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Pronunce

Se decidi scientemente di farti trasportare su un motorino in condizioni di sicuro pericolo, per la cassazione cooperi colposamente nella determinazione dei tuoi danni

By Pronunce
Il Supremo Collegio, Sez. III Civile, con sentenza n. 10526 del 13 maggio 2011 ha voluto sottolineare a chiare lettere come il concorso di colpa si concretizzi attraverso una consapevole assunzione del rischio da parte del trasportato – danneggiato che nel caso di specie ha tenuto una condotta palesemente imprudente.
La decisione scaturisce da un fatto accaduto di notte, in una non precisata  località del Trentino, quando una sfortunata ed improvvida signora rimase coinvolta in un incidente stradale. L’autovettura dalla stessa condotta non poteva essere rimessa in moto perché gravemente danneggiata e pertanto la signora e il figlio che viaggiava con lei erano  impossibilitati a ritornare a casa. Presa dal panico, la signora accettava di intraprendere il lungo viaggio di ritorno sullo scooter di un conoscente: sul mezzo trovano sistemazione il conducente, la donna, il figlio di lei (che fortunatamente indossava l’unico casco disponibile) ed un voluminoso borsone, che veniva posizionato “di traverso sullo scooter” stesso.
Dopo aver percorso circa 100 km i ridetti soggetti  rovinavano al suolo, con conseguenti danni per la protagonista.
La vittima agiva, quindi, in giudizio contro il conducente dello scooter e contro la compagnia assicuratrice del mezzo a due ruote, per vedersi risarcire i danni conseguenti alle gravi lesioni riportate. Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Trento riconoscevano il diritto al risarcimento; con una riduzione del quantum di un quinto del totale,  ritenendo sussistente un concorso di colpa della vittima, rilevante ai sensi dell’art. 1227, comma 1, c.c. .
La Corte di Cassazione investita della questione ha osservato che i giudici di merito hanno nel caso fatto invero piena e corretta applicazione del principio da questa Corte affermato secondo cui allorquando la messa in circolazione dell’autoveicolo in condizioni di insicurezza (e tale è la circolazione di un ciclomotore con a bordo addirittura come nella specie tre persone, di cui uno minore d’età, in violazione dell’art. 170 C.d.S.) è ricollegabile all’azione o omissione sia del conducente (che prima di iniziare o proseguire la marcia deve controllare che essa avvenga in conformità delle normali norme di prudenza e sicurezza) che del trasportato emerge una fattispecie caratterizzata dal reciproco consenso dei medesimi alla circolazione, con consapevole partecipazione di ciascuno alla condotta colposa dell’altro, e accettazione dei relativi rischi, integrante un’ipotesi di cooperazione colposa dei predetti nella condotta causativa del fatto evento dannoso che, a parte i profili di responsabilità per gli eventuali danni arrecati a terzi disciplinati dall’art. 2054 c.c., obbliga il conducente del veicolo al risarcimento dei danni sofferti dal trasportato in conseguenza del sinistro.

 


Tuttavia se per il trasportato “l’avere accettato il passaggio sullo scooter, sia pure nelle condizioni di spavento e difficoltà susseguenti al primo incidente ed anche per la necessità di non rimanere sola in piena notte con il figlio di 11 anni,[ se] non può considerarsi … elemento di causa esclusiva dell’evento, va comunque stimato, quanto meno, fatto concorrente alla verificazione dell’evento. Non può tacersi, infatti, che il trasporto dei due passeggeri e di un borsone  su uno scooter, comunque di piccole dimensioni, ha indubbiamente creato un profondo turbamento dell’equilibrio del mezzo perfettamente evidente a qualunque conducente di mezzo( la Z.era abilitata alla guida), la stessa Z., nel far indossare al figlio ili solo altro casco disponibile, ha mostrato di avere perfettamente intuito il rischio che il trasporto rappresentava in ragione della complessiva inidoneità del mezzo e delle concrete modalità attraverso le quali il trasporto veniva eseguito”, pervenendo quindi a concludere che “la concitazione”, lo spavento e la preoccupazione del momento hanno indotto la Z. ad un comportamento non razionale che ha concorso a determinare l’evento sia pure senza che ciò possa essere valutato quale unica causa dell’occorso.
Nulla si legge circa la scelta di quantificare nel 20% la misura del concorso di colpa del trasportato-danneggiato!!!!

Il divieto di assegnazione a mansioni inferiori ex art. 2103 c.c. è norma inderogabile. Il danno alla immagine professionale del lavoratore per demansionamento è risarcibile se la lesione subita è grave

By Pronunce
Si segnalano due importanti sentenze della Suprema Corte di Cassazione Civile, Sez. Lavoro: la numero 8527 del 14 aprile 2011 e la n. 5337 del 4 marzo 2011. Entrambe le sentenze riguardano episodi di demansionamento posti in essere dal medesimo datore di lavoro, ma nei confronti di due diversi lavoratori. X
La sentenza n. 5337 del marzo 2011 ha ad oggetto la vicenda di un lavoratore che sosteneva  di aver subito, nel 1995 un demansionamento, in quanto, a seguito di un riordino organizzativo, il datore di lavoro lo aveva retrocesso da “capo turno” ad “addetto alla sorveglianza”. Il lavoratore ricorreva al Pretore di Milano chiedendo l’accertamento del lamentato demansionamento, la condanna della società alla riattribuzione delle precedenti mansioni, nonché la condanna della medesima al risarcimento del danno in misura pari ad una mensilità lorda di retribuzione per ciascun mese di dequalificazione subita a partire dal 15/5/1995.
La domanda veniva rigettata e il lavoratore impugnava la sentenza avanti la Corte d’Appello di Milano, che,  con sentenza 11 maggio 2001, n. 298, condannava l’Azienda a riassegnare al dipendente le mansioni di Capoturno o altre equivalenti e al risarcimento del danno, in misura pari al 10% della retribuzione globale di fatto mensile a partire dal 15.5.95.
Il datore di lavoro ricorreva in Cassazione e la Suprema Corte, con sentenza 29 ottobre 2004, n. 20889, respinti i motivi di ricorso avverso l’accertamento del demansionamento, accoglieva quello relativo alla condanna risarcitoria, cassava in parte qua la sentenza della Corte d’Appello di Milano, e rimetteva il giudizio avanti alla Corte d’Appello di Genova.
Il lavoratore con ricorso depositato il 13/6/2005 riassumeva la causa avanti la Corte d’Appello di Genova per conseguire il risarcimento dei danni derivanti dall’acclarato demansionamento, deducendo che l’accertato demansionamento aveva procurato quattro tipi di danno: 1) danno alla vita di relazione; 2) compromissione della capacità di concorrere nei rapporti sociali ed economici; 3) danno da perdita di professionalità; 4) danno patrimoniale diretto per il dimezzarsi della possibilità di accedere ai turni di reperibilità.
Il lavoratore sosteneva che tutti i predetti pregiudizi erano dimostrabili in via presuntiva e liquidabili in via equitativa, in misura pari all’ammontare di una mensilità di retribuzione lorda per ogni mese di dequalificazione.
Il datore di lavoro costituitosi eccepiva l’irritualità della riproposizione di domande risarcitorie già respinte nelle precedenti fasi del giudizio ed esorbitanti dal limite di cognizione del giudizio di rinvio, quale delineato dalla Corte di legittimità.
Nel merito il datore di lavoro  osservava che, in relazione a tutte le ragioni di danno lamentate, non era sussistente la necessaria prova secondo i criteri dettati dal recente orientamento giurisprudenziale in ordine ai danni da demansionamento.
La Corte d’Appello di Genova, rilevato che il lavoratore non aveva fornito la prova del pregiudizio da demansionamento, rigettava la domanda volta a conseguire il risarcimento del danno. Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia.
La Suprema Corte rigettava il ricorso del lavoratore statuendo che: “In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva – non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale – non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; e che “In caso di accertato demansionamento professionale, la risarcibilità del danno all’immagine derivato al lavoratore a cagione del comportamento del datore di lavoro presuppone che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità, e che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi. (Nella specie, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha rilevato la correttezza della decisione della corte territoriale che non solo ha escluso che la retrocessione da capo turno ad addetto alla sorveglianza comportasse l’esistenza di un danno “in re ipsa” rispetto alla dedotta lesione dell’immagine professionale, ma ha ritenuto di poter trarre una presunzione di segno contrario in relazione all’ “estrema modestia della limitata supremazia esercita in precedenza” dal lavoratore)”.
La sentenza n. 8527 dell’aprile 2011 trae, invece, spunto dalla vicenda accaduta ad un lavoratore che aveva citato in giudizio il datore di lavoro per ottenere la condanna di quest’ultimo al risarcimento del danno patrimoniale (differenze retributive) e del danno non patrimoniale (lesione della dignità personale e professionale) subiti in conseguenza della violazione del divieto di demansionamento posto in essere dal datore di lavoro.
Il dipendente aveva chiesto al datore di lavoro di essere trasferito presso un’altra sede della società. Il datore di lavoro accoglieva la domanda e disponeva il trasferimento del lavoratore presso la sede richiesta, ma lo adibiva a mansioni inferiori rispetto a quelle per le quali era stato assunto e che svolgeva nella sede di provenienza. Il lavoratore, peraltro, non era in possesso delle competenze necessarie per svolgere le mansioni inferiori alle quali era stato assegnato e il datore non gli aveva mai fornito la formazione e le istruzioni necessarie per l’espletamento dei nuovi compiti. Il demansionamento subito aveva comportato per il lavoratore una riduzione dello stipendio oltre ad un  pregiudizio per la dignità personale e professionale.
L’azione promossa dal lavoratore in primo grado avanti il Tribunale di Milano si concludeva con sentenza di accertamento del demansionamento e condanna del datore di lavoro al pagamento di € 36.500,00, oltre rivalutazione e interessi, per il riconoscimento del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale.
La sentenza di primo grado veniva appellata avanti la Corte d’Appello di Milano che rigettava il ricorso, confermando la sentenza di primo grado.
Avverso la statuizione della Corte d’appello il datore di lavoro promuoveva ricorso per Cassazione fondato su tre motivi.
Con il primo motivo il datore di lavoro lamentava che la Corte d’Appello nello svolgimento del suo ragionamento aveva fatto riferimento solo alle mansioni svolte dal lavoratore prima del trasferimento e non anche alla declaratoria delle mansioni inferiori alle quali lo stesso assumeva di essere stato adibito; con il secondo motivo denunciava violazione dell’art. 2103 c.c. sostenendo  che la norma sarebbe derogabile con il consenso delle parti; e con il terzo motivo lamentava che l’organo giudicante non aveva sufficientemente motivato in che cosa consistesse effettivamente il danno patito dal lavoratore.
Con riferimento al primo motivo di doglianza la Cassazione statuiva che: “il ragionamento seguito dalla Corte d’Appello di Milano è corretto e conforme agli insegnamenti della Corte di legittimità, secondo cui, ai fini della verifica del legittimo esercizio dello “ius variandi” da parte del datore di lavoro, deve essere valutata dal giudice di merito – con giudizio di fatto incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivato – la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente nella pregressa fase del rapporto e nella precedente attività svolta (Cass. n. 13173/09).
Quanto al secondo motivo la Suprema Corte evidenziava che  “l’art. 2103 c.c., che tutela la professionalità del prestatore di lavoro nonché il diritto a prestare l’attività lavorativa per la quale si è stati assunti o si è successivamente svolta, vietandone l’adibizione a mansioni inferiori, è norma imperativa e quindi non derogabile nemmeno tra le parti, come sancisce l’ultimo comma di tale norma:<<Ogni patto contrario è nullo>>”.
Infine la Cassazione statuiva  anche che “in caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell’art. 2103 c.c., il giudice di merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del relativo danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico – giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (cfr., Cass. n. 8893/2010Cass., n. 14729/2006)”.
Entrambe le sentenze della Corte di Cassazione confermano l’orientamento ormai consolidato in tema di onere probatorio: non ammettono la sussistenza di una prova del danno in re ipsa, ma attribuiscono rilevanza alle presunzioni intese come quegli elementi di fatto indicativi della quantità e qualità dell’esperienza lavorativa pregressa, della tipologia di professionalità colpita, della durata del demansionamento.
Tuttavia solo la sentenza più recente, la n. 8527/2011 riconosce il risarcimento di un danno alla professionalità del lavoratore.
Nella sentenza 5237/2011 il ragionamento presuntivo è usato a contrario, ossia per escludere la sussistenza del danno in quanto si ritiene che  “l’estrema modestia della supremazia esercitata” dal lavoratore prima del demansionamento lascia presupporre che non si sia verificato alcun danno perché manca il requisito della “gravità dell’offesa”. Il risarcimento del danno non patrimoniale viene negato sia sotto il profilo del mancato assolvimento dell’onere di allegazione, sia sotto il profilo della gravità dell’offesa.
In sostanza la sentenza individua nel criterio della gravità dell’offesa un requisito ulteriore, necessario per il riconoscimento e il risarcimento del danno non patrimoniale alla persona in conseguenza della violazione di diritti costituzionalmente garantiti. Per avere diritto al risarcimento il bene costituzionalmente tutelato e garantito deve essere leso oltre una determinata soglia che superi un grado minimo di tolleranza.
Sul piano teorico l’iter logico della sentenza n. 5237/2011 è condivisibile, tuttavia si osserva che in tal modo si finisce per utilizzare la categoria della “gravità dell’offesa” senza indicare esattamente quale sia la soglia di tollerabilità, con la rischiosa conseguenza che potrebbe non essere riconosciuto il risarcimento per quei casi per così dire “meno evidenti”.

Il diritto del figlio maggiorenne a ricevere l’assegno di mantenimento da parte dei genitori separati non cessa neanche nel momento in cui il figlio decide di sposarsi

By Pronunce
La sentenza n. 1830 del 26.01.2011 della Corte di Cassazione, Sez. I, prende le mosse da una pronuncia della Corte d’Appello di Bologna che aveva respinto un reclamo presentato avverso una decisione del Tribunale di Ferrara del 21.02.2006 che modificava le condizioni della separazione personale di due coniugi con figli.
Con il decreto 21.02.2006, il Tribunale di Ferrara esonerava il padre dal versamento del contributo di €. 436,00 mensili a favore della figlia maggiorenne perché ritenuta autosufficiente.
La madre della ragazza presentava a questo punto reclamo alla Corte di Appello di Bologna che lo respingeva con provvedimento 12.07.2006 sostenendo che la figlia era in possesso di un diploma di laurea utilizzabile per cercare e trovare un lavoro e poi perché, peraltro, la stessa aveva  contratto matrimonio dimostrando di avere raggiunto la piena indipendenza economica.
La Corte di Cassazione ha censurato il “provvedimento  impugnato per aver escluso l’obbligo della controparte (padre) di contribuire al mantenimento della figlia erroneamente ritenuta autosufficiente in mancanza di adeguata occupazione, in quanto la stessa: a) pur avendo conseguito un diploma di laurea in scienze motorie, aveva preferito iscriversi alla facoltà di medicina invece di reperire un’occupazione attraverso il titolo ottenuto; b) aveva contratto matrimonio con un giovane pur esso non indipendente perché ancora studente: senza considerare che le nozze non potevano essere equiparate alla raggiunta autosufficienza richiesta dalla legge”.
La giurisprudenza formatasi negli anni ha fissato dei paletti ben precisi riguardanti questa materia che, invece, la norma non conteneva e in particolare, dice il Supremo Collegio: “1) il Giudice di merito non può prefissare un termine a tale obbligo di mantenimento, atteso che il limite di persistenza va determinato sulla base (soltanto) del fatto che il figlio, malgrado i genitori gli abbiano assicurato le condizioni necessarie (e sufficienti) per concludere gli studi intrapresi e conseguire il titolo indispensabile ai fini dell’accesso alla professione auspicata, non abbia saputo trarne profitto, per inescusabile trascuratezza o per libera (ma discutibile) scelta delle opportunità offertegli; ovvero non sia stato in grado di raggiungere l’autosufficienza economica per propria colpa; 2) spetta al genitore interessato alla declaratoria della sua cessazione, fornire la prova di uno status di autosufficienza economica del figlio; 3) il relativo accertamento non può che ispirarsi a criteri di relatività, in quanto necessariamente ancorato alle aspirazioni, al percorso scolastico, universitario ed alla situazione attuale del mercato del lavoro…
Questo quadro è stato sostanzialmente recepito dal nuovo art. 155 quinquies cod. civ. introdotto dalla l. n. 54 del 2006, secondo cui << Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico>>”.
Nel caso in questione, è vero che la ragazza aveva conseguito un titolo di laurea breve in scienze motorie, ma altrettanto vero è che successivamente non aveva svolto  alcuna attività lavorativa perché si era iscritta alla facoltà di medicina e chirurgia: facoltà che costituiva una sua aspirazione fin da piccola e che, peraltro, frequentava con buoni risultati.
Altrettanto privo di pregio, per il Supremo Collegio, il fatto che la ragazza avesse deciso nel frattempo di sposarsi con un giovane studente di origine dominicana.
Quello che vale per tutti e cioè che il matrimonio del figlio maggiorenne fa cessare automaticamente l’obbligo del genitore al mantenimento dello stesso perché il matrimonio dà origine ad un nucleo distinto ed autonomo con obblighi reciproci dei coniugi di assistenza morale e materiale non vale in questo caso specifico in cui la ragazza, di giovanissima età, a seguito di una relazione sentimentale aveva deciso di sposarsi prima civilmente e poi con rito religioso per consentire l’espatrio del fidanzato e la permanenza di quest’ultimo nel territorio italiano.
A parte il matrimonio, la situazione sostanziale della giovane non risultava, comunque, mutata in quanto la stessa ha proseguito a vivere con la madre e a studiare con profitto per conseguire il diploma di laurea in medicina e chirurgia e, peraltro, il marito, privo di mezzi economici era iscritto ad un istituto superiore per conseguire il diploma di perito elettronico.

Il danno non patrimoniale causato dalla morte di un animale da affezione non è risarcibile in quanto non configura la lesione di un bene costituzionalmente rilevante, ovvero di un diritto inviolabile delle persona.

By Pronunce
Con sentenza n. 9453 del 20 luglio 2010 il Tribunale di Milano, Sez. V – Est. Dottor Damiano Spera –  ha deciso che la richiesta attorea di risarcimento del danno non patrimoniale subito in occasione del decesso del cane in proprietà della stessa non poteva essere accolta in quanto il danno in esame non rappresenta una lesione di un diritto costituzionalmente protetto.
Nella fattispecie in esame l’attrice conveniva in giudizio il dottor M.M. e il dottor A.B. per sentirli condannare al risarcimento, in via solidale tra loro, di tutti i danni, biologico, morale esistenziale e patrimoniale, da liquidarsi in via equitativa, patiti in occasione del decesso del cane di sua  proprietà, avvenuto in data 11.03.2003.
In particolare l’attrice asseriva che, a causa del  comportamento illecito dei sanitari convenuti, aveva  subito oltre a danni patrimoniali, anche danni morali, “in ragione del coinvolgimento in termini affettivi che la relazione tra uomo e animale domestico comporta e del risultato di completamento e arricchimento della personalità dell’uomo, nonché in ragione dei sentimenti di privazione e di sofferenza psichica indotti dalla morte di “Maya”’…”, danni tutti da liquidarsi in via equitativa.
Il Giudice adito dichiarava la responsabilità dei sanitari convenuti nella produzione dell’evento lesivo occorso in data 11.03.2003, non avendo gli stessi fornito la prova di aver regolarmente adempiuto alla propria obbligazione, nonché la prova che il decesso del cane era da attribuire ad altre cause, tuttavia rigettava le domande di risarcimento danni proposte dall’attrice.
Quanto alla richiesta di risarcimento dei danni patrimoniali, la stessa non veniva accolta perché l’attrice non forniva la prova del danno patrimoniale richiesto: l’attrice, pur producendo la parcella sanitaria esposta, non aveva mai richiesto la risoluzione del contratto e la consequenziale ripetizione della somma pagata.
Anche  la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale non veniva accolta.
A tale riguardo l’estensore richiamava due precedenti, ovvero le sentenze della Cassazione n. 2697/2008 e n. 14846/2007.
Precisamente l’estensore rilevava, in primo luogo, che la Cassazione a Sez. unite (sentenza n. 26972/2008) aveva giustamente ritenuto che, nell’ambito del danno non patrimoniale, il riferimento a determinati tipi di pregiudizi, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno.
È compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione.
Inoltre nella citata sentenza la Cassazione a Sezioni Unite, nell’affermare la bipolarità del sistema risarcitorio (danno patrimoniale e non patrimoniale) ha statuito che “il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, postulando l’ingiustizia del danno di cui all’art. 2043 c.c. la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante, mentre quello del danno non patrimoniale è connotato da tipicità”, e per l’effetto tale danno è risarcibile, in tutte le ipotesi di reato ex art. 185 c.p., negli altri casi espressamente individuati dal legislatore, nonché “…nei casi in cui sia cagionato da un evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona.
In particolare, con riferimento al danno non patrimoniale da morte di un animale di affezione la Corte ha escluso che in tal caso si configuri la lesione di un diritto inviolabile della persona, non ammettendone pertanto il risarcimento.
Così anche la Cassazione, Sez. III, con sentenza n. 14846/2007, richiamata dalle Sezioni Unite, ha statuito che ” la perdita del cavallo… come animale d’affezione, non sembra riconducibile sotto una fattispecie di un danno esistenziale consequenziale alla lesione di un interesse della persona umana alla conservazione di una sfera di integrità affettiva costituzionalmente protetta…“.
Alla luce quindi di tali osservazioni l’estensore rigettava la domanda attorea.
La Sentenza del Tribunale di Milano appare assolutamente condivisibile.
Alla luce dei dettami delle cosiddette “Sentenze di San Martino” (Cassazione – Sez. Unite, 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974, 26975)  e degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali formatisi successivamente alle ridette pronunce per poter configurare un danno non patrimoniale è necessaria la lesione di un bene costituzionalmente rilevante, ed è necessario che tale lesione sia grave (e cioè superi la soglia minima di tollerabilità) e che il danno non sia futile.
Nell’elenco, non esaustivo, dei danni non patrimoniali non risarcibili che le Sezioni Unite hanno stilato rientra anche l’ipotesi della morte dell’animale di affezione.
Il rapporto uomo–animale non può, infatti, annoverarsi tra le attività realizzatrici della persona ex art. 2 della Costituzione in quanto nessuna norma della Costituzione annovera, quale diritto fondamentale ed inviolabile dell’individuo, il diritto alla conservazione del proprio rapporto con l’animale domestico.
In effetti, anche se la legge sotto diversi aspetti tutela gli animali (punendo ad esempio il maltrattamento degli stessi), al momento attuale non esistono argomentazioni valide e convincenti in ordine alla copertura costituzionale del danno non patrimoniale da perdita dell’animale di affezione.
Tutti i precedenti in termini sono nello stesso senso della pronuncia del Tribunale in esame e, anche, il Tribunale di Roma si è pronunciato con sentenza sostanzialmente identica a quella del Tribunale di Milano (cfr. Trib. Roma 19.04.2010)
Da ultimo si segnala la sentenza del Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi 12.01.2011 -Giudice Levita- che ha deciso la vicenda legata alla morte di un cane volpino che il 30 agosto 2007 era stato azzannato da due cani maremmani lasciati incustoditi dalla proprietaria.
Il proprietario del povero volpino citava in giudizio la proprietaria dei due maremmani chiedendo il ristoro dei danni patrimoniali e morali subiti per la perdita del proprio animale.
Il Giudice ha negato il risarcimento sostenendo che i danni lamentati sono da considerarsi inesistenti.
Quanto al risarcimento dei danni patrimoniali ha evidenziato che non è stata indicata in alcun modo la concreta misura del pregiudizio economico realmente subito, ma sono state usate affermazioni di stile svuotate di effettivo contenuto (es. “gran danno economico patrimoniale”).
Nel nostro sistema il danno patrimoniale – dice il Giudice – non riveste natura punitiva ma va puntualmente provato. La parte avrebbe dovuto in altri termini offrire documentazione a riprova del lamentato pregiudizio.
Quanto agli asseriti danni morali, sulla scorta della giurisprudenza dominante, il Giudice ha ritenuto non sussistere una ingiustizia costituzionalmente qualificata tanto che la perdita da animale d’affezione è stata proprio indicata in maniera esemplificativa, dalle Sezioni Unite, quale risibile prospettazione di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone, unitamente ad altre ipotesi pure ivi elencate (la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l’errato taglio di capelli, l’attesa stressante  in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l’invio di contravvenzioni illegittime, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal black-out elettrico).

Responsabilità del sanitario nel caso di concorso tra una causa umana e una causa naturale nella determinazione dell’evento lesivo.

By Pronunce

Ripartizione e graduazione della responsabilità del personale sanitario nella logica dell’apportionment of liability. La sentenza del Tribunale di Terni del 2 luglio 2010.

La vicenda presa in esame dal Tribunale di Terni trae origine dal caso di una paziente che, a seguito di sincope post minzionale, veniva ricoverata presso la divisione di cardiologia dell’Ospedale di Terni e sottoposta a terapia antiaggregante e a diversi esami strumentali tra cui il c.d. SATE. Durante e dopo la sottoposizione a questo esame la stessa paziente era andata più volte in fibrillazione atriale e dopo poche ore veniva colta da ictus cerebrale cardioembolico.

La paziente citava in giudizio l’Azienda Ospedaliera di Terni affermando che l’evento lesivo si era verificato in conseguenza della mancata sottoposizione ad una corretta terapia coagulante e antiaggregante. Il Giudice adito disponeva CTU sulla persona dell’attrice, all’esito della quale veniva rilevato che la percentuale di rischio trombo-embolico riferibile alla paziente era da comprendersi tra il 3 e il 5 % e che la terapia anticoagulante, ove praticata, avrebbe ridotto la probabilità di cardioembolismo post-cardiovesione all’1%. Alla luce delle risultanze della CTU il Tribunale, pur non escludendo che l’attacco ischemico si sarebbe potuto verificare anche in presenza della condotta commissiva dovuta, riteneva l’azienda ospedaliera responsabile nei limiti dell’incremento del rischio imputabile e di conseguenza la condannava a risarcire l’80% del danno subito dall’attrice.

La decisione del Tribunale di Terni offre lo spunto per alcune riflessioni in merito alla tematica relativa al danno da perdita di chance nell’ambito dei giudizi di responsabilità medica (medical malpractice)
La pronuncia in esame, che affronta un non semplice caso di aumento colposo del rischio di complicanza, da un lato ha il pregio di fornire un breve, ma esaustivo, riepilogo dei maggiori orientamenti giurisprudenziali formatisi in tema di responsabilità da malpractice medica, ricordando, anzitutto, come la relazione che si instaura tra medico e paziente dia luogo ad un rapporto di tipo contrattuale, con conseguente obbligo da parte del primo di svolgere l’attività necessaria e utile in relazione al caso concreto e in vista del risultato che, attraverso il mezzo tecnico e professionale, il malato spera di conseguire, dall’altro, tuttavia, si discosta nettamente dall’orientamento giurisprudenziale e dottrinale precedente sotto il profilo  della ripartizione del danno in base al diverso apporto causale che ogni concausa può aver ricoperto nella causazione dell’evento dannoso.
Ed invero la pronuncia sposa i principi generali elaborati in materia di ripartizione dell’onere probatorio e si sofferma sull’accertamento del nesso eziologico, analizzando i vari orientamenti emersi in materia in sede penale e in sede civile.
L’estensore puntualizza come i rigorosi criteri elaborati dalla giurisprudenza penale vengano attenuati in sede di imputazione della responsabilità civile, aderendo alla costruzione per cui nei due giudizi, penale e civile, sarebbe in vigore una diversa regola probatoria, nel senso che mentre nel primo occorre la prova oltre il ragionevole dubbio, nel secondo è sufficiente la preponderanza dell’evidenza o del più probabile che non.
Il Tribunale passati in rassegna i suddetti orientamenti dichiara espressamente di aderire a quello sviluppato recentemente dalle corti civili in materia di prova di esistenza del nesso eziologico
Una volta inquadrati ed esaminati detti principi giuridici, l’organo giudicante si sofferma sulle risultanze della CTU, che ha individuato un concorso di cause alla base del verificarsi dell’evento lesivo.
Tali cause sono rappresentate, da un lato, dalla negligenza del personale sanitario che non ha somministrato alla paziente l’adeguata terapia farmacologica e, dall’altro, dalle precarie condizioni di salute della paziente al momento del ricovero.
Il Tribunale, una volta accertata la presenza di due diverse cause del sinistro in concorso tra loro, attua una graduazione di responsabilità in funzione del rischio circa la produzione del sinistro che può essere attribuita a ciascun antecedente causale, così da circoscrivere il risarcimento in proporzione all’incidenza statistica della condotta del danneggiante.
La decisione elabora un’imputazione articolata della responsabilità. Dopo aver accertato senza margini di dubbio che la causa dell’evento andava individuata in una cardioembolia e dopo aver stabilito con analoga certezza che il controfatto colpevolmente omesso avrebbe ridotto le probabilità di incorrere in complicanze dal 5% all’1%, con un conseguente incremento del rischio cardioembolico pari all’80%, la sentenza indica che non potendosi escludere che la complicanza intervenuta, e dunque il fenomeno ischemico, si sarebbe verificata anche in presenza della condotta commissiva dovuta consistente nella somministrazione di anticoagulante, l’azienda ospedaliera convenuta deve essere ritenuta responsabile esclusivamente nei limiti dell’incremento del rischio imputabile alla negligente condotta omissiva e dunque condannata a risarcire l’80% del valore complessivo del danno.

Sotto quest’ultimo profilo il Tribunale si pone in netto contrasto con l’orientamento giurisprudenziale e dottrinale prevalente in materia di concorso tra cause naturali e cause umane, orientamento in virtù del quale la concausa naturale rileva solo se  idonea ad interrompere il nesso causale tra la condotta umana e l’evento. Secondo il disposto del Tribunale, invece, nell’ambito della responsabilità medica, quando non si può escludere che il danno si sarebbe verificato anche in presenza della condotta commissiva dovuta, l’azienda ospedaliera deve essere ritenuta responsabile esclusivamente nei limiti dell’incremento del rischio.

Così facendo si accoglie una prospettiva diversa da quella del risarcimento da perdita di chance focalizzata solo sulla possibilità di conseguire un risultato positivo così da sfuggire alla logica del “ all or nothing” ( tutto o niente).

La sentenza può essere condivisibile o meno, ma di fatto la logica di apportionment of liability adottata dall’estensore consente di contemperare efficacemente l’interesse del danneggiato ad ottenere un parziale risarcimento anche in ipotesi di causalità incerta e dall’altro l’esigenza del medico di non vedersi costretto a risarcire anche conseguenze dannose riconducibili a fattori causali a lui stesso non direttamente imputabili.

La decisione in esame può esser discussa nella sua impostazione ma è, se non altro, coerente, perché propone la soluzione a monte della liquidazione, non ritenendo evidentemente corretto, seguendo il percorso evidenziato, addossare al debitore della prestazione il danno integrale.

Se un’anziana signora viene aggredita per strada da un cane randagio chi risponde dei danni subiti dalla vittima?

By Pronunce
Il problema della responsabilità dei danni cagionati da animali randagi coinvolge principalmente due aspetti: il primo profilo concerne l’individuazione del soggetto tenuto ex lege a prevenire il fenomeno del randagismo e quindi l’individuazione del soggetto legittimato passivo in sede di risarcimento dei danni, mentre il secondo profilo concerne l’applicazione alla fattispecie del regime di cui all’art. 2043 del c.c. oppure del regime della responsabilità oggettiva di cui all’art. 2052 c.c.
Il proprietario della fauna selvatica, tradizionalmente considerata res nullius, è la Pubblica Amministrazione. Con l’entrata in vigore della Legge  quadro sulla caccia, infatti, gli animali selvatici sono stati considerati beni facenti parte del patrimonio indisponibile dello Stato. Quest’ultimo, in qualità di proprietario, è quindi chiamato a rispondere dei danni cagionati dagli animali selvatici e randagi.
Si è allora aperto un complesso dibattito in ordine alla necessità di  indagare i profili concernenti i rapporti tra A.s.l. e Comune, al fine di identificare il soggetto tenuto a risarcire i danni cagionati da un animale randagio.
L’orientamento maggioritario ritiene che il debole legame che ancora oggi sussiste tra A.s.l. e Comune non possa fondare la legittimazione passiva del Comune. Le funzioni organizzative espletate dal Sindaco non consentirebbero di ritenere il Comune solidalmente responsabile con l’A.s.l.: solo quest’ultima può essere chiamata a rispondere dei danni causati da un animale randagio, a fronte della mancata adozione di azioni finalizzate alla prevenzione del randagismo.
Quanto alla natura della responsabilità della P.A. sussistono diversi orientamenti.
Il primo orientamento inquadra la responsabilità dell’ente alla stregua dei principi generali della responsabilità aquiliana: i danni causati da animale randagio ricadono sulla P.A. secondo il generale regime di responsabilità ex art. 2043 c.c. Del tutto scorretto sarebbe, dunque, il richiamo all’art. 2052 c.c., poiché mancherebbe, nel caso di specie, la disponibilità giuridica e di fatto collegata al potere di controllo.
Un secondo orientamento ritiene, invece, che il vero fondamento dell’art. 2052 c.c. andrebbe individuato nella creazione di un rischio collegato alla percezione di un’utilità, rappresentata, nel caso della fauna selvatica, dalla protezione della fauna stessa. La P.A. appare, dunque, l’unico soggetto capace di incidere effettivamente sul verificarsi del rischio di danno adottando misure preventive volte alla minimizzazione dei costi sociali.
Attualmente l’operatività del regime di responsabilità oggettiva pare la soluzione maggiormente condivisibile.
Con la recente sentenza n. 10190, 8 aprile 2010 (che di seguito viene sinteticamente riportata) la Suprema Corte di Cassazione Civile, Sez. III, in merito alla questione della risarcibilità dei danni prodotti da animali randagi, ha aderito all’orientamento minoritario, affermando la responsabilità del Comune per i danni subiti da una donna morsa da un cane randagio.
Il Comune non ha provveduto alla “vigilanza del territorio, alla custodia ed al mantenimento dei cani randagi”: a parere della Corte  tale condotta omissiva integra il necessario antecedente causale dell’evento dannoso.
Quanto alla natura della responsabilità della P.A. la Corte non affronta il tema, rinviando la Causa alla Corte d’Appello affinché venga decisa nel merito.
Con sentenza n.  10190,  Cassazione Civile, Sez. III , 8 aprile 2010 –  è stato statuito che “Va cassata la pronuncia di merito con cui è stata negata la responsabilità del Comune per i danni subiti da una persona anziana a seguito dell’aggressione di un cane randagio lungo una via comunale, violando le norme che impongono ai comuni di assumere provvedimenti per evitare che gli animali randagi arrechino disturbo alle persone e ritenendo erroneamente che la tarda età della vittima e la piccola taglia del cane valessero a porre a carico della danneggiata l’intera responsabilità dell’incidente … A norma della legge-quadro 14 agosto 1991 n. 281, e delle singole leggi regionali di recepimento, sui comuni grava l’obbligo di assumere i provvedimenti necessari affinché gli animali randagi non arrechino disturbo alle persone nelle vie cittadine; pertanto, una volta accertata l’indebita presenza di un cane randagio lungo una strada comunale, il Comune risponde dei danni che tale animale abbia cagionato, con il proprio comportamento aggressivo, nei confronti di un passante, indipendentemente dal fatto che la vittima, in ragione della propria età avanzata, abbia tenuto un comportamento caratterizzato da particolare debolezza e sensibilità
Per la cronaca, nel caso in esame, un’anziana Signora aveva subito un’aggressione da parte di un cane randagio lungo una via comunale.
In primo grado il Giudice di Santa Maria Capua Vetere  aveva condannato il Comune convenuto al risarcimento dei danni subiti dalla donna, che, in seguito alla caduta dovuta all’aggressione dell’animale si era fratturata un ginocchio.
Tuttavia la pronuncia del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere  era stata completamente riformata dalla Corte di Appello di Napoli, secondo la quale al Comune non era imputabile alcuna responsabilità per non avere adottato misure idonee a prevenire la lotta contro il randagismo.
La rottura del femore, secondo l’organo di secondo grado, sarebbe stata causata dal timore della donna di essere aggredita e non dall’aggressione canina.
Secondo la Cassazione la Corte di Appello, escludendo la responsabilità del Comune, è incorsa nella violazione delle norme di legge sul randagismo, che impongono ai Comuni di assumere provvedimenti per evitare che gli animali randagi arrechino disturbo alle persone, nelle vie cittadine; tale violazione, inoltre, risulta aggravata dalla circostanza che vi erano state diverse segnalazioni della presenza dell’animale randagio, da parte della cittadinanza.
La Corte ha poi negato la responsabilità del Comune con motivazione intrinsecamente illogica ed antigiuridica, nella parte in cui ha ritenuto che la tarda età della vittima e la piccola taglia del cane valessero a porre a carico della danneggiata l’intera responsabilità dell’incidente.
Sussistendo l’illecito, cioè l’indebita presenza sulla strada del cane randagio, la peculiare debolezza e sensibilità della vittima che – in base alla ricostruzione dei fatti che si legge nella sentenza impugnata – si è spaventata ed è caduta, per il timore di essere morsa dall’animale che le abbaiava contro, manifestando intenzioni aggressive, non rende il danno meno grave ed ingiusto.
Anche le persone anziane debbono poter circolare sul territorio pubblico, senza essere esposte a situazioni di pericolo, ed in particolare a quelle che l’ente pubblico è espressamente obbligato a prevenire, quali il randagismo.
Né l’eventuale debolezza o lo scarso controllo dei propri movimenti da parte della vittima valgono di per sé ad escludere il nesso causale fra l’illecito e il danno, salvo che si dimostri che tali condizioni fossero di tale gravità da potersi considerare sufficienti da sole a produrre l’evento (artt. 40 e 41 cod. pen., su cui cfr. Cass. civ., Sez. 3^, 10 ottobre 2008 n. 25028 e 4 gennaio 2010 n. 4, fra le altre).

Danno tanatologico. Va ricondotta nella dimensione del danno morale la sofferenza patita dalla vittima che sia rimasta lucida in consapevole attesa della propria fine. Il relativo diritto al risarcimento è trasmissibile agli eredi iure sucessionis.

By Pronunce
Tradizionalmente, per i giudici italiani, la perdita del bene primario (per ogni individuo) della vita, in quanto strettamente connessa alla vittima, non è meritevole di essere risarcito quando il suo titolare muore. L’evento mortale non è suscettibile di risarcimento “per mancanza del soggetto che dell’utilità sostitutiva del bene perduto possa giovarsi” (Cass. 25 Febbraio 1997, n.1704).
In Lettere a Meteco di Epicuro si legge: “…quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte non ci siamo più noi. La morte quindi è nulla, per i vivi come per i morti: perché per i vivi essa non c’è ancora, mentre per quanto riguarda i morti, sono essi stessi a non esserci
Ciò ha portato all’assurdo paradosso che il danneggiante che uccide viene “graziato” mentre paga se ferisce!!!
Si è allora aperto un complesso dibattito in ordine alla pretesa risarcitoria che potrebbe essere avanzata dagli eredi della vittima per il pregiudizio subito dal loro congiunto nella fase compresa fra l’evento e la morte. Più precisamente quella fase di agonia in cui il malcapitato attende la propria fine.
Infatti, l’orientamento tradizionale ha sempre fermamente negato ipotesi di risarcimento di sorta in caso di morte immediata. Esempio in Cassazione 30.10.1998 n.10896 “…in caso di morte immediata gli eredi non acquistano alcun diritto al risarcimento del danno (alla vita) sofferto dal proprio dante causa: perché la morte determina l’assoluta incapacità, da parte del defunto, a disporre di ogni diritto”.
Invece ha lasciato aperto uno spiraglio al dibattito nelle ipotesi in cui intercorra un congruo o apprezzabile lasso di tempo fra l’evento dannoso e il decesso tanto da far maturare un danno che poi cada in successione. Se, in altri termini, sopravvive all’evento dannoso, il danneggiato in quanto soggetto ancora fornito di capacità giuridica ha diritto al ristoro del danno e per logica implicazione lo stesso danno può trasferirsi poi, dopo la morte, per via derivata agli eredi.
La recente sentenza (che di seguito viene sinteticamente riportata) lungi dal riconoscere il danno da perdita della vita in sé, riconduce il c.d. danno tanatologico o da morte immediata alla dimensione del danno morale “sofferenza della vittima che lucidamente assiste allo spegnersi della propria vita”.
Infatti, con sentenza n. 8360, Cassazione Civile, Sez. III, 8 aprile 2010 –  ha deciso che “…in ordine al  c.d. danno tanatologico, si deve tenere conto, nel quantificare la somma dovuta in risarcimento dei danni morali, anche della sofferenza psichica subita dalla vittima di lesioni fisiche alle quali sia seguito dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l’agonia, in consapevole attesa della fine”…”Il giudice deve cioè personalizzare la liquidazione dell’unica somma dovuta in risarcimento dei danni morali, tenendo conto anche del c.d. tanatologico, ove i danneggiati ne facciano specifica e motivata richiesta e le circostanze del caso concreto ne giustifichino la rilevanza.
Nella specie la Corte di Appello, in contrasto con i suddetti principi, ha del tutto negato ai ricorrenti il risarcimento, a titolo ereditario, dei danni morali subiti dalla vittima, a causa delle gravi sofferenze che hanno preceduto la morte.
La somma liquidata in risarcimento dei danni morali risulta infatti quantificata con esclusivo riferimento al compenso spettante ai superstiti per i danni morali subiti iure proprio, a causa della perdita del rapporto parentale”.
Per la cronaca, nel caso in esame, è stato liquidato agli eredi un risarcimento di € 90.000,00  per il danno sofferto dalla vittima nell’arco di mezz’ora in cui è rimasta lucida durante l’agonia in attesa della fine.
In conclusione, l’avverbio “anche” non accompagnato da nessuna valutazione in ordine ad altre poste di danno e l’entità del risarcimento farebbero pensare più che ad un danno da morte ad un danno da agonia.
Nel senso della risarcibilità del danno tanatologico (tesi prevalente), si veda Cassazione Civile 13672/2010 (<<la brevità del periodo di sopravvivenza alle lesioni, se esclude l’apprezzabilità ai fini risarcitori del deterioramento della qualità della vita in ragione del pregiudizio della salute, ostando alla configurabilità di un danno biologico risarcibile, non esclude viceversa che la vittima abbia potuto percepire le conseguenze catastrofiche delle lesioni subite e patire sofferenza, il diritto al cui risarcimento, sotto il profilo del danno morale, risulta pertanto già entrato a far parte del suo patrimonio al momento della morte, e può essere conseguentemente fatto valere “iure hereditatis”>>) e Cassazione Civile, SS.UU., 2672/2008.
Sull’argomento, da ultimo, si registra la pronuncia n. 1072 del 18.01.2011 della  Cassazione Civile sezione lavoro, secondo la quale: “In caso di lesione che abbia portato a breve distanza di tempo ad esito letale, sussiste in capo alla vittima che abbia percepito lucidamente l’approssimarsi della morte, un danno biologico di natura psichica, la cui entità non dipende dalla durata dell’intervallo tra lesione e morte, bensì dall’intensità della sofferenza provata dalla vittima dell’illecito ed il cui risarcimento può essere reclamato dagli eredi della vittima.
Invero il danno biologico, consistente nel danno non patrimoniale da lesione della salute, costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi alla salute concretamente patiti dal soggetto, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici. Ne consegue che è inammissibile, perché costituisce una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione al soggetto del risarcimento sia per il danno biologico,  inteso per come detto quale danno alla salute, che per il danno  morale, inteso, quale intensa sofferenza psichica”.
Come si può notare facilmente, quello che abbiamo definito danno “da agonia”, in quest’ultima pronuncia, viene fatto rientrare nella categoria del “danno biologico di natura psichica”, diversamente dalle altre sentenze in commento laddove lo si definisce un “danno morale”.
Al di la dell’inquadramento nell’una o nell’altra categoria di danno non patrimoniale, i Supremi Giudici, in ogni caso, tendono sempre a precisare che bisogna non cadere nell’errore di duplicare il risarcimento “attraverso l’attribuzione di nomi diversi e pregiudizi identici”.
Che lo si chiami danno biologico (inteso come danno  alla salute) o danno morale (inteso come sofferenza interiore), questo danno costituisce un’unica posta di risarcimento che può essere trasmesso agli eredi della vittima.

Incidente stradale causato dalla fauna selvatica: fenomeno in continuo aumento.

By Pronunce
L’art. 2052 del Codice Civile così recita: “Il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni cagionati dall’animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito salvo che provi il caso fortuito”.
Per il Supremo Collegio questo articolo che prevede una presunzione di responsabilità non si applicherebbe al caso del cinghiale finito contro un’automobile. Vediamo perché…
Per consolidata giurisprudenza: “il danno cagionato dalla fauna selvatica, che ai sensi della L.27 dicembre 1977, n. 968, appartiene alla categoria dei beni patrimoniali indisponibili dello Stato, non è risarcibile in base alla presunzione stabilita nell’art. 2052 c.c. (05/24895), inapplicabile con riguardo alla selvaggina, il cui stato di libertà è incompatibile con un qualsiasi obbligo di custodia da parte della P.A., ma solamente alla stregua dei principi generali della responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c., anche in tema di onere della prova, e perciò richiede l’individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all’ente pubblico (06/7080; 03/10008; 00/1638)
Il caso in commento riguarda lo scontro tra un’automobile e un cinghiale avvenuto su una strada provinciale umbra.
L’automobile aveva riportato danni preventivati in € 4.000,00 circa, mentre il cinghiale dopo lo scontro si era dileguato e quindi non era dato sapere i danni dallo stesso riportati.
Il proprietario del veicolo citava in giudizio la Regione Umbria davanti al Giudice di Pace competente.
La scelta di citare la Regione, sebbene il sinistro fosse avvenuto su strada provinciale, veniva giustificata da una generalizzata tendenza della giurisprudenza di merito ad addossare alle regioni la responsabilità per i danni di questo tipo. Ad ogni modo, il giudice accoglieva la domanda del proprietario del veicolo danneggiato. Il Tribunale, in appello, assolveva invece la Regione.
Si finisce così in Cassazione.
Con sent. n 5202 del 04 marzo 2010 la Suprema Corte di Cassazione ha deciso che “in tema di responsabilità extracontrattuale il danno cagionato dalla fauna selvatica ai veicoli in circolazione non è risarcibile in base alla presunzione stabilita dall’art. 2052c.c., inapplicabile alla selvaggina, il cui stato di libertà è incompatibile con un qualsiasi obbligo di custodia da parte della P.A., ma soltanto alla stregua dei principi generali sanciti dall’art. 2043 c.c., e tanto anche in tema di onere della prova con la conseguente necessaria individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all’ente pubblico.
Ciò detto, certo che nella specie il giudice di appello, con un accertamento di fatto insindacabile in questa sede, ha escluso che la attrice L. abbia dato la prova che la Regione ha posto in essere una condotta causativa del danno patito dalla stessa attrice (certo essendo, da un lato, che non era stata fornita alcuna prova dell’eccessivo incremento e ripopolamento di animali selvatici imputabile alla Regione, dall’altro, che la Regione, non essendo l’ente preposto alla gestione della strada sulla quale si è verificato l’incidente non aveva alcun obbligo di apporre segnaletica idonea a indicare una situazione di pericolo per la sicurezza della circolazione; che giusta la stessa prospettazione dell’attrice l’incidente si sarebbe verificato anche in presenza di adeguata segnalazione: certo essendo che il cinghiale aveva attraverso la strada secondo gli stessi assunti dell’attrice repentinamente e inaspettatamente), è palese che correttamente il tribunale ha rigettato la domanda risarcitoria proposta dalla L.

DEMANSIONAMENTO. Prova e Liquidazione del danno non patrimoniale da contratto di lavoro. La sentenza Cassazione Civile n. 4063 del 22 Febbraio 2010 e la sentenza Cassazione Civile n. 12318 del 19 Maggio 2010

By Pronunce
Le due pronunce citate in epigrafe, pur avendo ad oggetto vicende completamente differenti, affrontano alcuni profili comuni in tema di risarcimento del danno da contratto, ovvero il problema della prova del danno e dell’individuazione dei criteri per la sua liquidazione.
In particolare la sentenza del Supremo Organo n. 4063 del 22 Febbraio 2010 ha statuito che: “Accertato il demansionamento professionale del lavoratore, il relativo danno può essere desunto in base ad una valutazione presuntiva con riferimento alle concrete circostanze della operata dequalificazione, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, frustrazione professionale) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo riferimento a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove. Il danno non patrimoniale è configurabile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato in modo grave i diritti oggetto di tutela costituzionale, che dovranno essere individuati caso per caso, distinguendo i meri pregiudizi dai danni risarcibili.
Mentre la sentenza della Corte di Cassazione n. 12318 del 15 Maggio 2010 ha statuito che: “la valutazione equitativa del danno, in quanto inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimatività, è suscettibile di rilievi in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio della motivazione, solo se difetti totalmente la giustificazione che quella statuizione sorregge, o macroscopicamente si discosti dai dati di comune esperienza, o sia radicalmente contraddittoria
Nello stesso senso, peraltro si è espressa anche la sentenza n. 13281  31 maggio 2010, con la quale sempre in tema di mansioni inferiori, è stato stabilito che: “in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo, mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psicofisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale – da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva e interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno – va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità ecc.) – il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico – si possa coerentemente risalire dal fatto noto al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove. Il danno non patrimoniale è configurabile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato in modo grave i diritti oggetto di tutela costituzionale, che dovranno essere individuati caso per caso, distinguendo i meri pregiudizi dai danni risarcibili.”
Per meglio comprendere le statuizioni della Suprema Corte ecco succintamente quanto accaduto nelle fattispecie giunte al vaglio dell’Organo Giudicante.
La vicenda da cui è scaturita la pronuncia  n. 4063 del 22 Febbraio 2010 riguarda un dipendente pubblico del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale che, inquadrato nella sesta qualifica funzionale in qualità di assistente amministrativo, a seguito di ordine di servizio del direttore dell’Ufficio del Lavoro aveva assunto le funzioni vicarie, con poteri di coordinamento e di firma, della direttrice responsabile della sezione circoscrizionale, e per il protrarsi dell’assenza della titolare e aveva retto venendo anche nominato “reggente ad interim”. Al dipendente era stata affidata, inoltre, la responsabilità di collaborare con il consegnatario dell’Ufficio Provinciale nella custodia e manutenzione del patrimonio mobiliare degli uffici; era stato poi successivamente trasferito all’Ufficio Provinciale, dove, però, era stato costretto ad una quasi totale inattività e al disimpegno di compiti mortificanti (addetto alle informazioni generali sulle competenze della Direzione Provinciale, addetto al protocollo della corrispondenza), tanto da essere colpito da vari disturbi di natura psico-somatica che lo avevano indotto, infine, al pensionamento. Il dipendente agiva in giudizio domandando la condanna del Ministero al pagamento delle differenze retributive per lo svolgimento delle mansioni superiori e il risarcimento del danno professionale, biologico ed esistenziale “da mobbing” in conseguenza del successivo demansionamento.
Il Tribunale di Siena, con sentenza del 13 dicembre 2002, accoglieva la domanda e condannava l’Amministrazione al pagamento di Euro 2.265,18 per differenze retributive correlate alle mansioni superiori ed Euro 17.000 per danni conseguenti al demansionamento.
Tuttavia tale decisione veniva parzialmente riformata dalla Corte d’appello di Firenze, che, con sentenza del 1 luglio 2005, depositata il 2 settembre 2005, dichiarava il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in relazione alla domanda di differenze retributive e condannava il Ministero alle sole differenze relative al periodo successivo, nonché al risarcimento del danno patrimoniale, liquidato in Euro 1.000,00, e del danno non patrimoniale, liquidato in Euro 3.000,00, in relazione al demansionamento.
La Suprema Corte di Cassazione investita della questione, come sopra già anticipato, chiariva alcuni aspetti fondamentali e determinanti in tema di prova del danno e di individuazione dei criteri per la sua liquidazione.
  • Innanzitutto statuiva che ove il pubblico dipendente proponga, nei confronti dell’amministrazione datrice di lavoro, domanda di risarcimento danni per lesione dell’integrità psico – fisica, non rileva, ai fini dell’accertamento della natura giuridica dell’azione di responsabilità proposta, la qualificazione formale data dal danneggiato in termini di responsabilità contrattuale o extracontrattuale, ovvero mediante il richiamo di norme di legge (art. 2043 c.c. e ss., art. 2087 c.c.), indizi di per sé non decisivi, essendo necessario considerare i tratti propri dell’elemento materiale dell’illecito posto a base della pretesa risarcitoria, onde stabilire se sia stata denunciata una condotta dell’amministrazione la cui idoneità lesiva possa esplicarsi, indifferentemente, nei confronti della generalità dei cittadini e nei confronti dei propri dipendenti, costituendo, in tal caso, il rapporto di lavoro mera occasione dell’evento dannoso.
  • Asseriva che l’esistenza del demansionamento era stata accertata dai giudici di merito in base ad una ricostruzione puntuale dei compiti affidati al dipendente dopo la sua assegnazione alla sede della direzione provinciale sino alla cessazione del rapporto per pensionamento, con la descrizione dettagliata delle mansioni svolte nei diversi periodi e di quelle corrispondenti alla sua qualifica; alla stregua di tale accertamento, la complessiva valutazione di “sostanziale privazione di mansioni” non è per niente incoerente con il riconoscimento che per un limitato periodo il lavoratore abbia svolto “un’attività consona alla (sua) professionalità”.
  • L’Organo Supremo statuiva, poi, che una volta accertato il demansionamento professionale del lavoratore, il giudice del merito aveva correttamente desunto l’esistenza del relativo danno in base ad una valutazione presuntiva, riferendosi alle circostanze concrete della operata dequalificazione; e ciò è conforme al principio enunciato da questa Corte secondo cui il danno conseguente al demansionamento va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, frustrazione professionale) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove (cfr. Cass., sez. un. n. 6572 del 2006Cass. n. 29832 del 2008n. 28274 del 2008).
  • Con riguardo, in particolare, al danno non patrimoniale, l’Organo Supremo chiariva che  esso è stato coerentemente individuato dai giudici di merito, occorrendo rilevare che nella disciplina del rapporto di lavoro, ove numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona del lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, il danno non patrimoniale è configurabile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, tali diritti: questi, non essendo regolati ex ante da norme di legge, per essere suscettibili di tutela risarcitoria dovranno essere individuati, caso per caso, dal giudice del merito, il quale, senza duplicare il risarcimento (con l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici), dovrà discriminare i meri pregiudizi – concretizzatisi in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili – dai danni che vanno risarciti (cfr. Cass. n. 10864 del 2009). Nella specie, il danno risarcibile è stato esattamente identificato negli “aspetti di vissuta e credibile mortificazione derivanti al ricorrente dalla situazione lavorativa in cui si trovò ad operare”, secondo una valutazione che si fonda sull’accertamento del nesso causale tra la condotta illecita datoriale e lo stato di mortificazione del lavoratore.
La vicenda da cui è scaturita, invece, la pronuncia n. 12318 del 19 maggio 2010 riguarda  un caso di molestie sessuali ai danni di una lavoratrice a cui i giudici di merito hanno  riconosciuto il risarcimento del danno biologico, morale ed esistenziale. La Corte d’appello di Torino, in parziale riforma della decisione non definitiva del Tribunale della medesima città,  condannava la S.p.A. datrice di lavoro, con sentenza depositata il 17 luglio 2006 e notificata il 6 settembre successivo, a pagare alla propria ex dipendente la somma di Euro 30.150,00, oltre accessori, a titolo di danni biologico, morale ed esistenziale da quest’ultima riportati a seguito delle molestie sessuali subite dal legale rappresentante della società.
Con ricorso, affidato a cinque motivi la società chiedeva la cassazione di tale sentenza e la lavoratrice resisteva alle domande della società con rituale controricorso.
La Suprema Corte di Cassazione investita della questione chiariva, ancora una volta alcuni punti fondamentali e determinanti in tema di risarcimento del danno non patrimoniale da contratto di lavoro.
  • Preliminarmente rilevava che la sentenza impugnata si sottraeva alle censure svolte con i motivi in esame, avendo provveduto ad esaminare le risultanze in giudizio, a partire dalle dichiarazioni rese dalla originaria ricorrente in sede di risposta all’interrogatorio, ritenute attendibili anche e soprattutto alla stregua dei riscontri probatori costituiti da testimonianze che avevano riferito di ripetuti comportamenti di molestie sessuali posti in essere dal datore di lavoro nei confronti di altre lavoratrici, valutati come univocamente significativi della veridicità delle denuncie della dipendente (così correttamente utilizzando, come prove, presunzioni semplici, risalendo da fatti noti ad un fatto ignoto da provare, come consentito dall’art. 2727 c.c. e segg. e non, come dedotto dalla ricorrente, mere presumptiones de presunto).
  • La Corte Suprema precisava poi che anche i criteri adottati dal Tribunale di Torino in materia di liquidazione del danno non patrimoniale e richiamati dalla ricorrente per censurarne la mancata utilizzazione da parte della Corte territoriale costituivano e non possono non costituire espressione di un giudizio equitativo, e ad essi la difesa della lavoratrice aveva fatto riferimento, col valutarne opportuna l’adozione, non in assoluto, ma partendo dalla considerazione di un danno c.d. biologico di rilevante consistenza (e quindi formulando richieste risarcitorie ben più elevate di quelle determinate dai giudici), senza quindi vincolarsi ad essi in ogni casoDi conseguenza correttamente la Corte territoriale, accertando la lievità del danno biologico ma anche la particolare gravità ed odiosità del comportamento lesivo e quindi la sua notevole capacità di offendere i beni personali costituzionalmente protetti indicati come lesi dalla lavoratrice, aveva proceduto ad una liquidazione equitativa del danno non patrimoniale sulla base di criteri diversi, che alludono esplicitamente, in particolare, per ciò che riguarda il cd. danno morale da reato, alla menzionata odiosità della condotta lesiva, indotta soprattutto dallo stato di soggezione economica della vittima e per la parte concernente il c.d. danno esistenziale, al clima di intimidazione creato nell’ambiente lavorativo dal comportamento del datore di lavoro e al peggioramento delle relazioni interne al nucleo familiare della lavoratrice in conseguenza di esso.
  • Infine l’Organo Supremo precisava che, secondo la recente giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal collegio (Cass. 26 gennaio 2010 n. 1529), la valutazione equitativa del danno, in quanto inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimatività, e’ suscettibile di rilievi in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio della motivazione, solo se difetti totalmente la giustificazione che quella statuizione sorregge, o macroscopicamente si discosti dai dati di comune esperienza, o sia radicalmente contraddittoria.
In sintesi con le sopra menzionate sentenze è stato confermato l’orientamento varato dalle Sezioni Unite del marzo 2006 e ripreso da sentenze del 2008: LA CONDOTTA LESIVA DEL DATORE DI LAVORO CHE SIA RICONDUCIBILE AL RAPPORTO DI IMPIEGO ED AGLI SPECIFICI OBBLIGHI DI PROTEZIONE DEI LAVORATORI E’ ANCORATA ALL’ART. 2087 C.C., SENZA NECESSITA’ DI RICORSO NE’ ALL’ART. 1223 NE’ ALL’ART. 2059 C.C.. Nei casi che possiamo ricondurre ad occasione di lavoro “LA RESPONSBILITA’ HA NATURA CONTRATTUALE CONSEGUENDO L’INGIUSTIZIA DEL DANNO ALLE VIOLAZIONI DI TALUNA DELLE SITUAZIONI GIURIDICHE IN CUI IL RAPPORTO DI LAVORO SI ARTICOLA E SOSTANZIANDOSI LA CONDOTTA LESIVA NELLE SPECIFICHE MODALITA’ DI GESTIONE DEL RAPPORTO”.
Le norme cui ancorare la tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore e la dignità dello stesso vengono poi rinvenute nella Costituzione che funge da filtro per discriminare i meri pregiudizi dai danni che vanno risarciti.
Uno dei passaggi più interessanti della sentenza n. 4063 del 22.02.2010 riguarda poi l’aspetto della prova del danno e della c.d teoria “danno-conseguenza”: la prova per presunzioni permette di risalire, con prudente apprezzamento, dal fatto noto (demansionamento) al fatto ignoto (danno), facendo ricorso alle nozioni generali derivanti dall’esperienza. Ciò comporta la necessità di provare non solo il nesso eziologico tra fatto illecito e pregiudizio lamentato ma anche, seppur a seguito di presunzioni, l’esistenza del danno.
La sentenza n. 12318 del 19 maggio 2010, ha dedicato ampio spazio ai criteri di liquidazione del danno ammettendo la legittimità del criterio della liquidazione equitativa del danno biologico purché il risarcimento sia “personalizzato” ossia purché si valuti il caso concreto e la reale entità del danno. Infatti secondo la Cassazione tale liquidazione “può essere effettuata dal giudice sulla base di criteri standardizzati e predeterminati, assumendosi come parametro il valore medio per punto, calcolato sulla media dei precedenti in virtù delle c.d. “tabelle” in essere presso l’Ufficio giudiziario, sempre che il risultato in tal modo raggiunto venga poi “personalizzato” tenendo conto della particolarità del caso concreto e della reale entità del danno.