il Tribunale di Napoli con sentenza n. 2095 del 2002, rigettava la domanda della paziente, escludendo che a seguito del secondo intervento, fossero residuati esiti permanenti dalla cheratite insorta dopo l’intervento di asportazione della cataratta, affermando tra l’altro che della “mancanza di consenso informato” avrebbe dovuto dare prova la paziente.
La paziente impugnava la pronuncia e in secondo grado la Corte d’Appello di Napoli con sentenza n. 242 del 2005 riformava completamente la sentenza di primo grado.
La Corte rilevava che non avendo il medico ”sul quale incombeva l’onere di provare la presenza di un consenso informato, né affermato né tanto meno provato  di aver informato la paziente dei rischi prevedibili dell’intervento e di aver ricevuto il consenso da quest’ultima, andava affermata, come richiesto dalla paziente in primo grado, la responsabilità del sanitario, per i danni derivati dall’intervento effettuato in difetto di detto consenso, nessun rilievo avendo la circostanza che l’intervento medesimo fosse stato eseguito in modo corretto”.
La Corte d’Appello riteneva poi che “il riconoscimento della responsabilità del sanitario per carenza di consenso informato comportava la condanna dello stesso al risarcimento dei danni patiti dalla paziente per l’invalidità temporanea, per le sofferenze patite per l’insorgenza della cheratite bollosa e per le spese affrontate per il successivo trapianto corneale, necessario ad eliminare la cheratopatia“.
Avverso la sentenza della Corte D’Appello di  Napoli ricorreva per cassazione il medico e resisteva con controricorso la paziente che proponeva altresì ricorso incidentale.
La Suprema Corte di Cassazione investita della questione, come sopra già anticipato, chiariva alcuni aspetti fondamentali e determinanti in tema di responsabilità medica.
  • Innanzitutto statuiva che il soggetto sul quale grava l’onere probatorio circa la sussistenza o meno del consenso informato è il sanitario e non il paziente. Ciò in quanto l’intervento del medico anche in sola fase diagnostica, da luogo all’instaurazione di un rapporto di tipo contrattuale tra paziente e sanitario. Ne consegue che quest’ultimo deve dimostrare la diligente esecuzione della prestazione sanitaria e dunque l’esatto adempimento del dovere di informativa ai fini di un valido consenso. Il necessario consenso del paziente all’esecuzione della prestazione terapeutica costituisce una obbligazione il cui adempimento deve essere provato dal medico a fronte dell’allegazione di inadempimento da parte del paziente.
  • Asseriva, poi, che la mancata assunzione del consenso da parte del sanitario costituisce autonoma fonte di responsabilità anche in caso di esito favorevole dell’intervento, qualora scaturiscano effetti lesivi per il paziente, a nulla rilevando che le prestazioni siano state erogate in maniera diligente.
  • L’Organo Supremo statuiva, inoltre, che in presenza di un trattamento medico necessario e correttamente eseguito, la mancanza di una preventiva informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli dell’intervento implica – qualora questi ultimi vengano a verificarsi – la risarcibilità, da parte del medico, del correlato danno alla salute esclusivamente qualora si accerti che il paziente avrebbe rifiutato, ove adeguatamente informato, l’intervento stesso. Il relativo onere probatorio, suscettibile di essere soddisfatto anche mediante presunzioni, grava sul paziente: (a) perché la prova di nesso causale tra inadempimento e danno comunque compete alla parte che alleghi l’inadempimento altrui e pretenda per questo il risarcimento; (b) perché il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal paziente al medico; (c) perché si tratta pur sempre di stabilire in quale senso si sarebbe orientata la scelta soggettiva del paziente, sicché anche il criterio di distribuzione dell’onere probatorio in funzione della “vicinanza” al fatto da provare induce alla medesima conclusione; (d) perché il discostamento della scelta del paziente dalla valutazione di opportunità del medico costituisce un’eventualità che non corrisponde all’id quod plerumque accidit”.
  • In specifico l’Organo Supremo statuiva che sono meritevoli di risarcimento il turbamento e la sofferenza derivati al paziente da un trattamento da cui, per carenza di adeguata informazione medica, siano derivati postumi negativi del tutto inaspettati. L’effettiva e concreta risarcibilità del danno patito dal paziente  si avrà laddove il pregiudizio del paziente sia grave, ovvero varchi la tollerabilità dell’offesa secondo i canoni delineati dalle sentenze delle Sezioni Unite (Cass. Da n. 26972 a 26974 del 2008), con le quali si è stabilito che il diritto del paziente deve essere inciso oltre un certo  livello minimo di tollerabilità. La valutazione della gravità dell’offesa dovrà, di volta in volta, determinarsi dal Giudice secondo il suo libero apprezzamento.
In sintesi con la sentenza n. 2847 del 9 febbraio 2010 la Suprema Corte ha precisato che in presenza di un trattamento medico necessario e correttamente eseguito, la mancanza di una preventiva informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli dell’intervento implica – qualora questi ultimi vengano a verificarsi – la risarcibilità, da parte del medico, del correlato danno alla salute esclusivamente qualora si accerti che il paziente avrebbe rifiutato, ove adeguatamente informato, l’intervento stesso.
Anche in assenza di lesione alla salute per essere stato l’intervento terapeutico necessario e correttamente eseguito, si prospetta, infatti, – ove manchi il consenso informato – la violazione del diritto all’autodeterminazione del paziente.
Sarà pertanto risarcibile, a condizione che esso varchi la soglia della gravità dell’offesa, il conseguente danno non patrimoniale, che corrisponde sia alla privazione della possibilità di scelta spettante al paziente tra interessi configgenti a quest’ultimo facenti capo, sia al turbamento e alla sofferenza provocati dal verificarsi di conseguenze del tutto inaspettate.
L’illecito consistente nella omessa informazione obbliga al risarcimento delle conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla lesione del diritto all’autodeterminazione, tutelato dagli art. 2, 13 e 32 Cost., se il diritto sia inciso oltre un certo livello minimo di tollerabilità, da determinarsi dal giudice nel bilanciamento tra principio di solidarietà e di tolleranza secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico.

L’ERRORE DIAGNOSTICO DEL MEDICO IN SEDE DI INDAGINI PRENATALI: omessa informazione da parte dei medici circa la malformazione del feto. altri: il danno economico dei genitori.

By Pronunce
Un capitolo particolarmente delicato, in tema di responsabilità dei medici e dei paramedici, è rappresentato senza dubbio dall’errore diagnostico in sede di indagini prenatali.
In quest’ambito si inseriscono le sentenze n. 22837 del 10 novembre 2010 e  n. 2354 del 2 febbraio 2010 della Cassazione Civile, Sezione III.
Il caso affrontato dalla sent. n. 22837 / 2010  prende le mosse dalla nascita di un bambino affetto da una gravissima malformazione (“mielomeningocele lombo sacrale ed idrocefalia”, comportante un’invalidità permanente del 100%), non diagnosticata a seguito dei controlli ecografici cui la madre s’era sottoposta presso il reparto sanitario della Clinica Ostetrica e Ginecologica, (presso cui la stessa aveva poi partorito), a partire dalla sedicesima settimana di gravidanza. Precisamente nel 1989 i genitori del bambino, in proprio ed in rappresentanza del minore, agivano giudizialmente nei confronti dei due medici ecografisti che avevano eseguito gli esami e del direttore della Clinica, domandandone la condanna solidale al risarcimento dei danni. I genitori sostennero che, per non essere stata informata della malformazione del feto, la madre non era stata posta in condizione di interrompere la gravidanza. I convenuti resistettero.
Resistettero anche le società assicuratrici, chiamate rispettivamente in causa dagli assicurati.
Acquisita la documentazione prodotta dalle parti, con sentenza del 9.6.2001 il Tribunale di Messina condannò tutti i convenuti al pagamento di complessive L. 1.450.000.000. La decisione fu appellata da tutte le parti e totalmente riformata dalla Corte d’appello di Messina, che con sentenza n. 215 del 2005 rigettava la domanda dei genitori. I soccombenti ricorrevano quindi per cassazione, affidandosi a cinque motivi cui resistevano con distinti controricorsi solo la Clinica e le società assicuratrici. La Suprema Corte cassava la sentenza d’appello, accogliendo quattro motivi e rinviava ad altra Corte d’Appello (Catania). In particolare la sentenza della Corte di Cassazione 22837/2010  ha statuito che: “In tema di responsabilità del medico da nascita indesiderata, ai fini dell’accertamento del nesso di causalità tra l’omessa rilevazione e comunicazione della malformazione del feto e il mancato esercizio, da parte della madre, della facoltà di ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza, è sufficiente che la donna alleghi che si sarebbe avvalsa di quella facoltà se fosse stata informata della grave malformazione del feto, essendo in ciò implicita la ricorrenza delle condizioni di legge per farvi ricorso, tra le quali (dopo il novantesimo giorno di gestazione) v’è il pericolo per la salute fisica o psichica derivante dal trauma connesso all’acquisizione della notizia, a norma dell’art. 6, lett. b, della legge n. 194 del 1978; l’esigenza di prova al riguardo sorge solo quando il fatto sia contestato dalla controparte, nel qual caso si deve stabilire in base al criterio (integrabile da dati di comune esperienza evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali) del «più probabile che non» e con valutazione correlata all’epoca della gravidanza se, a seguito dell’informazione che il medico omise di dare per fatto ad esso imputabile, sarebbe insorto uno stato depressivo suscettibile di essere qualificato come grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
La sentenza n. 2354/2010 prende, invece, in esame il caso della nascita di una bambina affetta da infezione prenatale da CMV con calcificazioni endonomiche ed endocraniche e microcefalia.
I genitori della bambina convenivano dinanzi al Tribunale di Trento il medico ginecologo e l’ente sanitario alle cui dipendenze operava il suddetto medico, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni – materiali e psicofisici, diretti e riflessi, conseguenti alla nascita “indesiderata” della figlia affetta da malformazione.
Il Tribunale adito, accertata la responsabilità del sanitario e il reato di cui all’art. 328 c.p., lo condannava a risarcire a ciascuno degli attori Euro 40 mila a titolo di risarcimento del solo danno morale. Il Tribunale respingeva, invece, la richiesta di risarcimento degli altri danni in quanto, alla data dell’ecografia, la gestazione era al 94esimo giorno e pertanto non era possibile l’interruzione della gravidanza ai sensi dell’art. 4 della legge 194/1978, che pone il limite di 90 giorni per praticare l’aborto terapeutico, mentre non essendovi, con un giudizio ex ante, la prova di un grave pericolo di compromissione della salute della madre se avesse conosciuto l’eventuale maggior rischio del feto. Respingeva anche le domande di risarcimento degli altri danni per mancanza di nesso causale con l’incompleta informazione.
Entrambe le Parti interponevano appello. La Corte d’Appello di Trento respingeva l’appello dei genitori e accoglieva quello proposto dal sanitario.
Ricorrevano quindi in Cassazione i genitori della bambina. La Suprema Corte, dopo una puntuale disamina dei motivi di censura e dopo aver ribadito dati già acquisiti dalla giurisprudenza in merito alla ratio della Legge n. 194/1978, accoglieva, con rinvio il ricorso. In particolare nella sentenza 2354/2010 l’organo supremo afferma che: “Il sanitario curante che accerti l’esistenza, a carico della gestante, di una patologia tale da poter determinare l’insorgenza di gravi malformazioni a carico del nascituro, è tenuto ad informare la donna di tale situazione e della possibilità di svolgere indagini prenatali, benché rischiose per la sopravvivenza del feto, onde consentire l’esercizio della facoltà di procedere all’interruzione della gravidanza; ove, peraltro, siano decorsi più di novanta giorni dall’inizio della gravidanza, per ottenere il risarcimento del danno conseguente alla violazione di tale diritto, la donna è tenuta a dimostrare – con riguardo alla sua concreta situazione e secondo la regola causale del “più probabile che non” – che l’accertamento dell’esistenza di rilevanti anomalie o malformazioni del feto avrebbe generato uno stato patologico tale da mettere in pericolo la sua salute fisica o psichica.
Ebbene con le sentenze citate la Corte di Cassazione è tornata di nuovo a pronunciarsi sulla questione inerente la mancata informazione in merito alle anomalie del feto e la lesione del diritto all’interruzione della gravidanza. Entrambe le pronunce presentano l’enunciazione del concetto del doppio binario dell’onere della prova, principio giurisprudenziale ormai consolidatosi, ma, per altro verso ne estendono il fascio applicativo, andando oltre. Viene confermato, infatti, come in materia sanitaria, da un lato, grava sul medico la prova di aver correttamente informato il paziente che invoca il risarcimento del danno per lesioni alla salute, dall’altro, grava sull’attore l’onere di provare che avrebbe rifiutato la prestazione se correttamente informato.
In particolare le pronunce in rassegna pongono a carico delle madri l’onere di provare un nesso  causale tra l’omissione informativa e la perdita della possibilità di scelta di interruzione della gravidanza.
Nel primo caso la madre allega che, se informata correttamente della malformazione del proprio feto nella fase intrauterina della vita umana avrebbe interrotto la gravidanza. Così facendo, la stessa implicitamente allega la sussistenza delle condizioni che legittimano l’accesso all’interruzione della gravidanza. Tali condizioni secondo la Corte sono provate se il convenuto non le contesta. La decisione conferma così il principio per cui la non contestazione di fatti allegati dalla controparte vale quale relevatio ab onere probandi per il deducente. La sentenza afferma poi che la contestazione deve essere “tempestiva”: l’ultimo momento utile per contestare i fatti avversi  è la prima difesa utile. La decisione de quo si spinge,  quindi,  oltre laddove afferma che sono da ritenersi “non contestati” anche i fatti dedotti in via implicita, come accade se l’allegazione di un fatto positivo includa, in sé, la sussistenza di altri sub-fatti costitutivi. Nel caso di specie l’attrice allega che se informata correttamente della malformazione del proprio feto nella fase intrauterina della vita umana avrebbe interrotto la gravidanza. Così facendo, l’attrice implicitamente allega la sussistenza delle condizioni che legittimano l’accesso all’interruzione della gravidanza. Tali condizioni secondo la pronuncia sono provate se il convenuto non le contesta.
Nella sentenza 2354/2010, la Corte ha concluso che, per stabilire se i danni richiesti sono conseguenza dell’inadempimento all’obbligo della suddetta completa informazione da parte del medico, è necessario che il giudice di merito accerti, ex ante, se la conoscibilità delle rilevanti anomalie e malformazioni del feto, avrebbe determinato, con un giudizio di prognosi postuma, un grave pericolo della lesione del diritto alla salute della madre, avuto riguardo alle condizioni concrete fisiopsichiche patologiche della stessa e secondo la scienza medica di allora in base alla regola causale del “più probabile che non”, in modo tale da determinare i presupposti per attuare la tutela di tale interesse, ritenuto dall’ordinamento prevalente su quello alla nascita del concepito gravemente malformato, purché non giunto a uno stadio di formazione e maturità che ne rende possibile la sua vita autonoma, consentendo alla madre di interrompere la gravidanza, quale intervento terapeutico complementare.

Concludendo  le sentenze in esame, da un lato confermano il principio ormai consolidato in materia della responsabilità contrattuale del medico in ipotesi di omessa informazione circa la malformazione del feto anche oltre il novantesimo giorno di gravidanza e, quindi, pongono a carico del sanitario l’onere di provare di aver correttamente informato la paziente; dall’altro, pongono a carico delle madri ( in caso di contestazione da parte del medico- in Cass. Civ. 22837/2010-) l’onere di provare l’esistenza di un nesso causale tra l’omissione informativa e la perdita della possibilità di scelta di interruzione della gestazione ovvero l’onere di provare che la comunicazione informativa circa la malformazione del feto avrebbe causato uno stato patologico tale da pregiudicare la salute psico-fisica della donna, da provare secondo la regola causale del “più probabile che non” (e cioè secondo un principio di prova meno rigoroso).

È possibile leggere il testo integrale delle seguenti sentenze:

Il minore ha diritto “a nascere sano”. Insieme ai numerosi altri: il danno economico dei genitori.

By Pronunce

Si segnala, in tema di malasanità, la sentenza n. 13 del 04 gennaio 2010 della Cassazione Civile, Sez. III.

Il Supremo Collegio nell’esaminare un caso di omessa diagnosi di malformazioni fetali e conseguente nascita indesiderata ha stabilito, vertendosi nell’ambito dell’inadempimento contrattuale, che il danno al cui risarcimento è tenuto il debitore (medico e/o struttura sanitaria) non è solo quello alla salute, ma anche quello economico inteso come conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento.

Ha, infatti, respinto la censura mossa alla decisione dei Giudici d’Appello che bene avevano fatto a liquidare un danno patrimoniale a favore della coppia di genitori che doveva tener conto del differenziale tra la spesa necessaria per il mantenimento di un figlio “sano” e la spesa per il mantenimento di un figlio affetto da malformazioni ponendo come limite temporale il raggiungimento dell’indipendenza economica del figlio alla età di trenta anni.