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Pronunce

Il danneggiato rivoltosi a istituti privati per prestazioni coperte dal S.S.N. perde in tutto o in parte il diritto al risarcimento per i relativi costi? Sulla querelle è tornata la Suprema Corte di Cassazione

By Pronunce

Recentemente la Corte di legittimità, con la sentenza Cass. Civ, Sez. III, 23.10.2023, n. 29308, si è espressa sul tema della risarcibilità dei costi (o dei maggiori costi) sostenuti dal danneggiato che, pur potendo beneficiare delle prestazioni gratuite o convenzionate fornite dal S.S.N., ha preferito rivolgersi a soggetti in regime privatistico.

Secondo taluna dottrina e giurisprudenza tale atteggiamento costituirebbe a tutti gli effetti un ‘aggravamento del danno’: nella misura in cui il danneggiato avrebbe potuto evitare di aggravare il pregiudizio, rivolgendosi per l’appunto al regime convenzionato di tipo pubblico, costui deve ritenersi unico responsabile di tali conseguenze dannose, e, d’effetto, unico tenuto a subirne i relativi costi. Secondo invece una interpretazione di opposto avviso, la condotta del danneggiato non costituirebbe in tal senso un fatto imputabile alla stregua di un comportamento contrario all’ordinaria diligenza, e pertanto costui potrebbe liberamente rivolgersi indistintamente a enti pubblici, convenzionati o privati, purché idonei e ferma rigorosa prova degli esborsi concretamente sostenuti.

Ebbene, con l’arresto in commento la Suprema Corte conferma di propendere per il secondo degli esposti orientamenti, riconoscendo la risarcibilità di tali spese contratte dal danneggiato per attività resa in regime non convenzionato.

Nel caso specifico al vaglio della Corte di Cassazione il danneggiato – vittima di un sinistro stradale – censurava la sentenza della Corte di Appello di Milano per aver confermato la liquidazione delle spese mediche, già disposta dal Tribunale del capoluogo lombardo, pari al minor importo di € 10.634,74: decisione assunta avendo riguardo non al costo effettivo delle prestazioni terapeutiche e riabilitative fruite presso le strutture private, bensì al minore esborso che costui avrebbe potuto affrontare se si fosse indirizzato verso strutture pubbliche e/o convenzionate. Contestava di essere invece legittimato a rivolgersi a soggetti distinti da quelli pubblici, trattandosi di una “scelta personale quella di affidarsi ad un servizio privato piuttosto che al SSN”.

La Corte nomofilattica ha accolto il motivo di doglianza del ricorrente danneggiato, affermando che “l’obbligo di rivolgersi a struttura sanitaria pubblica anziché privata risulta invero privo di base normativa e logica (…) ai sensi dell’art. 1227 c.c. … La sentenza impugnata, pertanto, merita censura, nella parte in cui istituisce una sorta di automatismo – in relazione alla domanda di rimborso delle spese mediche – tra la scelta di rivolgersi a una struttura sanitaria privata e l’applicazione dell’art. 1227 c.c.”.

In effetti, nei suoi due commit la norma citata delegittima l’atteggiamento del danneggiato, che, rispettivamente, concorre a cagionare il danno oppure non ne impedisce l’aggravamento, solo qualora questo risulti il frutto, nel primo caso, di un comportamento colposo, e, nel secondo, di una condotta contraria all’ordinaria diligenza. D’effetto, anche volendo qualificare a titolo di lucro cessante il danno patrimoniale emergente dalla scelta del danneggiato, parrebbe comunque arduo additare tale decisione come una condotta contraria alla diligenza o, fin, come colposa. Anche se, viceversa, appare vero che in linea teorica non possa escludersi come, oltre certi limiti, un atteggiamento di sprezzante disattenzione verso i riverberi economici delle proprie scelte potrebbe anche integrare tale fattispecie. E in questo senso ad avviso dello scrivente l’assunto di matrice giurisprudenziale deve porsi come un principio generale e astratto che, dovendo sempre essere calato nel caso specifico, potrebbe anche trovare smentita all’esito delle risultanze del singolo caso.

Ad ogni modo, già in tempi passati la Suprema Corte di Cassazione si era espressa sul punto, con arresti a ben vedere sovrapponibili – anche se non sempre lineari – rispetto a quello in commento, e peraltro arrivando a estendere la legittimità di tali pretese risarcitorie fin alle spese sostenute presso strutture estere (Ex multis, Cass. Civ., Sez. III, 15.09.2023, n. 26641, Cass. Civ., Sez. VI, 13.12.2021, n. 39504, Cass. Civ. Sez. III, 28.02.2019, n. 5801 e Cass. Civ., Sez. III, 27.10.2015, n. 21782). E d’altronde, tali decisioni paiono mescolarsi coerentemente anche con i recenti approdi della Giustizia amministrativa (leggasi Consiglio di Stato, Sez. III, 26.04.2023, n. 4191), ove di recente è stato riaffermato il principio di libertà dell’utente nella scelta della struttura di fiducia per l’assistenza sanitaria, riconoscendosi la qualità di erogatori delle prestazioni sanitarie a tutti i soggetti, pubblici e privati, titolari di rapporti “fondati sul criterio dell’accreditamento delle istituzioni, sulla modalità di pagamento a prestazione e sull’adozione del sistema di verifica e revisione della qualità delle attività svolte e delle prestazioni erogate”, così come scaturente dalla riforma del S.S.N. di cui al D.Lgs 30.12.92 n. 502.

La pronuncia in commento della Sezione III della Suprema Corte, pertanto, costituisce un nuovo e importante tassello per tale orientamento perseguito dal Giudice delle leggi (a cui si oppongono ad esempio Cass. Civ, Sez. III, 29.04.2015, n. 8693, oppure, nel merito, Trib. Patti, Sez. I, 12.01.2021, n. 18, Trib. Novara, 07.01.2019, n. 24, C.d.A. Roma, Sez. III, 30.05.2018, n. 3653), che si candida, quindi, a maggioritario, trovando in questa sentenza una fonte di consolidamento.

Coniuge infedele non ottiene il risarcimento a seguito del decesso della moglie poiché il tradimento viene ritenuto indice di un rapporto matrimoniale ormai deteriorato e, dunque, insussistente

By Pronunce

Tra le pronunce della Suprema Corte dell’ultimo anno, con la sentenza Cass. civ., sez. III, 11.12.2018, n. 31950, Pres. Dott. Travaglino, relatore Dott. Cigna, si è colta l’occasione per ribadire quale sia la corretta applicazione del principio dell’onere della prova con riferimento, questa volta, al danno cosiddetto “parentale” o “da rimbalzo”, ossia il danno iure proprio subito dallo stretto congiunto di una vittima (o di una persona rimasta macro-lesa) che ha visto ingiustamente reciso il proprio rapporto affettivo con la stessa intercorrente.

Con pronuncia del 27.04.2016 (in parziale riforma della sentenza di primo grado del Tribunale di Matera) la Corte d’Appello di Potenza aveva deciso in merito ad un sinistro stradale nel quale aveva perso la vita la Sig.ra M.L., madre di famiglia.

Le parti coinvolte nel processo erano – da un lato – il marito, il padre, i fratelli e i figli della signora deceduta, che avevano agito in giudizio chiedendo il risarcimento del danno iure proprio e cadauno subito per la perdita dell’amato parente, e – dall’altro, quale controparte – una nota compagnia assicurativa designata a costituirsi per tutelare il Fondo di garanzia per le Vittime della Strada (essendo sprovvisto di assicurazione l’altro veicolo coinvolto nel sinistro).

All’esito dei primi due gradi di giudizio i Giudici del merito avevano individuato una responsabilità dell’altro veicolo coinvolto nel sinistro, nonché un collegamento eziologico tra questa e l’exitus della donna. Così, una volta configurata astrattamente la potenziale risarcibilità di danni comportati ai parenti, il Tribunale di Matera, prima, e la Corte di Appello di Potenza, poi, avevano proceduto ad approfondire uno ad uno ogni singolo rapporto inter-familiare, con l’intento di scrutarne l’effettiva entità, e soppesare, di conseguenza, il reale pregiudizio subito da ciascun parente.

E qui, però, la “sorpresa”.

All’esito di tale valutazione, infatti, mentre il padre, i figli ed i fratelli della vittima avevano visto riconosciuto il loro forte legame affettivo intercorrente con la donna, e quindi si erano visti accogliere le loro domande risarcitorie, il marito della stessa, invece, non era riuscito nel medesimo intento. Il Tribunale e la Corte basilicatesi, difatti, avevano rigettato la sua richiesta in virtù della ritenuta assenza (rectius, della mancanza di prova) di un forte e vivo sentimento amoroso, constatata sulla base dell’elemento fattuale – pacifico nel processo – della relazione extraconiugale che lo stesso intratteneva da tempo con un’altra donna, e dalla quale era nato anche un figlio giusto tre mesi prima della morte della moglie.

Avverso detta sentenza proponeva ricorso per Cassazione il coniuge fedifrago, denunciando (ex art. 360, comma 3 c.p.c.) un’avvenuta violazione e falsa applicazione degli artt. 2059, 2729, 2697 e 143 c.c. e dell’art. 116 c.p.c., e, più in particolare, dolendosi di come “la Corte territoriale, sulla sola base di una relazione extraconiugale e della conseguente nascita di un figlio naturale, abbia ritenuto insussistente il legame affettivo tra i coniugi al momento dell’incidente”, quando, invece – asserisce nel proprio ricorso il ricorrente – “siffatti elementi (relazione extraconiugale e nascita di un figlio naturale) non sono elementi univoci rispetto all’insussistenza delle sofferenze morali subite in conseguenza della morte del coniuge”; e quindi “la relazione sentimentale extraconiugale non può costituire grave e preciso elemento utile a ritenere cancellato totalmente il legame affettivo esistente con il coniuge deceduto e negare qualsiasi forma di ristoro del pregiudizio morale”.

La Suprema Corte rigettava, però, il ricorso, confermando la statuizione della Corte di Appello potentina.

Secondo l’organo nomofilattico, infatti, la Corte territoriale non era incappata in alcuna violazione o falsa applicazione di legge, ma, anzi, in tema di danno da lesione del rapporto parentale aveva dato prova semmai di conoscere appieno l’orientamento giurisprudenziale inerente l’esatta applicazione dei rispettivi oneri della prova in capo alle parti, su cui attualmente nella magistratura vi è fermezza ed uniformità di pensiero.

Magistralmente la Suprema Corte ha quindi ripercorso i passi logico-argomentativi seguiti dalla Corte territoriale, asseverandoli, e seguendo pedissequamente il filo del discorso in modo talmente lineare e cadenzato da consentire addirittura in questa sede di riproporlo per capi numerati:
1 – “Correttamente la Corte territoriale ha rilevato che, in termini generali, il fatto illecito costituito dalla uccisione di uno stretto congiunto appartenente al ristretto nucleo familiare (genitore, coniuge, fratello) dà luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consistente nella sofferenza morale che solitamente si accompagna alla morte dì una persona cara e nella perdita del rapporto parentale con conseguente lesione del diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che ordinariamente caratterizza la vita familiare […].
2 – Nella normalità dei casi, pertanto, in virtù di detta presunzione, il soggetto danneggiato non ha l’onere di provare di avere effettivamente subito il dedotto danno non patrimoniale.
3 – Siffatta presunzione semplice può tuttavia, come tale, essere superata da elementi di segno contrario, quali la separazione legale o (come nel caso di specie) l’esistenza di una relazione extraconiugale con conseguente nascita di un figlio tre mesi prima della morte del coniuge.
4 – Detti elementi non comportano, di per sé, l’insussistenza del danno non patrimoniale in capo al coniuge superstite, ma impongono a quest’ultimo, in base agli ordinari criteri di ripartizione dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c. (essendo stata, come detto, superata la presunzione), di provare di avere effettivamente subito, per la persistenza del vincolo affettivo, il domandato danno non patrimoniale.
5 – Nella specie la Corte territoriale, con valutazione in fatto (come tale non sindacabile in sede di legittimità), ha ritenuto che il R. non avesse fornito detta prova e, correttamente, ha rigettato la domanda risarcitoria”.

Si tratta di un iter logico-giuridico, quello offerto dagli ermellini, indubbiamente lineare, fluido e privo di intoppi.

La Corte ha tratto spunto dal principio dell’onere della prova di cui al dettato normativo dell’art. 2697 c.c., per cui “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”, e da lì è partita per affermare come questo principio possa, a determinate condizioni (costituenti una cd. presunzione semplice), essere vinto, o meglio, essere invertito, traslando il suddetto onere in capo alla controparte. Ma attenzione, però – precisa la Corte – al contempo anche altri elementi fattuali (nel caso di specie, la relazione extraconiugale) possono incidere su tale presunzione; e qualora questi siano in grado di far cadere l’intero “castello di carte” presuntivo, ciò necessariamente farà ricadere la Spada di Damocle dell’onere della prova su chi l’aveva originariamente, ossia su “chi vuol far valere un diritto in giudizio”, come recita l’articolo 2697 c.c. sopracitato.

Sicché nel caso di specie, non avendo il marito – e cioè il soggetto su cui, ad ultimum, era ricaduto l’onere probatorio – dedotto alcun elemento a conforto della propria domanda risarcitoria, in giudizio la sua domanda si era rivelata non supportata da sufficienti elementi probatori, e, per questo, non meritevole di accoglimento alcuno.

Sicuramente tale decisione – mi sia consentito – seppur nel merito potrà anche non trovare tutti d’accordo sull’idoneità della singola circostanza concreta (in questo caso, appunto, una relazione extraconiugale) a demolire tutto l’impianto presuntivo precedentemente costruito, e quindi a mettere realmente in dubbio la sussistenza di un valido rapporto inter-personale, certamente in diritto si presenta come valida, coerentemente argomentata, frutto di una indiscutibile applicazione del dettato legislativo, nonché da sottolinearsi per logicità e chiarezza espositiva.

La Corte di Cassazione si esprime in tema di mantenimento dei figli: qualora costoro non mirino all’indipendenza economica nulla è più dovuto

By Pronunce

Un famoso detto in dialetto milanese recita: “mangiaa al mangiota, beev al bevota, l’è a lavura ch’al barbota!” (mangiare mangia, bere beve, è a lavorare che si lamenta), ed è proprio questo il tema su cui è chiamata ad esprimersi la Suprema Corte di Cassazione nella sentenza n. 12952 del 22 giugno 2016: se il figlio divenuto maggiorenne non collabora nel processo di crescita volto ad ottenere l’indipendenza economica dai genitori, fino a che punto costoro avranno un obbligo di mantenimento nei suoi confronti?!

Nel caso de quo il ricorrente denunciava davanti agli ermellini la “violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, con riferimento agli artt. 147 da parte della Corte di appello di Bari, la quale si era pronunciata in riforma del decreto emesso il 24 febbraio 2012 dal Tribunale di Bari con cui revocava ai figli l’assegno mensile di Euro 929,62 posto in origine a carico del padre in virtù della sentenza di divorzio. La Corte territoriale, infatti, ritenuta non provata la raggiunta indipendenza economica dei discendenti, accoglieva per quanto di ragione il reclamo della madre (che, addirittura, insisteva per ottenere il raddoppio del contributo!), statuendo per il ripristino del contributo.

Il caso di specie è quello di due figli con esperienze e attitudini molto diverse.

Lei (trentatreenne), “dopo aver conseguito nel 2006 la laurea in medicina e l’abilitazione alla professione di odontoiatra, aveva successivamente frequentato una serie di corsi di perfezionamento (da ultimo la specializzazione universitaria quinquennale) conseguendo varie referenze professionali e maturando esperienze lavorative presso studi odontoiatrici”. La stessa, pertanto, doveva essere considerata in grado di reperire un lavoro qualificato confacente al titolo di studio e alle specializzazioni conseguite o intraprese (mentre erroneamente la Corte di appello aveva ritenuto l’attività lavorativa della figlia quale mero praticantato), laddove invece, decidendo di frequentare l’aggiuntivo corso di specializzazione universitaria, aveva, per sua scelta, ulteriormente posticipato l’ingresso nel mondo del lavoro.

Lui (trentenne), “dapprima iscrittosi nell’anno accademico 2001/2002 al corso di laurea in economia e commercio, aveva cambiato indirizzo di studio iscrivendosi nell’anno accademico 2005/2006 al corso di laurea in fisioterapia, senza peraltro conseguire il relativo diploma. Nell’anno 2010/2011 si era iscritto ad un corso di formazione professionale in osteopatia, aperto ai laureati e ai laureandi prossimi al conseguimento della laurea, ma ne aveva pertanto interrotto la frequenza in quanto privo del diploma di laurea”.

In merito a tali circostanze il ricorrente deduce che: “l’obbligo genitoriale di mantenimento del figlio maggiorenne persisterebbe finché il genitore interessato dimostri che il figlio abbia raggiunto l’indipendenza economica (da intendersi quale reperimento di uno stabile lavoro che gli consenta un tenore di vita adeguato e dignitoso), ovvero sia stato posto nelle concrete condizioni per essere autosufficiente e, ciò nondimeno, pur potendo, non si sia attivato almeno per la ricerca seria e concreta di un lavoro adeguato alle sue aspirazioni e al percorso formativo di studi svolto [..]. La persistenza dei presupposti giustificanti l’obbligo genitoriale del mantenimento dei figli maggiorenni dovrebbe essere contemperata secondo criteri di rigore proporzionalmente crescente in rapporto all’età dei figli beneficiari, in modo da escludere che la tutela della prole possa essere protratta oltre ragionevoli limiti di tempo e misura, al di là dei quali si legittimerebbero forme di parassitismo ai danni dei genitori”.

I motivi di ricorso sono fondati.

La Corte di Cassazione condivide in toto quanto dedotto in giudizio dal padre: “La situazione soggettiva del figlio che, rifiutando ingiustificatamente in età avanzata di acquisire l’autonomia economica tramite l’impegno lavorativo e negli studi, comporti il prolungamento del diritto al mantenimento da parte dei genitori, o di uno di essi, non è tutelabile perché contrastante con il principio di auto-responsabilità che è legato alla libertà delle scelte esistenziali della persona, anche tenuto conto dei doveri gravanti sui figli adulti.La Corte d’Appello ha del tutto omesso di esaminare e valutare la persistente condotta inerziale nel percorso di studi e di perseguimento di un obiettivo professionale o tecnico […]Quanto alla figlia, la Corte di Appello non ha dato alcun rilievo al raggiungimento dell’obiettivo professionale perseguito dalla medesima con successo e alla natura esclusivamente personale della scelta successiva di proseguire gli studi oltre l’ordinaria esigenza di specializzazione e pratica successiva alla laurea ed anzi, per quel che emerge inequivocamente dagli atti processuali, di impegnare le proprie energie personali e professionali in prevalenza verso la continuazione degli studi. Intento senz’altro lodevole ma che deve essere accompagnato da un corrispondente impegno verso la ricerca di una o più occupazioni dirette al conseguimento dell’indipendenza economica”.

Tale decisione della Suprema Corte conferma un filone giurisprudenziale in tema di mantenimento dei figli ormai consolidato. Dopotutto, se è vero che le scelte e i problemi dei genitori non devono ricadere sui figli, in tal caso deve essere necessariamente vero anche il contrario.

Come succede spesso a noi umani può accadere che anche Fido si svegli con la luna storta

By Pronunce

In un mondo giustamente attento alle esigenze e alle necessità dei nostri “amici a 4 zampe”, potrà certamente essere di aiuto conoscere quelle che sono (e rimangono) le responsabilità civili per l’eventuale danno provocato a terzi dal nostro animale da compagnia.

In tema di responsabilità per danni cagionati da animali, la sentenza della Corte di Cassazione 10402/2016 “aggiunge una voce al coro” dell’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui, chi subisce un danno a causa di un animale domestico ha diritto ad essere risarcito dal padrone, a prescindere dal fatto che l’evento lesivo sia o meno conseguenza di una condotta colposa specifica (commissiva od omissiva) di quest’ultimo.

Nel nostro ordinamento, infatti, la responsabilità verso terzi di chi si occupa di un animale passa anzitutto attraverso la lettera dell’art. 2052 del Codice Civile, intitolato “danno cagionato da animali”, che recita: “Il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni cagionati dall’animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito”.

Dalla lettura della norma, quindi, pare che l’unica “chance” per il padrone dell’animale consista nel dare prova che l’evento lesivo – quale potrebbe essere il morso il di un cane, il graffio di un gatto, il calcio di un cavallo, etc. – sia conseguenza di un fatto inevitabile, imprevedibile ed assolutamente eccezionale; un fatto costituente, per l’appunto, l’esimente del cd. caso fortuito.

Per far comprendere bene questo concetto, utilizziamo la spiegazione offerta dalla Suprema Corte in occasione del caso deciso con sentenza n. 15713/2015.

All’esame la vicenda di un cane che aveva morso due passanti dopo essere riuscito a scappare dal giardino di casa attraverso il cancello automatico rimasto aperto a causa di un guasto elettrico.

Se l’imprevisto avesse avuto il carattere della eccezionalità, episodicità e straordinarietà si sarebbe potuto invocare il “caso fortuito”. Viceversa, poiché il guasto elettrico di cui si è detto si era già verificato altre volte in passato, i Giudici hanno ritenuto di condannare il padrone del cane.

Ancora, sempre la Cassazione in un’altra decisione ha confermato la condanna del padrone del cane che, dopo essere riuscito a rompere la catena a cui era legato, aveva aggredito un passante: decisione n. 49690 del 2014.

Anche in questo caso, per la Corte, non si può parlare di un evento che ha il carattere dell’imprevedibilità ed eccezionalità (“caso fortuito”), poiché è responsabile il padrone se non è in grado di dimostrare che la corda fosse integra ed adeguata alla corpulenza del cane.

Ad ogni buon conto, comunque, non deve sfuggire al lettore che la valutazione delle circostanze costituenti il caso fortuito è e rimane un’attività che viene effettuata di volta in volta dall’organo giudicante, e che inevitabilmente ci impone, quindi, di trarre spunto dal singolo caso specifico.

IL CASO. Nella vicenda trattata dalla sentenza in commento, una signora si recava a casa di amici di lunga data e si introduceva all’interno della stanza dove si trovavano il cane di famiglia (un pastore tedesco) e la moglie del proprietario dell’animale. Una volta dentro la camera, l’ospite veniva invitata dalla padrona di casa ad uscire, ma questa, al posto di dar seguito all’invito di aspettare fuori, non abbandonava il locale e tentava, altresì, di accarezzare il cane. A questo punto, però, il quadrupede reagiva al tentativo di contatto e, girandosi di scatto, mordeva la signora alla mano destra, provocandole serie lesioni all’arto.

A seguito dell’accaduto, la danneggiata incardinava il procedimento volto ad ottenere la condanna al risarcimento dei danni subiti nei confronti dell’amico padrone del cane. E se al termine del primo grado di giudizio il Tribunale di Belluno respingeva la domanda risarcitoria, questa veniva invece accolta in sede di gravame dalla Corte di Appello di Venezia, che stabiliva un risarcimento pari ad € 41.496,32, oltre interessi, in favore della danneggiata.

Sul punto, la Corte lagunare aveva verificato che il “caso fortuito” ravvisato in primo grado di Giudizio in realtà non sussisteva, poiché durante il procedimento si era data prova di come la danneggiata fosse solita recarsi nell’abitazione degli amici, e che oltretutto conosceva l’animale in questione fin da quando era cucciolo. Per questo motivo, quindi, spiega la Corte, la condotta della danneggiata (che non usciva dalla stanza ma al contrario tentava di accarezzare il cane) in alcun modo poteva ritenersi un fatto imprevedibile, inevitabile ed eccezionale, qualificabile come caso fortuito. Anche perché, inoltre, dall’istruttoria era emerso altresì che la padrona avrebbe invitato l’amica ad andarsene non tanto per scongiurare una possibile aggressione da parte del cane, ma semplicemente perché al momento era occupata in altre faccende.

Ad ogni modo, comunque, avverso alla sentenza della Corte veneziana proponeva ricorso per Cassazione il proprietario del pastore tedesco, criticandone l’operato per due motivi:

  • Perché l’inconsueta “imprudenza della [amica], che avrebbe potuto non introdursi nella stanza dove era il cane, o almeno non carezzarlo”, a suo dire avrebbe determinato (o quantomeno contribuito a determinare, insieme alla reazione sproporzionata dell’animale) un caso fortuito ai sensi e per gli effetti dell’invocato art. 2052 del Codice Civile.

  • E inoltre, perché, a prescindere da ogni altro aspetto, l’amica avrebbe tenuto in ogni caso un comportamento imprudente e poco diligente, e pertanto, avrebbe dovuto risponderne di questo se non perdendo in toto il diritto al risarcimento dei danni subiti, quantomeno con una riduzione della somma dovuta, in applicazione del principio di cui all’art. 1227 del Codice Civile, che recita: “Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate”.

Ciò premesso, occorre dire che sul ricorso del proprietario dell’animale la Suprema Corte di Cassazione si è espressa con una pronuncia di rigetto, osservando come i motivi di doglianza “sono infondati”.

Come prima cosa, i Giudici Supremi non hanno ravvisato alcun comportamento colpevole dell’amica ai sensi dell’art. 1227 c.c., considerata la conoscenza che la stessa aveva dei proprietari del cane, della loro casa e, non da ultimo, del loro animale. Inoltre, con riguardo al primo motivo di doglianza, la terza Sezione si è allineata al principio giurisprudenziale secondo cui: “del danno cagionato da animale risponde ai sensi dell’art. 2052 cod. civ. il proprietario o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, in quanto la responsabilità si fonda non su un comportamento o un’attività commissiva o omissiva di costoro, ma su una relazione (di proprietà o di uso, fondante la custodia e la sorveglianza) intercorrente tra i predetti e l’animale”; una relazione che, come spiegato, ai fini della responsabilità può essere spezzata solo dall’intervento di “un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva e idoneo ad interrompere il nesso causale”, che certamente non potrà essere costituito dalla condotta della danneggiata di cui trattasi.

In conclusione, dunque, i Giudici di legittimità hanno ritenuto ancora una volta che chi si prende cura di un animale debba rispondere dei danni da questo cagionati, anche se di fatto non si sia reso colpevole di alcun omesso controllo o mancata sorveglianza sullo stesso: si tratta di una sentenza che a parer di chi scrive – seppur in linea con i diversi precedenti in materia – sicuramente presta il fianco a non poche critiche e solleva in ciascuno di noi forse più di qualche perplessità…

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In tema di responsabilità dei danni cagionati da animali, vedi anche “Se un’anziana signora viene aggredita per strada da un cane randagio chi risponde dei danni subiti dalla vittima?”

L’ASSICURAZIONE PRENDE TEMPO E NON PAGA IL RISARCIMENTO PER I DANNI DA SINISTRO STRADALE (?!): QUESTA VOLTA E’ STATA SEVERAMENTE PUNITA

By Pronunce

La canzone Zum Zum Zum che Mina presentò nel 1967 durante il varietà televisivo  “Sabato sera” in onda sul programma nazionale iniziava con questa frase : sarà capitato anche a voi!

Lunghi ed estenuanti i tempi di attesa per ottenere un risarcimento giusto dall’assicurazione in caso di sinistro stradale.

Il Dr. Alessio Liberati, Giudice Unico presso il Tribunale di Tivoli, con una recente sentenza (la n. 2428/2015)  che – per quanto andremo a spiegare –  può definirsi “esemplare” ha deciso per : … ora basta!

Il caso in esame è la storia di un giovane che in data 13.06.2007 mentre attraversava a piedi una via cittadina in un tratto privo di strisce pedonali veniva investito da una macchina (Fiat Punto) proveniente ad alta velocità ( e, in ogni caso, inadeguata alla situazione di assenza di illuminazione). Subentrava da dietro una seconda autovettura (Audi A4) che tamponava la prima spingendola a salire sulla vittima con la scocca.

Immediatamente soccorso, il giovane veniva trasportato con urgenza in ospedale e ivi sottoposto ad intervento chirurgico.

Si legge nella documentazione medica di: “Esiti di trauma cranico facciale con frattura dei due incisivi inferiori mediali ed incisivo superiore mediale destro con cicatrice vestibolare labbro inferiore. Esiti di pregressa lesione epatica trattata chirurgicamente. Esiti di contusione polmonare e di fratture anteriore della costa VI e VII sinistra. Esiti di frattura pluriframmentata del femore destro trattato chirurgicamente con riduzione e sintesi mediante chiodo endomidollare, consistenti in limitazione dei gradi estremi della coxo-femorale e cicatrici chirurgiche”.

Nei mesi successivi fu costretto ad una lunga riabilitazione.

Nulla ricevendo a titolo di risarcimento per i gravi danni riportati, il pedone si rivolgeva al Tribunale di Tivoli.

Quanto alla responsabilità per il Tribunale, la causa del sinistro era da addebitare per il 95% alla prima autovettura che aveva investito la vittima che attraversava la carreggiata per la velocità “certamente non adeguata alla situazione di assenza di illuminazione” e solo in via marginale (il 5%) al veicolo sopraggiunto che, solo in un secondo momento, tamponava la vettura incidentata e cagionava la salita di questa sulla vittima, con la scocca.

Per il danno riportato, debitamente documentato dalla CTU, espletata in corso di giudizio, veniva liquidato un risarcimento per il pedone infortunato di oltre 213mila euro con personalizzazione massima.

Anche le spese a favore dell’avvocato difensore del ragazzo venivano stabilite nella misura massima ( posta la complessità del giudizio e del valore vicino al massimale massimo) di € 25.000,00 oltre accessori di legge e rimborso spese generali 15% e poste – anche queste – a carico delle assicurazioni adite (titolari del contratto assicurativo con i proprietari delle vetture).

Ma l’eccezionalità di questa sentenza e in queste righe che seguono:

Devono inoltre essere condannate le compagnie assicuratrici al pagamento delle spese aggravate per lite temeraria, in quanto è evidente che hanno resistito in giudizio senza aver liquidato il danno che, stante le competenze delle compagnie, certamente era ben noto alle parti. Nella rappresentazione dei fatti, inoltre, hanno enfatizzato elementi del tutto trascurabili o addirittura equivoci. Ad esempio – spiega il Giudice nel provvedimento – che le compagnie avevano insistito negli atti nel sostenere che il pedone aveva attraversato “ al di fuori di strisce pedonali” quando in realtà sapevano che quel tratto di strada era privo di strisce pedonali! E quindi si poteva semmai solo parlare di “assenza di strisce” e con ciò evitando di strumentalizzare la circostanza lasciando intendere che il pedone avesse una corresponsabilità.

Il Giudice ha , altresì, puntato il dito contro le Compagnie di Assicurazione ritenendo che le stesse avessero tergiversato negando il giusto risarcimento approfittando dello status [del ragazzo danneggiato] di straniero senza fissa dimora [ che ] è notoriamente elemento che gioca a sfavore della vittima (che difficilmente avrà accesso alla giustizia), come certamente noto alle compagnie assicuratrici.

Per tale ragione si stima equo condannare ogni compagnia assicuratrice a pagare una somma pari al quadruplo delle spese legali (€ 100.000,00), in favore di parte attrice, ex art. 96 u.c. cpc. Del resto l’istituto delle spese aggravate è strumento finalizzato a disincentivare le cause defatigatorie e strumentali e deve essere parametro alla capacità ed alla forza giuridica della parte ed alla posizione di vantaggio che la parte colposamente resistente vanta nei confronti dell’avente ragione.

In proposito non può sottacersi l’esistenza di un enorme contenzioso (che rallenta ulteriormente la giustizia) che vede soccombenti le compagnie assicuratrici e che è generato – con tutta evidenza – da intenti defatigatori delle compagnie assicuratrici stesse, nel palese tentativo di indurre le parti ad accettare somme inferiori al dovuto in tempi brevi o, al contrario, dover sottostare ai lunghi tempi della giustizia e, non da ultimo, al rischio di errori processuali. La tolleranza di tali comportamenti si tradurrebbe, inevitabilmente, in un vantaggio economico che,  in un’ottica imprenditoriale, è destinato sempre e comunque ad alimentare il contenzioso, stante gli evidenti vantaggi che per l’impresa assicurativa ne derivano.”

Il paziente che ha subito un danno in conseguenza della colpevole condotta del “MEDICO DI BASE” può ottenere il risarcimento dalla ASL (OLTRE CHE DAL MEDICO STESSO)?

By Pronunce

La storia è quella di due coniugi che citarono in giudizio innanzi al Tribunale di Torino, sezione distaccata di Chivasso, l’Azienda Regionale Usl (omissis) di Chivasso e il “medico di base” che a loro dire sarebbe intervenuto in aiuto del paziente che presentava sintomi di ischemia cerebrale con estremo ritardo. La moglie aveva chiamato in mattinata il medico. Tuttavia, questi si presentava  soltanto nel pomeriggio  e – a dire dei due coniugi- prescriveva anche cure del tutto inadeguate.

I coniugi chiedevano, quindi che il medico di base e la Usl venissero condannati entrambi al risarcimento dei danni patiti dai medesimi attori a seguito della paralisi della parte sinistra del corpo della quale era rimasto affetto il paziente, con necessità di assistenza e cure continue.

Si costituirono sia l’Azienza Usl (omissis) di Chivasso, che il “medico di base”, contestando la fondatezza della domanda.

Il Tribunale, premettendo che il comportamento del “medico di base”, nel caso in esame, era da ritenersi caratterizzato da responsabilità colposa dovuta ad intempestività della visita domiciliare; al mancato rilievo delle “gravi condizioni” del paziente e all’omessa urgente sua ospedalizzazione e dal fatto, accertato in sede di CTU, che il tempestivo trattamento farmacologico avrebbe avuto effetti contenitivi del danno alla salute del paziente, condannava in solido il “ medico di base”  e l’Azienda Regionale ASL di Chivasso al risarcimento dei danni patiti dagli attori con sentenza del marzo 2008.

Contro tale decisione, il medico e la l’ASL TO (già ASL di Chivasso) proponevano appello.

I due coniugi resistevano in giudizio.

La Corte di appello di Torino, con sentenza pubblicata in data 22 dicembre 2011, accoglieva il gravame della ASL TO, rigettando la domanda risarcitoria proposta dai coniugi nei suoi confronti, e confermava nel resto la sentenza di primo grado. In altri termini, unico responsabile il “ medico di base”.

La Corte d’appello – ci racconta la Suprema Corte di Cassazione che, come diremo oltre, si è poi occupata del caso – escludeva la responsabilità ai sensi dell’art. 1228 cod. civ. della ASL TO osservando, segnatamente, che: il SSN assume nei confronti dei cittadini obblighi organizzativi, ma non assume, in base alla L. n. 833 del 1978, “un obbligo diretto avente ad oggetto il contenuto della prestazione professionale”; gli artt. 14 e 25 della citata legge n. 833 non sono di per sé fondati “la esistenza di un contratto “a monte” fra il paziente e  l’ASL”, così come lo stesso art. 25 non fonda l’obbligazione della struttura ospedaliera nei confronti del paziente, la quale deriva dalla conclusione del contratto d’opera professionale con lo stesso; non può rendersi concluso un contratto tra ASL e paziente nel momento in cui quest’ultimo chiede la prestazione al suo medico di base, non essendovi alcun contatto, o diretto rapporto, tra la prima ed il secondo (come invece sussiste tra struttura ospedaliera e paziente ivi ricoverato, che beneficia di prestazione sia alberghiera, che professionale).

La Corte torinese escludeva, altresì, che la responsabilità della ASL convenuta potesse fondarsi sull’art. 2049 cod. civ., in assenza della ravvisabilità, anzitutto, di un rapporto di preposizione tra Azienda sanitaria e medico convenzionato, essendo quest’ultimo “un libero professionista del tutto autonomo, scelto dal paziente in piena libertà”, sul quale la stessa ASL non esercita alcun potere di vigilanza, controllo o direzione.

Era da escludere anche la sussistenza di un rapporto di immedesimazione organica, non essendo il medico di base dipendente della ASL, né chiamato “a estrinsecare all’esterno la volontà dell’ente” o soggetto a direttive nell’ambito  della “sua peculiare attività professionale”. L’inserimento del medico di base nell’organizzazione territoriale della ASL si esaurisce, dunque, sul piano organizzativo-amministrativo, ma non tocca “certamente il contenuto squisitamente  professionale della prestazione del medico di base”, che non viene sindacata dalla stessa ASL, non essendovi alcuna norma che attribuisce a quest’ultima “un potere di vigilanza e controllo sul contenuto specifico della prestazione professionale medica del medico di base”.

La Corte di Cassazione, investita della questione, sul punto ha deciso diversamente.

In sintesi si è così pronunciata:

Per legge …” l’assistenza medicogenerica  è prestazione curativa che l’utente del S.S.N. ha diritto di ricevere secondo il livello stabilito dal piano sanitario nazionale e in questi termini, la ASL ha l’obbligo di erogare.

Il diritto soggettivo dell’utente del S.S.N. all’assistenza medico-generica ed alla relativa prestazione curativa, nei limiti stabiliti normativamente, nasce, dunque, direttamente dalla legge ed è la legge stessa ad individuare la ASL come soggetto tenuto ad erogarla, avvalendosi di “personale” medico alle proprie dipendenze ovvero in rapporto di convenzionamento (avente natura di rapporto di lavoro autonomo “parasubordinato”).

Il medico convenzionatoscelto dall’utente iscritto al S.S.N. nei confronti della ASL, in un novero di medici già selezionati nell’accesso al rapporto di convenzionamento e in un ambito territoriale delimitato, è obbligato (e non può rifiutarsi, salvo casi peculiari sorretti da giustificazione e, dunque, sindacabili dalla stessa ASL) a prestare l’assistenza medico-generica, e dunque la prestazione curativa, soltanto in forza ed in base al rapporto di convenzionamento.

Le prestazioni di assistenza medico-generica, che sono parte dei livelli uniformi da garantirsi agli utenti del S.S.N., sono, infatti, finanziate dalla fiscalità generale, alla quale concorrono tutti i cittadini con il versamento di una imposta.

Si viene, dunque, a configurare a carico della ASL una obbligazione ex lege di prestare l’assistenza medicogenerica all’utente del S.S.N., che viene adempiuta attraverso l’opera del medico convenzionato.

In altri termini, posto che l’assistenza medico-generica si configura come diritto soggettivo pieno ed incondizionato dell’utente del S.S.N., questi è “creditore” nei  confronti della ASL, che, in quanto soggetto pubblico ex lege tenuto ad erogare detta prestazione curativa (per conto del S.S.N.), assume le veste di “debitore”.

Il “debitore” ASL, nell’erogare la prestazione curativa dell’assistenza medico-generica, si avvale, poi, di “personale” medico dipendente o in rapporto di convenzionamento.

Da qui, pertanto, in ipotesi di illecito commesso dal medico convenzionato nell’adempimento della prestazione curativa di assistenza medico-generica, l’operatività dell’art. 1228 cod. civ. nei confronti della stessa ASL, quale norma che questa Corte, del resto, ha già ritenuto pienamente applicabile in riferimento alla posizione della struttura sanitaria pubblica per l’attività sanitaria svolta dal personale medico dipendente.

Concludendo, per la Suprema Corte, la  “…ASL è responsabile civilmente, ai sensi dell’art. 1228 cod. civ., del fatto illecito che il medico, con essa convenzionato per l’assistenza medico-generica, abbia commesso in esecuzione della prestazione curativa, ove resa nei limiti in cui la stessa è assicurata e garantita dal S.S.N. in base ai livelli stabiliti secondo la legge”.

Per la prima volta, dunque, viene enunciato il principio per cui la ASL risponde per il fatto del “medico di base”.

Risponde penalmente per omicidio colposo l’INFERMIERE che non ha richiamato l’attenzione del medico sulla somministrazione di un farmaco dannoso per il paziente

By Pronunce

La Corte di Cassazione torna ad occuparsi della responsabilità infermieristica e della posizione di garanzia in capo a ogni esercente la professione sanitaria trattando un interessante caso di responsabilità professionale che trae origine da un errore medico nella prescrizione di un farmaco.
Anche se non si verte in un esempio classico di responsabilità di equipe, è di tutta evidenza in questa decisione la stretta intimità di rapporti tra professione medica e professione infermieristica nell’agire quotidiano, nonché il delinearsi in capo alla figura dell’infermiere di un preciso dovere di collaborazione nei confronti del medico, che deve tradursi anche in un’attività di verifica e, se necessario, di segnalazione e di critica, laddove si possano supporre errori a danno di pazienti.

Nella sentenza n. 2192 del 16 gennaio 2015 della Corte di Cassazione, IV Sez. penale,  si espone in fatto che :
” Con sentenza resa in data 6/11/2012, il giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Busto Arsizio ha pronunciato l’assoluzione di [ X ] e di [ Y [ dall’imputazione relativa al reato di omicidio colposo, dagli stessi asseritamente commesso, in violazione della disciplina relativa all’esercizio della professione infermieristica, ai danni di [ un paziente]...
Agli imputati era stata originariamente contestata la condotta colposa consistita nel cagionare il decesso del[ paziente], avvenuta a seguito della somministrazione allo stesso del farmaco Amplital, .. contenente amoxicillina, cui il  [ paziente] era allergico.

In particolare, al [ X ]in qualità di infermiere professionale caposala in servizio presso il reparto di urologia dell’ospedale di […], era stata originariamente contestata la condotta omissiva consistita, da un lato, nel mancato rilievo, per negligenza o imperizia, del contrasto tra la prescrizione medica dell’Amplital e l’allergia del paziente all’amoxicillina e, dall’altro, nella mancata segnalazione di detto contrasto al personale medico.

Viceversa, alla 
[ Y ]in qualità di infermiera professionale in servizio presso la sala operatoria
dell’ospedale
 di 
[…], era stato contestato di aver imprudentemente somministrato l’Amplital al [ paziente] nel corso della fase preoperatoria, con la conseguenza che, a seguito di detta assunzione, il paziente era deceduto nel giro di pochi secondi.

Nel pronunciare la propria decisione, il giudice di primo grado ha ritenuto l’insussistenza del nesso di causalità tra il decesso del paziente e le condotte ascritte al 
[ X ] (assolvendolo per insussistenza del fatto), escludendo altresì ogni profilo di colpa addebitabile alla [ Y ], ritenendo che il fatto alla stessa imputato non costituisse reato.

Con sentenza in data 27/11/2013, su impugnazione del pubblico ministero, la Corte d’appello di Milano, in parziale riforma della sentenza di primo grado, riconosciuta la responsabilità del 
[ X ]  in relazione al reato allo stesso ascritto, lo ha condannato alla pena di sei mesi di reclusione, confermando nel resto la sentenza di primo grado.

Con tale decisione, la Corte d’appello ha evidenziato la concreta sussistenza di una specifica posizione di garanzia in capo al 
[ X ] in relazione all’incolumità del paziente, tenuto conto, in particolare, della qualifica professionale di vertice rivestita dall’imputato, onerato di precisi doveri sinergici di organizzazione, di gestione, di sovraintendimento e di segnalazione.
Al riguardo, la corte territoriale ha sottolineato l’avvenuta originaria acquisizione, da parte del [ X ], della notizia riguardante l’allergia sofferta dal paziente (per aver partecipato alla relativa intervista,in occasione della preparazione dell’intervento chirurgico),evidenziando la trascuratezza dello stesso nell’omettere di procedere alle dovute segnalazioni ai fini della correzione degli errori contenuti nella documentazione clinica riguardante il [ paziente] (nella quale era stata erroneamente riportata la prescrizione dell’Amplital a scopo terapeutico), e nell’omettere altresì di sottoporre a una nuova verifica, o a un più accurato controllo, detta documentazione clinica, così incorrendo nella condotta antidoverosa contestatagli, in violazione degli obblighi allo stesso imposti dalle regole dell’arte infermieristica.

Avverso l’assoluzione della [ Y ], con atto in data 5/2/2014, ha proposto ricorso per cassazione il procuratore generale presso la corte d’appello di Milano.

A mezzo del proprio difensore, ha altresì proposto ricorso per cassazione il [ X ].

Nelle more, però, decedeva l’infermiera [ Y ].

Nelle considerazioni in diritto della sentenza, fra l’altro, si legge :
Osserva preliminarmente il collegio come l’avvenuta attestazione del decesso della [ Y ], a seguito della proposizione del ricorso per cassazione del pubblico ministero, imponga, ai sensi dell’art129 c.p.p., comma 2 la pronuncia del rigetto del relativo ricorso 

Dev’essere altresì disatteso il ricorso proposto da
 [ X ] ”

Cosicché la Cassazione conferma la sentenza di condanna inflitta dalla Corte d’appello di Milano ravvisando l’esistenza di un dovere preciso di attendere all’attività di somministrazione dei farmaci in modo non meccanicistico (ossia misurato sul piano di un elementare adempimento di compiti meramente esecutivi), occorrendo viceversa intenderne l’assolvimento secondo modalità coerenti a una forma di collaborazione con il personale medico orientata in termini critici … e precisa, inoltre, che l’obbligo di segnalazione e controllo gravante sul personale ausiliario non ha la finalità di sindacare l’operato del medico (segnatamente sotto il profilo dell’efficacia terapeutica dei farmacprescritti), bensì quello  di richiamarne l’attenzione sugli errori percepiti (o comunque percepibili), ovvero al fine di condividerne gli eventuali dubbi circa la congruità o la pertinenza della terapia stabilita rispetto all’ipotesi soggetta a esame.

Sentenza del Tribunale di Milano su un caso di responsabilità per danni da “FUMO ATTIVO”

By Pronunce

Per il Tribunale di Milano, Sez. X civile- Giud. Unico Dr.ssa Illarietti, la domanda di risarcimento proposta dai “… prossimi congiunti di  [ un signore], deceduto il 23 novembre 2004 a seguito di neoplasia polmonare asseritamente riconducibile al consistente consumo di sigarette operato dal de cuius fino dall’età di 15 anni e quindi a decorrere dal 1965 continuato fino alla data della morte, è fondata e deve essere accolta nei limiti di cui si dirà”.

Per la vedova e i tre figli, il Tribunale ha riconosciuto un risarcimento complessivo di € 776.000,00 per il danno in capo ai congiunti da perdita del rapporto parentale, nonché per il danno da invalidità temporanea patito dal de cuius ed ereditato dagli istanti. Inoltre, agli istanti è stato riconosciuto il diritto a vedersi rimborsate le spese funerarie.

Per il Tribunale di Milano, l’attività di produzione e commercializzazione di sigarette è da considerarsi pericolosa – come aveva già affermato Cass. 26516/2009 – e perciò rientrante nel novero di quanto prescritto dall’art. 2050 cc. : “ Chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di una attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”. Trattasi di una responsabilità oggettiva, temperata dal possibile concorso di colpa del danneggiato.

Si legge in sentenza: “La Suprema Corte (Cass. 26516/09) ha osservato che viene in rilievo quale attività pericolosa anche quella attività finalizzata al commercio e quindi all’uso da parte del consumatore di un prodotto idoneo a produrre i danni nella fase del consumo e che se tale attività sostanzialmente diffonde nel pubblico un rilevante pericolo la stessa deve per sua natura definirsi pericolosa, tanto più se il pericolo che viene in rilievo è quello conseguente all’uso tipico e normale di quel prodotto e non ad uso anomalo.
Ha ulteriormente argomentato che la pretesa conoscenza del rischio e della pericolosità del prodotto sigaretta da parte del consumatore fumatore (pur potendo portare al rigetto della domanda risarcitoria) non è idonea ad escludere la configurabilità della responsabilità del produttore ai sensi dell’art. 2050 c.c.; ha argomentato che la ratio dell’accollo del costo del danno in capo all’esercente tale attività non è la colpa ma un criterio oggettivo. Si tratta di una scelta dell’ordinamento che imputa il costo del danno al soggetto che ha la possibilità della cost benefit analysis per cui deve sopportarne la responsabilità per essersi trovato nella situazione più adeguata per evitarlo nel modo più conveniente.
All’inquadramento della attività di commercializzazione e produzione quale attività pericolosa, discendono, ai  sensi del disposto di cui all’art. 2050 c.c. importanti ricadute sugli oneri probatori.
A colui che lamenta il danno compete l’onere di comprovare il nesso causale fra l’assunzione di tabacco e l’evento di danno e al produttore e all’esercente la commercializzazione di sigarette, per andare esente da  responsabilità compete l’onere di comprovare di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno 
Nella specie, il produttore distributore di sigarette avrebbe quando meno dovuto fornire adeguate informazioni sulla nocività del fumo, anche eventualmente con foglietti illustrativi posti nei pacchetti e ciò a prescindere da obblighi giuridici, ma in funzione di poter comprovare di aver messo in condizioni i consumatori di sigarette di conoscere inequivocabilmente il rischio correlato alla assunzione del medesimo e di poter in tal modo configurare l’assunzione come libera scelta assunta nella consapevolezza della nocività del prodotto.
Risulta che  solo a partire dal 1991, allorché tale obbligo fu previsto dalla legge, la vendita di tabacchi avviene con una esplicita informazione circa la nocività e il carattere letale del fumo …
Considerato che, a fronte della allegazione di parte attrice che il tumore sviluppato fosse primitivamente polmonare, i convenuti negavano tale natura e quindi anche la astratta possibilità della riconducibilità del medesimo alla assunzione di tabacco, il giudice ha disposto CTU medico legale, incaricando un medico legale e un epidemiologo di sicura competenza, di esprimersi sul nesso causale fra l’assunzione di tabacco e la neoplasia polmonare sviluppata …, chiedendo ai medesimi di riferire se detto eventuale nesso causale potesse dirsi sussistente con riferimento all’assunzione di tabacco avvenuta prima del 1991.
Successivamente è stata assunta prova per testi circa i tempi, le modalità l’entità del consumo di tabacco …
Sul punto i testi hanno riferito di conoscere e di aver frequentato il [ il signore deceduto] ancora quando il medesimo abitava a Napoli, nella seconda metà degli anni 60; hanno riferito che era un forte fumatore, che aveva sempre la sigaretta in bocca, che fumava all’incirca 2 pacchetti di sigarette al giorno.

Le dichiarazioni circa il fatto che [ il signore deceduto] fosse un forte tabagista sono state confermate anche dal medico curante.
La dott.ssa [ ] medico di famiglia ha riferito di avere avuto come paziente [ il signore deceduto] dal 1996, e che <<quando l’ho conosciuto era un forte fumatore; fumava oltre un pacchetto e mezzo di sigarette al giorno secondo quanto mi riferiva lui>> osservandosi che il contesto in cui le medesime dichiarazioni del de cuius venivano rese le rende del tutto disinteressate e attendibili.

Ulteriormente risulta dalla annotazione in cartella la condizione di tabagista laddove nella anamnesi fisiologica viene  indicata sotto la dicitura fumo: 30-40 sigarette die da 40 anni.

Ciò detto la disposta CTU ha evidenziato che gli accertamenti clinici e strumentali anche in ambito ospedaliero portano a diagnosticare  una neoplasia polmonare plurimetastatica; i CTU affrontando il primo punto in discussione ovvero quale fosse la primitività del cancro, hanno argomentato con considerazioni ampiamente sviluppate a p. 11, 12, 12, 14 della relazione peritale cui si rimanda facendo riferimento: a) all’aspetto radiologico dell’addensamento polmonare descritto con le caratteristiche di un primitivo; b) alla circostanza che le metastasi linfonodali sono documentate esclusivamente in sede intratoracica; e) alla circostanza che le valutazioni strumentali mediante TAC toraco addominali con contrasto e a pancolonscopia non riscontrano segni di tumore primitivo in altre sedi; che anche la primitività epatica deve essere esclusa dall’insieme dell’anamnesi e quadro clinico radiologico; analoghe considerazioni per quanto riguarda la vescica e l’apparato digerente per il quadro clinico meglio rappresentato d) alla circostanza che fosse stato riscontrato versamento pericardico e) alla circostanza che i risultati della colonscopia effettuata esclude l’origine intestinale del tumore ipotizzata dal CTP di parte L.; f) alla irrilevanza dei marcatori CEA e CIGA quali indicatori di un tumore extra polmonare per le argomentazioni meglio sviluppate a p. 14. Tali puntuali e precise considerazioni appaiono insuperabili nel confermare la diagnosi di carcinoma primitivamente polmonare formulata dai medici curanti in due diversi sedi (tra cui una autorevole come la clinica Pneumologica Universitaria di Milano).

Nel caso di specie i CTU hanno poi evidenziato come non risultino altri potenziali elementi di rischio cancerogeno collegati allo stile di vita del de cuius attesa la attività lavorativa di impiegato spiegata dal de cuius, sottolineando comunque come altri fattori di rischio (dieta alimentare, inquinamento che sono indicati dai CTP dei convenuti come ugualmente collegati al cancro) per quanto  non vi siano elementi per ritenerli  sussistenti nel caso de quo sono assai meno importanti rispetto all’abitudine tabagica nella genesi del carcinoma broncogeno (p. 20  e p. 21 rel. peritale).
Quanto all’eventuale predisposizione genetica o familiarità – argomento su cui le parti convenute hanno posto l’attenzione, anche all’esito della produzione documentale del certificato di morte del padre[ del signore deceduto] che, smentendo quanto riferito dai testi di cui sopra si è detto, comprova che il medesimo è morto all’età di 52 anni – si deve osservare che risultando la norma di riferimento per apprezzare il nesso causale, quella di cui all’art. 41 c.p. si deve rilevare che <<il concorso di cause preesistenti e sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione o omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento>>.
Al riguardo i CTU hanno avuto modo di meglio illustrare a p. 18 della relazione peritale cui si rinvia che è pacifico che anche nei tumori in cui è evidente e caratterizzata la derivazione causale da specifici fattori  ambientali a questi se ne possono aggiungere altri e con tutti concorrono anche due importanti variabili rappresentate dalla predisposizione genetica e dalla reattività del sistema immunitario, a sua volta in parte geneticamente determinata; peraltro per quanto sopra detto tale corredo genetico, per quanto sopra detto, non è idoneo a far venire meno il nesso causale con l’assunzione di tabacco e la patologia oncologica polmonare di cui si discute.
Deve pertanto ritenersi sussistente il nesso causale fra l’attività di tabagista[ del signore deceduto]  e la neoplasia polmonare dallo stesso sviluppata.

La sentenza prosegue nell’affermare : “ I CTU hanno poi evidenziato, venendo a distinguere l’efficacia causale dell’assunzione di tabacco distinguendo fra quella avvenuta dal 1965 al 2004, quella avvenuta tra il 1965 e il 1991 e quella avvenuta tra il 1991 e 2004.
Hanno evidenziato come la durata di esposizione al fumo è il fattore più rilevante  nel definire il rischio individuale di sviluppare un carcinoma broncogeno, poiché incidenza (rischio assoluto) sale in base alla quarta quinta potenza della durata di esposizione. Ogni periodo di esposizione ha un ruolo analogo nel rischio cumulativo di tumore al polmone (ovvero come viene spiegato anche nelle repliche, p. 23 ogni anno di fumo ha lo stesso rilievo come un esponente 3-4 sulla successiva incidenza di tumore polmonare) evidenziando che i 26-27 anni in cui [ il signore deceduto]  ebbe a fumare prima della entrata in vigore della norma sono per ciò molto più rilevanti dei 13-14 anni del periodo successivo (p. 24 nel peritale) che il ruolo dei primi 26-27 anni di esposizione è circa 20 volte più rilevante rispetto a quello dei successivi 13-14 anni”.

Concludendo, si rileva che la c.d. tabacco litigation che – a differenza di quanto avviene in USA –  finora ha avuto poco seguito, potrebbe continuare in Italia a far parlare poco di sé considerando –  per quanto osservato dal Tribunale di Milano –  che l’apposizione dei caveat ( avvisi sui pacchetti circa la pericolosità del prodotto) dopo l’anno 1991 rappresenta una “ misura idonea ad evitare il danno”, tale da escludere la responsabilità oggettiva del produttore.

Il Tribunale Milano CONDANNA UN PADRE A RISARCIRE ALLA PROPRIA FIGLIA NATURALE IL DANNO PER AVERLA PRIVATA DELL’AFFETTIVITA’ GENITORIALE …

By Pronunce

… avendo mostrato intenzionalmente disinteresse alle esigenze della stessa sia sotto il profilo economico che sotto il profilo dell’assistenza.

Il caso riguarda la vicenda di una bambina nata fuori dal matrimonio.
Inizialmente, e fino al compimento di un anno della propria figlia, i genitori convivevano.
Poi il padre si allontana e si disinteressa della figlia.
Da quel momento è stata la madre ad occuparsi esclusivamente della minore provvedendo a tutte le necessità anche di natura economica sebbene il padre avesse un lavoro di elettricista al momento dell’allontanamento e da ultimo di taxista.
A distanza di 12 anni, la madre, anche quale rappresentante della figlia minore, cita in giudizio il padre per sentirlo condannare a pagare il mantenimento della figlia; il rimborso delle somme anticipate nel tempo e il risarcimento a favore della bambina del danno conseguente alla privazione della figura paterna.

Con sentenza 23 luglio 2014, la Sez. IX del Tribunale di Milano ha condannato il padre a versare in favore della figlia dalla data della domanda €. 350,00 mensili a titolo di mantenimento; a rimborsare €. 35.900,00 alla madre per averli anticipati al suo posto dalla data dell’allontanamento dalla casa familiare (anno 2000) alla data della domanda (anno 2012) e pagare €. 40.997,50 alla figlia a titolo di danno non patrimoniale per averla privata della figura paterna oltre al pagamento delle spese di lite. Nel dettaglio si legge in sentenza: “Sulla scorta dei dati, pare equo e congruo un mantenimento in euro 350,00 mensili, tenuto conto del costante e stabile inserimento del [ padre] nel mercato del lavoro (almeno sin dal 2000 ad oggi) e delle sue capacità professionali, emerse nel rilevare come,  a fronte di una attività di lavoro subordinato, questi si sia dedicato ad una attività propria, avente ad oggetto una prestazione di servizi consolidata nel mercato … L’assegno decorre dalla domanda: dunque, dalla instaurazione del giudizio. L’atto di citazione è stato notificato il 29 ottobre 2012: quindi l’assegno decorre dal mese di novembre 2012 oltre rivalutazione monetaria annuale secondo gli indici  ISTAT … ”.
E, ancora: “ Il padre ha omesso di mantenere [la figlia] da giugno del 2000 con una condotta omissiva che, tenuto conto dell’obbligo fissato giudizialmente con l’odierna pronuncia, si è protratta fino al mese di novembre del 2012. Si tratta, dunque, complessivamente di 12 anni e 5 mesi e, quindi, 149 mesi in totale. In questo periodo, è la sola madre ad avere sostenuto il carico economico del mantenimento: ciò trova un principio sufficiente di prova in atti. La [ madre] ha versato in atti numerose ricevute di pagamento (per le più svariate spese) che coprono il periodo dal 2001 al 2011 … Ad ogni modo, a mezzo delle prove documentali, si  apprende che la madre ha provveduto a mantenere la figlia per ogni esigenza: cure mediche, attività sportive (es. acquafitness); alimenti, vestiario. Ancora: ha provveduto a garantire anche le attività realizzatrici della personalità del minore, come le vacanze e le attività ricreative … La domanda di regresso merita quindi accoglimento. L’obbligazione di mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio, essendo collegata allo status genitoriale, sorge con la nascita per il solo fatto di averli generati e persiste fino al momento del conseguimento della loro indipendenza economica, con la conseguenza che nell’ipotesi in cui, uno dei genitori abbia assunto l’onere esclusivo del mantenimento anche per la parte dell’altro genitore, egli ha diritto di regresso nei confronti dell’altro per la corrispondente quota … Il padre è, dunque, tenuto a rifondere alla madre le somme che avrebbe dovuto versare a [ figlia], per le spese ordinarie e straordinarie. Dette somme possono essere quantificate, per il passato, tenendo conto degli sviluppi dell’attività lavorativa del padre … Dal 2000 al 2007, può essere quantificato un mantenimento medio di euro 200,00 al mese (già tenuto conto della rivalutazione monetaria nel tempo), in coincidenza con la retribuzione del [ padre] da lavoro subordinato; dal 2007 (ottobre) al 2010, in poi, il mantenimento può essere quantificato in euro 300,00 (in coincidenza con i primi anni dell’attività imprenditoriale); dal 2010 al 2012, va confermato il mantenimento in euro 350,00. Per il periodo giugno 2000 – settembre 2007 (84 mesi), la quota di mantenimento omessa è pari ad euro 16.800,00. Per il periodo ottobre 2007 – dicembre 2009 (26 mesi), la quota di mantenimento omessa è pari ad euro 7.200,00. Per il periodo residuo (gennaio 2010 – ottobre 2012: 34 mesi), il mantenimento omesso è pari ad euro 11.900,00. Il calcolo totale del mantenimento omesso (144 mesi: 84 + 26 + 34) è pari ad euro 35.900,00”…
In ordine all’azione di risarcimento danni, la sentenza prosegue: “La minore, in persona della madre, propone azione risarcitoria contro il padre, per il disinteresse manifestato dal 2000 e, dunque, l’abbandono morale [ della figlia]L’abbandono morale in discussione è provato per tutti gli elementi già illustrati: valga ricordare che, dopo il giugno 2000, il padre ha rivisto la figlia solo in occasione nella cresima e, nel tempo, nemmeno ha dato la disponibilità necessaria per consentirle di ottenere i documenti amministrativi necessari per le attività più semplici (andare in vacanza). L’assenza del padre, nella fattispecie, è particolarmente rilevate. [ La figlia], pur avendo un padre inserito nel mercato del lavoro (prima dipendente, poi imprenditore) è stata costretta a vivere con il solo (basso) reddito della madre, aiutata dalla nonna materna, così conducendo una vita <<qualitativamente>> inferiore a quella che sarebbe spettata, privata di tantissime attività realizzatrici della persona che avrebbero potuto comporre il compendio della sua crescita psico-fisica. Ha subito, conseguentemente, un danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. (esistenziale) da privazione della figura genitoriale paterna, a causa del comportamento consapevole e colposo del padre… La “perdita” del genitore non è compensata dalla presenza dell’altro o dei parenti prossimi; non è nemmeno compensata dal mero sostegno economico. E’ perdita che segna la vita del fanciullo; è perdita che causa un danno alla sua stessa identità personale… La voce di pregiudizio in esame sfugge a precise quantificazioni in moneta e, pertanto, si impone la liquidazione in via equitativa… In merito alla quantificazione in concreto, questo Tribunale reputa di aderire all’orientamento giurisprudenziale (App. Brescia 1 marzo 2012) che, in caso di danno endofamiliare da privazione del rapporto genitoriale, applica, come riferimento liquidatorio, la voce ad hoc prevista dalle tabelle giurisprudenziali adottate dall’Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano. Indirizzo che ha trovato recente conferma da parte della Suprema Corte di Cassazione (v. Cass. Civ., sez. I, 22 luglio 2014, n. 16657, cit.)… Le suddette tabelle (nella loro edizione 2014), a favore di un figlio, per la perdita di un genitore, prevedono un risarcimento minimo di euro 163.990,00 e un risarcimento massimo di euro 327.990,00. Si tratta, però, di voce calcolata sulla “perdita definitiva” del genitore, a causa del decesso; nell’ipotesi di privazione del rapporto genitoriale, per abbandono morale, l’importo base deve essere dunque adeguatamente rideterminato. Nel caso di specie, tenuto conto del lasso di tempo trascorso (circa 14 anni), delle condizioni di totale abbandono morale e materiale, adottando come base di calcolo l’importo minimo, il risarcimento va quantificato in misura pari a ¼ per complessivi euro 40.997,50 già considerati congrui all’attualità”.

QUALI CRITERI INTERPRETATIVI SONO PIU’ IDONEI PER RISPETTARE AL MEGLIO LA REALE INTENZIONE DEL TESTATORE?

By Pronunce

Un uomo in punto di morte scrive un testamento e dispone in tal senso:” desidero che la mia Villa, sita in via …, diventi una casa di riposo e pertanto la lascio all’ente comunale di assistenza della città di Trani; se vi fossero altri beni alla mia morte non considerati in questo mio scritto, come se vi fossero dei debiti, il tutto va a favore ed a carico di mio nipote G.

La Villa di cui trattasi era circondata da un terreno, in parte adibito a frutteto e in parte a vigneto. Pur non essendo stata fatta esplicita menzione nel testamento del ridetto terreno circostante la Villa, l’Ente comunale se ne era comunque appropriato, ritenendo che il ridetto terreno fosse legato alla Villa da un rapporto pertinenziale tale da non poter essere separato in assenza di una esplicita volontà del testatore in tal senso.

Il nipote del de cuius ( G. ) invece, ovviamente, sosteneva l’esatto contrario e cioè che  il terreno costituiva un bene del tutto autonomo rispetto all’immobile come indicato nei registri catastali. Per cui il terreno spettava a lui : il termine ( Villa) impiegato dallo zio non poteva ritenersi suscettibile di significati estensibili ad altri beni se non alla costruzione.

In primo grado, il Tribunale di Trani dava ragione al nipote ( G. ).

La Corte d’Appello, prima,  e la Corte di Cassazione, poi, decidono in modo differente perché a dire dei Giudici Superiori è compito del giudice, “ nell’interpretare un testamento,  di individuare l’effettiva volontà del de cuius” anziché limitarsi ad una interpretazione letterale delle espressioni usate.

La Suprema Corte di Cassazione con sentenza n.12242 del 30 maggio 2014 ha così deciso: “ … Occorre premettere che, nell’interpretazione del testamento, il giudice deve accertare, secondo il principio generale di ermeneutica enunciato dall’art. 1362 c.c., applicabile, con gli opportuni adattamenti, anche in  materia testamentaria, quale sia stata l’effettiva volontà del testatore comunque espressa, considerando congiuntamente ed in modo coordinato l’elemento letterale e quello logico dell’atto unilaterale mortis causa, salvaguardando il rispetto, in materia, del principio di conservazione del testamento.
Tale attività interpretativa del giudice del merito, se compiuta alla stregua dei suddetti criteri e con ragionamento immune da vizi logici, non è censurabile in sede di legittimità (Cass. 14.10.2013, n. 23278; Cass. 14.1.2010, n. 468; Cass. 21.2.2007, n. 4022; Cass. 11.4.2005, n. 7422).
In proposito, questa Corte ha avuto modo di rilevare che l’interpretazione del testamento è caratterizzata, rispetto a quella del contratto, da una più penetrante ricerca, al di là della mera dichiarazione, della volontà del testatore, la quale, alla stregua delle regole ermeneutiche di cui all’art. 1362 c.c. (applicabili, con gli opportuni adattamenti, anche in materia testamentaria), va  individuata sulla base dell’esame globale della scheda testamentaria, con riferimento, essenzialmente nei casi dubbi, anche ad elementi estrinseci alla scheda, come la cultura, la mentalità e l’ambiente di vita del testatore.
Ne deriva che il giudice di merito può attribuire alle parole usate dal testatore un significato diverso da quello tecnico e letterale, quando si manifesti evidente, nella valutazione complessiva dell’atto, che esse siano state adoperate in senso diverso, purchè non contrastante ed antitetico, e si prestino ad esprimere, in modo più adeguato e coerente, la reale intenzione del de cuius (Cass. 3.12.2010, n. 24637; Cass. 19.1.2005, n. 1079; Cass. 30.7.2004 n. 14548). Nella specie, la Corte di Appello, nel focalizzare correttamente il punto fondamentale della contesa nella ricostruzione della effettiva volontà del testatore, ha maturato il convincimento secondo cui l’intenzione di G.L. era quella di attribuire all’ECA, e quindi agli anziani assistiti dal Comune di Trani, tutta la villa ed il compendio immobiliare di fatto annesso alla stessa (comprensivo del terreno adibito a frutteto e  vigneto), affinchè i fruitori residenti ne potessero godere pienamente in ogni sua parte, senza eccezione alcuna. A tali conclusioni il giudice del gravame è pervenuto sulla base di un percorso argomentativo privo di incongruenze logiche, con cui ha rilevato che il testatore, lasciando in legato all’ECA di Trani “la villa”, aveva piena consapevolezza di inserire in tale disposizione tutte le relative pertinenze, ed anche l’appezzamento di terreno retrostante la villa, adibito a frutteto e vigneto, e “delimitato da un sostanzialmente unico muro perimetrale”, se è vero che lo stesso C.T.U. ha dato atto, nella sua relazione, che, al di là dei vari cancelli che si erano venuti stratificando nel tempo, l’intero complesso “ risulta recintato e ben definito lungo tutti i confini”.
A tale considerazione, basata sul rapporto obiettivo di complementarietà fisica esistente tra il terreno in questione e la villa, costituenti sostanzialmente un unico complesso immobiliare, la Corte territoriale ha affiancato l’argomento di carattere logico, secondo cui il G. (uomo di cultura ed abilitato ad esercitare l’avvocatura, anche se non svolgeva una precisa attività e viveva di rendita), che conosceva il compendio immobiliare meglio di chiunque altro, poiché vi viveva o quanto meno vi aveva vissuto a lungo, ove avesse voluto effettivamente beneficiare il nipote nel senso asserito in citazione, avrebbe espressamente menzionato nel testamento le particelle 173 e 933. La ricostruzione della volontà testamentaria in tal senso operata dal giudice del gravame si sottrae al sindacato di legittimità, essendo stata effettuata nel rispetto delle regole ermeneutiche che regolano la materia e con un ragionamento immune da vizi logici.
E, in realtà, le doglianze mosse dal ricorrente, imperniate sul rilievo della insussistenza di uno stretto rapporto di pertinenzialità tra le particelle adibite a frutteto e vigneto e la villa, si risolvono sostanzialmente nella  richiesta di una diversa valutazione di merito delle disposizioni testamentarie, non consentita in questa sede; e vertono, comunque, su circostanze di per sé non determinanti ai fini della decisione, essendo compito del giudice, nell’interpretare un testamento, quello di individuare l’effettiva volontà de de cuis, al di là del rigoroso significato tecnico-giuridico delle espressioni usate. … ”.