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Quando un cittadino può essere difeso a spese dello Stato?

By Pubblicazioni

Pubblicato sul sito www.7giorni.info

Egregio Avvocato,
sono una ragazza di 26 anni, convivo con il mio ragazzo e sono inoccupata. Dalla morte di mia madre – che è deceduta 3 anni fa (ero già orfana di padre) – i miei due fratelli non hanno fatto le pratiche di successione, non hanno intenzione di farle e usufruiscono dei beni anche a me spettanti (vivendo io lontana).
Volevo sapere se, vista la mia situazione di convivenza, ho diritto al patrocino gratuito e se sia possibile attivarlo per le pratiche di successione.
Carmina

 

Gentile lettore,
nel prestare riscontro alla Sua gentile domanda, Le segnalo, che per poter fornire una risposta completa sarebbe necessario conoscere nel dettaglio il contenuto del contratto di abbonamento annuale da Lei sottoscritto con la palestra in questione, nonché il contenuto dell’eventuale regolamento al quale Lei ha aderito sottoscrivendo l’abbonamento.
Fermo restando quanto sopra, ad ogni modo, cercherò di rispondere al quesito ragionando per ipotesi. Se il contratto e/o il regolamento da Lei sottoscritti prevedono degli orari predeterminati di apertura e di chiusura della palestra nei giorni feriali, ma con una clausola – come di regola avviene – in cui la direzione della palestra si riserva la facoltà di apportare eventuali modifiche agli orari di apertura e chiusura a propria insindacabile discrezione, le lamentate chiusure del 24 e de 31 dicembre non hanno comportato la violazione di alcun obbligo da parte della palestra e, conseguentemente la violazione di alcun diritto per gli utenti della palestra.
Diversamente, nell’ipotesi in cui le clausole del contratto e del regolamento da Lei sottoscritti prevedano a carico della struttura un obbligo di apertura in tutti i giorni feriali dell’anno, nessuno escluso, senza possibilità per la palestra di modificare e/o cambiare i giorni di apertura e/o gli orari, la palestra si è resa inadempiente perché è venuta meno ad uno degli obblighi contrattuali assunti. A questo punto, a mio parere, Lei potrebbe chiedere alla palestra una sorta di “indennizzo” per non aver potuto usufruire dei servizi cui aveva diritto (e per i quali ha versato la quota di abbonamento annuale) nei giorni di sospensione dell’apertura unilateralmente imposti dalla direzione della palestra stessa.
Le segnalo, inoltre, che la fattispecie che ci occupa ha ad oggetto un contratto a prestazioni corrispettive e, dunque, secondo quanto stabilito dall’art. 1453 del Codice Civile in caso di inadempimento di una parte l’altra può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo in ogni caso, il risarcimento del danno. In ogni caso il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra. Ai fini della risoluzione non è sufficiente che una delle parti del contratto sia semplicemente inadempiente: non ogni imprecisione, ancorché minima, rispetto al programma degli impegni contrattuali conduce alla praticabilità del rimedio in esame. L’art. 1455  cod.civ. infatti precisa che l’inadempimento deve essere di non scarsa importanza alla stregua dell’interesse della parte che lo subisce. Tuttavia non mi pare che nel suo caso si possa profilare l’ipotesi della possibilità di risolvere il contratto, tenuto conto che le chiusure del 24 e del 31 dicembre, ovvero di soli due giorni prefestivi nell’arco di un anno solare, difficilmente potrebbero rappresentare un inadempimento di rilevante importanza.
E, ancora, nel contratto potrebbe essere stata prevista una clausola risolutiva espressa, ovvero potrebbe essere stato previsto che il contratto si risolva nel caso in cui una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite. Se così fosse, e se fosse stata prevista la clausola risolutiva espressa per il mancato rispetto da parte della palestra dei giorni e degli orari di apertura, la risoluzione in tal caso si verificherebbe di diritto nel momento in cui Lei comunica per iscritto alla palestra che intende avvalersi di detta clausola risolutiva.
Per quanto concerne, invece, la questione relativa al mutamento della palestra da Associazione Sportiva dilettantistica a Società sportiva dilettantistica, anzitutto evidenzio che nel nostro ordinamento nel caso di sport dilettantistico, i sodalizi sportivi possono organizzarsi in una delle seguenti tre forme: 1) associazione sportiva priva di responsabilità giuridica, disciplinata dagli artt. 36 e segg. cod. civ.; 2) associazione sportiva con personalità giuridica di diritto privato, ai sensi del regolamento di cui al D.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361; 3) società sportiva di capitali o cooperativa, costituita secondo le disposizioni vigenti, ad eccezione di quelle che prevedono le finalità di lucro.
La differenza sostanziale tra Associazione (non riconosciuta) e Società Sportiva – con personalità giuridica – è sita nella responsabilità degli amministratori nei confronti dei terzi creditori. Nella Società sportiva l’elemento fondante è il capitale finanziario; quindi la responsabilità e’ limitata al patrimonio sociale, a differenza delle associazioni non riconosciute dove gli amministratori rispondono solidalmente anche con il patrimonio personale per i debiti dell’associazione.
L’associazione sportiva dilettantistica non riconosciuta ha una gestione amministrativo/contabile piuttosto “snella”. Non è richiesta una forma particolare per l’atto costitutivo. È molto importante, nel settore sportivo dilettantistico, la valutazione della variabile fiscale in quanto molte agevolazioni richiedono la presenza di determinati prerequisiti che devono sussistere già in fase di costituzione: uno di questi requisiti è la redazione dell’atto costitutivo nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata.
La società di capitali sportiva dilettantistica è una figura giuridica normata dall’art. 90 legge n. 289/2002. È stato osservato che si tratta di «una nuova tipologia di società di capitali che si caratterizza per le finalità non lucrative e che si inserisce nell’ordinamento giuridico come una peculiare categoria di soggetti societari. La società di capitali sportiva dilettantistica è, infatti, costituita secondo le disposizioni vigenti, ad eccezione di quelle che prevedono le finalità di lucro. Tale forma giuridica può essere la naturale “evoluzione” di un sodalizio sportivo dilettantistico nato come semplice associazione tra pochi soci, senza strutture patrimoniali, ma che, con adesioni di nuovi soci e con l’ampliarsi delle esigenze dell’attività sportiva svolta, non può più essere gestito tramite le semplici forme amministrative/gestionali dell’associazione. L’incrementarsi di tali attività sportive comporta la movimentazione di disponibilità finanziarie di una certa consistenza, nonché eventuali problematiche di responsabilità civili in caso di eventi dannosi. In tali ipotesi, una forma giuridica quale quella della società di capitali appare più adeguata di quella dell’associazione non riconosciuta.
Gentile Signora,
nel prestare riscontro alla Sua cortese domanda, Le segnalo, anzitutto, che il D.P.R. 115/2002 recante disposizioni generali sul patrocinio a spese dello Stato nel processo penale, civile, amministrativo, contabile e tributario, all’art 74 n. 2 dispone che “è assicurato il patrocinio nel processo civile, amministrativo, contabile, tributario e negli affari di volontaria giurisdizione, per la difesa del cittadino non abbiente quando le sue ragioni risultano non manifestamente infondate”. L’ammissione al gratuito patrocinio è valida per ogni grado e fase del processo e per tutte le eventuali procedure, derivate ed accidentali, comunque connesse ed è subordinata ad una serie di condizioni.
Il gratuito patrocinio può essere richiesto per giudizi civili, amministrativi, contabili o tributari già pendenti e per controversie civili, amministrative, contabili o tributarie per le quali si intende agire in giudizio.
L’art. 76 del DPR 115/2002 stabilisce, infatti, che può essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato chi è titolare di un reddito imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito, risultante dall’ultima dichiarazione dei redditi, non superiore ad € 9.296,22.  Con decreto 2 luglio 2012 del Ministero di Grazia e Giustizia il predetto limite di reddito per l’ammissione al gratuito patrocinio a spese dello Stato è stato aggiornato ad € 10.766,33.
Se l’interessato convive con il coniuge o con altri familiari, il reddito è costituito dalla somma dei redditi conseguiti nel medesimo periodo da ogni componente della famiglia, compreso l’istante. Dunque al raggiungimento della somma di € 10.766,33 concorrono i redditi di tutti i componenti del nucleo familiare risultanti dallo stato di famigliaPer analogia qualora il convivente more uxorio risulti nello stato di famiglia dell’istante,  lo stesso è equiparato al coniuge.
Ai fini della determinazione dei limiti di reddito, si tiene conto anche dei redditi che per legge sono esenti dall’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) o che sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, ovvero ad imposta sostitutiva. Se l’interessato all’ammissione al patrocinio convive con il coniuge (o convivente more uxorio) o con altri familiari, i limiti di reddito indicati dall’art 76, comma 1, e di cui si è detto sopra, sono elevati di € 1.032,91 per ognuno dei familiari conviventi.
Si tiene, invece, conto del solo reddito personale quando sono oggetto della causa diritti della personalità, ovvero nei processi in cui gli interessi del richiedente sono in conflitto con quelli degli altri componenti del nucleo familiare con lui conviventi. Nel caso di controversia nei confronti di un familiare facente parte del nucleo risultante dallo stato di famiglia il reddito di quest’ultimo non è da considerare.
Quindi, posto che per le cause di successione è possibile chiedere di essere ammessi al patrocinio a spese dello Stato, nel Suo caso specifico occorrerà verificare se nel Suo stato di famiglia risulta o meno il ragazzo con cui Lei convive.
In caso affermativo, ai fini dell’ammissione al gratuito patrocinio, dovranno essere considerati i redditi complessivi, vale a dire il Suo reddito personale e quello del Suo convivente. Diversamente, nell’ipotesi in cui, nello stato di famiglia risultasse solo Lei, potrà essere ammessa al gratuito patrocinio a condizione che il Suo reddito (inteso non solo come reddito da lavoro) non superi € 10.766,33. 

Palestra resta chiusa durante il periodo natalizio: violati i diritti degli iscritti?

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Pubblicato sul sito www.7giorni.info

Egregio Avvocato,
la presente per interpellarla su una questione che riguarda la chiusura di un’attività legata alla sfera dei servizi. Nella fattispecie, la palestra che frequento, a seguito della stipulazione di un abbonamento annuale, durante le festività natalizie, ha stabilito la chiusura dei locali durante la Vigilia di Natale (negli anni precedenti rimaneva aperta se non altro fino al primo pomeriggio) e il 31 dicembre. Mi chiedevo se tali scelte fossero corrette o se sussista qualche vizio o infrazione di un qualsivoglia diritto. Segnalo, infine, che tale attività è passata, proprio nel mese di dicembre da Associzione Sportiva Dilettantistica a Società Sportiva Dilettantista. Giovanni dal Sud Est Milano

 

Gentile lettore,
nel prestare riscontro alla Sua gentile domanda, Le segnalo, che per poter fornire una risposta completa sarebbe necessario conoscere nel dettaglio il contenuto del contratto di abbonamento annuale da Lei sottoscritto con la palestra in questione, nonché il contenuto dell’eventuale regolamento al quale Lei ha aderito sottoscrivendo l’abbonamento.
Fermo restando quanto sopra, ad ogni modo, cercherò di rispondere al quesito ragionando per ipotesi. Se il contratto e/o il regolamento da Lei sottoscritti prevedono degli orari predeterminati di apertura e di chiusura della palestra nei giorni feriali, ma con una clausola – come di regola avviene – in cui la direzione della palestra si riserva la facoltà di apportare eventuali modifiche agli orari di apertura e chiusura a propria insindacabile discrezione, le lamentate chiusure del 24 e de 31 dicembre non hanno comportato la violazione di alcun obbligo da parte della palestra e, conseguentemente la violazione di alcun diritto per gli utenti della palestra.
Diversamente, nell’ipotesi in cui le clausole del contratto e del regolamento da Lei sottoscritti prevedano a carico della struttura un obbligo di apertura in tutti i giorni feriali dell’anno, nessuno escluso, senza possibilità per la palestra di modificare e/o cambiare i giorni di apertura e/o gli orari, la palestra si è resa inadempiente perché è venuta meno ad uno degli obblighi contrattuali assunti. A questo punto, a mio parere, Lei potrebbe chiedere alla palestra una sorta di “indennizzo” per non aver potuto usufruire dei servizi cui aveva diritto (e per i quali ha versato la quota di abbonamento annuale) nei giorni di sospensione dell’apertura unilateralmente imposti dalla direzione della palestra stessa.
Le segnalo, inoltre, che la fattispecie che ci occupa ha ad oggetto un contratto a prestazioni corrispettive e, dunque, secondo quanto stabilito dall’art. 1453 del Codice Civile in caso di inadempimento di una parte l’altra può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo in ogni caso, il risarcimento del danno. In ogni caso il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra. Ai fini della risoluzione non è sufficiente che una delle parti del contratto sia semplicemente inadempiente: non ogni imprecisione, ancorché minima, rispetto al programma degli impegni contrattuali conduce alla praticabilità del rimedio in esame. L’art. 1455  cod.civ. infatti precisa che l’inadempimento deve essere di non scarsa importanza alla stregua dell’interesse della parte che lo subisce. Tuttavia non mi pare che nel suo caso si possa profilare l’ipotesi della possibilità di risolvere il contratto, tenuto conto che le chiusure del 24 e del 31 dicembre, ovvero di soli due giorni prefestivi nell’arco di un anno solare, difficilmente potrebbero rappresentare un inadempimento di rilevante importanza.
E, ancora, nel contratto potrebbe essere stata prevista una clausola risolutiva espressa, ovvero potrebbe essere stato previsto che il contratto si risolva nel caso in cui una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite. Se così fosse, e se fosse stata prevista la clausola risolutiva espressa per il mancato rispetto da parte della palestra dei giorni e degli orari di apertura, la risoluzione in tal caso si verificherebbe di diritto nel momento in cui Lei comunica per iscritto alla palestra che intende avvalersi di detta clausola risolutiva.
Per quanto concerne, invece, la questione relativa al mutamento della palestra da Associazione Sportiva dilettantistica a Società sportiva dilettantistica, anzitutto evidenzio che nel nostro ordinamento nel caso di sport dilettantistico, i sodalizi sportivi possono organizzarsi in una delle seguenti tre forme: 1) associazione sportiva priva di responsabilità giuridica, disciplinata dagli artt. 36 e segg. cod. civ.; 2) associazione sportiva con personalità giuridica di diritto privato, ai sensi del regolamento di cui al D.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361; 3) società sportiva di capitali o cooperativa, costituita secondo le disposizioni vigenti, ad eccezione di quelle che prevedono le finalità di lucro.
La differenza sostanziale tra Associazione (non riconosciuta) e Società Sportiva – con personalità giuridica – è sita nella responsabilità degli amministratori nei confronti dei terzi creditori. Nella Società sportiva l’elemento fondante è il capitale finanziario; quindi la responsabilità e’ limitata al patrimonio sociale, a differenza delle associazioni non riconosciute dove gli amministratori rispondono solidalmente anche con il patrimonio personale per i debiti dell’associazione.
L’associazione sportiva dilettantistica non riconosciuta ha una gestione amministrativo/contabile piuttosto “snella”. Non è richiesta una forma particolare per l’atto costitutivo. È molto importante, nel settore sportivo dilettantistico, la valutazione della variabile fiscale in quanto molte agevolazioni richiedono la presenza di determinati prerequisiti che devono sussistere già in fase di costituzione: uno di questi requisiti è la redazione dell’atto costitutivo nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata.
La società di capitali sportiva dilettantistica è una figura giuridica normata dall’art. 90 legge n. 289/2002. È stato osservato che si tratta di «una nuova tipologia di società di capitali che si caratterizza per le finalità non lucrative e che si inserisce nell’ordinamento giuridico come una peculiare categoria di soggetti societari. La società di capitali sportiva dilettantistica è, infatti, costituita secondo le disposizioni vigenti, ad eccezione di quelle che prevedono le finalità di lucro. Tale forma giuridica può essere la naturale “evoluzione” di un sodalizio sportivo dilettantistico nato come semplice associazione tra pochi soci, senza strutture patrimoniali, ma che, con adesioni di nuovi soci e con l’ampliarsi delle esigenze dell’attività sportiva svolta, non può più essere gestito tramite le semplici forme amministrative/gestionali dell’associazione. L’incrementarsi di tali attività sportive comporta la movimentazione di disponibilità finanziarie di una certa consistenza, nonché eventuali problematiche di responsabilità civili in caso di eventi dannosi. In tali ipotesi, una forma giuridica quale quella della società di capitali appare più adeguata di quella dell’associazione non riconosciuta.
Gentile lettore,
nel prestare riscontro alla Sua gentile domanda, Le segnalo, che per poter fornire una risposta completa sarebbe necessario conoscere nel dettaglio il contenuto del contratto di abbonamento annuale da Lei sottoscritto con la palestra in questione, nonché il contenuto dell’eventuale regolamento al quale Lei ha aderito sottoscrivendo l’abbonamento.
Fermo restando quanto sopra, ad ogni modo, cercherò di rispondere al quesito ragionando per ipotesi. Se il contratto e/o il regolamento da Lei sottoscritti prevedono degli orari predeterminati di apertura e di chiusura della palestra nei giorni feriali, ma con una clausola – come di regola avviene – in cui la direzione della palestra si riserva la facoltà di apportare eventuali modifiche agli orari di apertura e chiusura a propria insindacabile discrezione, le lamentate chiusure del 24 e de 31 dicembre non hanno comportato la violazione di alcun obbligo da parte della palestra e, conseguentemente la violazione di alcun diritto per gli utenti della palestra.
Diversamente, nell’ipotesi in cui le clausole del contratto e del regolamento da Lei sottoscritti prevedano a carico della struttura un obbligo di apertura in tutti i giorni feriali dell’anno, nessuno escluso, senza possibilità per la palestra di modificare e/o cambiare i giorni di apertura e/o gli orari, la palestra si è resa inadempiente perché è venuta meno ad uno degli obblighi contrattuali assunti. A questo punto, a mio parere, Lei potrebbe chiedere alla palestra una sorta di “indennizzo” per non aver potuto usufruire dei servizi cui aveva diritto (e per i quali ha versato la quota di abbonamento annuale) nei giorni di sospensione dell’apertura unilateralmente imposti dalla direzione della palestra stessa.
Le segnalo, inoltre, che la fattispecie che ci occupa ha ad oggetto un contratto a prestazioni corrispettive e, dunque, secondo quanto stabilito dall’art. 1453 del Codice Civile in caso di inadempimento di una parte l’altra può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo in ogni caso, il risarcimento del danno. In ogni caso il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra. Ai fini della risoluzione non è sufficiente che una delle parti del contratto sia semplicemente inadempiente: non ogni imprecisione, ancorché minima, rispetto al programma degli impegni contrattuali conduce alla praticabilità del rimedio in esame. L’art. 1455  cod.civ. infatti precisa che l’inadempimento deve essere di non scarsa importanza alla stregua dell’interesse della parte che lo subisce. Tuttavia non mi pare che nel suo caso si possa profilare l’ipotesi della possibilità di risolvere il contratto, tenuto conto che le chiusure del 24 e del 31 dicembre, ovvero di soli due giorni prefestivi nell’arco di un anno solare, difficilmente potrebbero rappresentare un inadempimento di rilevante importanza.
E, ancora, nel contratto potrebbe essere stata prevista una clausola risolutiva espressa, ovvero potrebbe essere stato previsto che il contratto si risolva nel caso in cui una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite. Se così fosse, e se fosse stata prevista la clausola risolutiva espressa per il mancato rispetto da parte della palestra dei giorni e degli orari di apertura, la risoluzione in tal caso si verificherebbe di diritto nel momento in cui Lei comunica per iscritto alla palestra che intende avvalersi di detta clausola risolutiva.
Per quanto concerne, invece, la questione relativa al mutamento della palestra da Associazione Sportiva dilettantistica a Società sportiva dilettantistica, anzitutto evidenzio che nel nostro ordinamento nel caso di sport dilettantistico, i sodalizi sportivi possono organizzarsi in una delle seguenti tre forme: 1) associazione sportiva priva di responsabilità giuridica, disciplinata dagli artt. 36 e segg. cod. civ.; 2) associazione sportiva con personalità giuridica di diritto privato, ai sensi del regolamento di cui al D.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361; 3) società sportiva di capitali o cooperativa, costituita secondo le disposizioni vigenti, ad eccezione di quelle che prevedono le finalità di lucro.
La differenza sostanziale tra Associazione (non riconosciuta) e Società Sportiva – con personalità giuridica – è sita nella responsabilità degli amministratori nei confronti dei terzi creditori. Nella Società sportiva l’elemento fondante è il capitale finanziario; quindi la responsabilità e’ limitata al patrimonio sociale, a differenza delle associazioni non riconosciute dove gli amministratori rispondono solidalmente anche con il patrimonio personale per i debiti dell’associazione.
L’associazione sportiva dilettantistica non riconosciuta ha una gestione amministrativo/contabile piuttosto “snella”. Non è richiesta una forma particolare per l’atto costitutivo. È molto importante, nel settore sportivo dilettantistico, la valutazione della variabile fiscale in quanto molte agevolazioni richiedono la presenza di determinati prerequisiti che devono sussistere già in fase di costituzione: uno di questi requisiti è la redazione dell’atto costitutivo nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata.

La società di capitali sportiva dilettantistica è una figura giuridica normata dall’art. 90 legge n. 289/2002. È stato osservato che si tratta di «una nuova tipologia di società di capitali che si caratterizza per le finalità non lucrative e che si inserisce nell’ordinamento giuridico come una peculiare categoria di soggetti societari. La società di capitali sportiva dilettantistica è, infatti, costituita secondo le disposizioni vigenti, ad eccezione di quelle che prevedono le finalità di lucro. Tale forma giuridica può essere la naturale “evoluzione” di un sodalizio sportivo dilettantistico nato come semplice associazione tra pochi soci, senza strutture patrimoniali, ma che, con adesioni di nuovi soci e con l’ampliarsi delle esigenze dell’attività sportiva svolta, non può più essere gestito tramite le semplici forme amministrative/gestionali dell’associazione. L’incrementarsi di tali attività sportive comporta la movimentazione di disponibilità finanziarie di una certa consistenza, nonché eventuali problematiche di responsabilità civili in caso di eventi dannosi. In tali ipotesi, una forma giuridica quale quella della società di capitali appare più adeguata di quella dell’associazione non riconosciuta. 

È possibile obbligare un padre a vedere e tenere con sé un figlio quando questi ha raggiunto la maggiore età?

By Pubblicazioni

Pubblicato sul sito www.7giorni.info

Egregio Avvocato,
sono separata da quattro anni consensualmente e, dato che io ed il mio ex coniuge abbiamo un figlio, abbiamo optato per l’affidamento congiunto condiviso. Il problema è che da quando il ragazzo è diventato maggiorenne, il mio ex si esime da quelli che prima erano gli accordi per le visite: lo vedeva ogni 15 giorni e lo portava con se per il week-end. Ora, oltre che per la tutela del ragazzo, che comunque non vede mai con la scusa che è grande, chiedo anche per me se tutto questo è lecito, visto che così facendo non ho nemmeno modo di coltivare un’altra relazione, dal momento che non sono mai sola. Chiedo se esista un provvedimento per poter far fare al mio ex il padre per ottenere anch’io un po’ di tranquillità.
Ally 64

Gentile Signora,
l’”affido condiviso” è il regime di affidamento dei figli che, come si è già avuto modo di spiegare in altre occasioni in questa rubrica, la L. 54/2006, modificando la disciplina previgente, ha previsto quale soluzione che il Giudice deve valutare in via prioritaria (rispetto all’affido esclusivo) e deve disporre, salvo che non risulti contrario all’interesse dei figli stessi, con i provvedimenti riguardo alla prole assunti in caso di separazione (art. 155 del Codice Civile), ovvero in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché nel caso di procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati (cfr. art. 4 L. 54/2006).

In particolare, questo regime non consiste tanto nella pari suddivisione del tempo di permanenza dei figli presso ciascun genitore (possibilità anche concretamente di difficile attuazione), bensì nell’assunzione condivisa delle responsabilità e delle scelte genitoriali, con lo scopo primario di garantire alla prole il mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori .

Proprio in tale ottica di valorizzazione della bigenitorialità, sempre la citata legge 54/2006, ha, altresì, introdotto l’art. 709 ter cpc, che, per rafforzare in via indiretta l’efficacia dei provvedimenti del giudice, essendo nota la difficoltà di eseguire coattivamente i provvedimenti nella materia relativa alle relazioni famigliari, ha previsto un trattamento sanzionatorio in caso di comportamenti gravemente inadempienti o atti che arrechino pregiudizio al figlio od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento e, così, ha sancito il potere del Giudice di: ammonire il genitore inadempiente, disporre il risarcimento dei danni, in favore del minore o dell’altro coniuge o condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa da 75 a 5.000 euro in favore della Cassa ammende.

Tuttavia, vi è da precisare, che ha senso parlare di “affidamento” solo con riguardo ai figli minorenni, ovvero, in base a quanto sancito dall’art. 155 quinquies ultimo comma del Codice Civile, ai figli maggiorenni portatori di handicap grave ai sensi dell’art. 3 della legge 3 febbraio 1992 n. 104, che recita: “Qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità. Le situazioni riconosciute di gravità determinano priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici“.

Al di fuori di questa unica eccezione, invece, con il raggiungimento della maggiore età si acquisisce la c.d. “capacità di agire”, e cioè, come spiega l’art. 2 del Codice Civile, la capacità di compiere validamente, senza più l’intervento dei genitori ovvero del Giudice Tutelare, tutti gli atti per cui non è prevista un’età differente.

Il che, necessariamente, ha delle ripercussioni anche sul piano dei rapporti familiari, poiché, salvo la ridetta eccezione di maggiorenni affetti da gravi handicap, con il compimento dei 18 anni, il figlio, per la legge, non ha più bisogno di essere “affidato”, potendo assumere sotto la sua sola responsabilità le decisioni che lo riguardano e, potendo, quindi, gestire direttamente, se vuole, le relazioni personali con ciascun genitore.

L’unico obbligo che permane in capo al genitore rispetto a figli maggiorenni, in base all’art. 155 quinquies del Codice Civile, è quello di contribuire al loro sostentamento qualora non siano autosufficienti dal punto di vista economico e fino a questo momento. Un obbligo, a fronte della cui violazione, la legge prevede appositi strumenti di tutela, garantendo sia al genitore che provveda al mantenimento in via esclusiva sia al figlio di ottenere coattivamente il rispetto del provvedimento giudiziario.

Permane, altresì, il diritto per i figli maggiorenni di fare causa a quel genitore che si sia sottratto ai doveri derivanti dal rapporto di filiazione, con conseguente risarcibilità dei danni di natura non patrimoniale per la subita lesione dei fondamentali diritti della persona inerenti la qualità di figlio.

Si ricorda, a tal proposito, una recente sentenza della Corte di Cassazione del 10.04.2012 n. 5652, che ha confermato la bontà della decisione del Tribunale e della Corte d’Appello di Catania, che aveva accolto la domanda di risarcimento per € 25.000,00 in via equitativa di un figlio, ormai quarantenne, che aveva fatto causa al padre naturale per ottenere il risarcimento del pregiudizio sofferto a causa del genitore che gli aveva sempre rifiutato la dovuta assistenza materiale e morale, nel periodo successivo il compimento dei 18 anni e fino al raggiungimento dell’indipendenza economica, precisando che “non può dubitarsi che il disinteresse dimostrato da un genitore nei confronti di un figlio, manifestatosi per lunghi anni e connotato, quindi, dalla violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione, determini un vulnus, dalle conseguenze di entità rimarchevole ed anche, purtroppo, ineliminabili, a quei diritti che, scaturendo dal rapporto di filiazione trovano nella carta costituzionale (in part. Artt. 2 e 30), e nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento un elevato grado di riconoscimento e tutela“.

Si tratta, di una decisione che si inserisce nel più vasto orientamento, formatosi sia in dottrina che in giurisprudenza, che ha enucleato la nozione di “illecito endofamiliare”, in virtù del quale la violazione di doveri genitoriali, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, può integrare gli estremi dell’illecito civile e dar luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ex art. 2059 C.C..

Va da sé, che tale pregiudizio deve, comunque, trovare la sua origine più profonda nell’infanzia del bambino, pur avendo ripercussioni permanenti e anche successive al raggiungimento dell’età adulta.

Non ritengo, pertanto, calzante tale ipotesi a quella che mi ha prospettato, poiché da quanto posso dedurre dalla sua lettera, il comportamento inadempiente del suo ex marito nei confronti di vostro figlio sarebbe limitato al periodo successivo al raggiungimento della maggiore età e si esplicherebbe con il rifiuto di esercitare il diritto di visita previsto dai provvedimenti giudiziali giustificato dal fatto che ormai è “diventato grande”.

Orbene, in assenza di circostanze che legittimino l’applicazione delle disposizioni in favore di figli minori che, tuttavia, dalla sua missiva non emergono, devo purtroppo risponderle che il padre non è più costretto a tenere “in affido” il figlio, così come del resto non lo è neppure lei, visto che, con il raggiungimento della maggiore età, l’”affido condiviso” deciso in sede di separazione non ha più ragion d’essere ed è, quindi, anacronistico, almeno per ciò che concerne il diritto/dovere di visita e di permanenza presso ciascun genitore.

Il saltuario riavvicinamento dei coniugi dopo la separazione non elide gli effetti di quest’ultima senza la prova di un’effettiva e obiettiva restaurazione della comunione materiale e spirituale che caratterizza il matrimonio

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Pubblicato sul sito www.7giorni.info

Avvocato, buongiorno.
Leggendo una sua risposta in merito alle sentenze di divorzio, mi ha colpito la frase “separazione ininterrotta per 3 anni”. Io sono separato con sentenza da 3 anni (ma vivo fuori casa da quasi 5) ma in questi 3 anni, per necessità dei figli (2), ho saltuariamente dormito a casa della mia ex moglie. Inevitabilmente qualche volta è scappato un accenno di riavvicinamento (lei ha un compagno da circa 2 anni), questa, potrebbe essere usata come scusa per non concedermi il divorzio?
Quali potrebbero essere le soluzioni? Io ora ho una compagna con la quale vorrei un giorno sposarmi e per questo motivo stavo iniziando ad informarmi per l’eventuale divorzio. La ringrazio e la saluto cordialmente.
Mario

Gentile Mario,
l’art. 3, n. 2 lettera b)  della Legge 1 dicembre 1970 n. 898 (e successive modifiche), nel disciplinare una delle ipotesi in cui il coniuge è legittimato a chiedere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, noto comunemente come divorzio, prevede testualmente che: “[…] per la proposizione della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, le separazioni devono essersi protratte ininterrottamente da almeno tre anni a far tempo dalla avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale. L’eventuale interruzione della separazione deve essere eccepita dalla parte convenuta“.

Non vi è dubbio che l’avverbio “ininterrottamente“, considerato letteralmente, può legittimare diverse perplessità, a maggior ragione in un contesto complesso come i rapporti personali caratterizzati da implicazioni di carattere sentimentale in cui non sempre tutto è o “nero o bianco”.
Proprio per questo La ringrazio della sua domanda che mi dà l’opportunità di affrontare un aspetto del diritto di famiglia di indubbia rilevanza, e cioè la riconciliazione fra i coniugi: quando lo stato di separazione può ritenersi interrotto e quindi non idoneo per la pronuncia del divorzio???

Alla riconciliazione dei coniugi, la disciplina codicistica dedica solo due articoli, il 154 e il 157.
In particolar modo quest’ultimo prevede che: “i coniugi possono di comune accordo far cessare gli effetti della sentenza di separazione, senza che sia necessario l’intervento del giudice, con un’espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione. La separazione può essere pronunziata nuovamente soltanto in relazione a fatti e comportamenti intervenuti dopo la riconciliazione“.

Il dettato normativo, tuttavia,  come è evidente, non è sufficiente da solo a fornire una risposta immediata alla nostra domanda, per ottenere la quale è necessario considerare la giurisprudenza in tema.

È un dato di fatto che per riconciliarsi sia necessario un effettivo ripristino della vita coniugale, che si determina mediante la ripresa dell’intero complesso di rapporti che caratterizzano il consorzio familiare, quindi non solo di quelli che concernono l’aspetto materiale del matrimonio, ma anche quelli che sono alla base della comunione spirituale dei coniugi, intesa quale “animus di riservare al coniuge la posizione di esclusivo compagno di vita e di adempiere ai doveri coniugali” (Cass. Civ. Sez. I, 24 marzo 1983 n. 2058 in De Jure on line 2012).

Consegue che, secondo i Giudici della Suprema Corte, perché ricorra un’ipotesi di riconciliazione è indispensabile una chiara ed effettiva volontà di restaurare una vita insieme, che deve manifestarsi con elementi esteriori oggettivi e accertabili che prevalgono sulla sfera dei sentimenti: non basta, infatti, la convinzione e il sentimento di uno dei due coniugi, ma è necessario un comportamento concludente, perdurante e inequivocabile da parte di entrambi  alla ricostituzione della comunione coniugale (Cass. Civ. Sez. I, 01 agosto 2008 n. 21001; Cass. Civ. Sez. I, 25 maggio 2007 n. 12314).

Sulla scia di questo insegnamento di carattere generale,  ad esempio, la ripresa della convivenza, in via sperimentale e per un breve periodo, pur possedendo un innegabile valore presuntivo non è stata ritenuta dalla giurisprudenza sufficiente, di per sé, a concretare un’ipotesi di riconciliazione (Corte Appello Roma, 16 marzo 2011 n. 1148; Tribunale di Trani, 03 agosto 2007 n. 620; Cass. Civ. Sez. I, 06 ottobre 2005 n. 19497).

Analogamente, secondo la giurisprudenza, non interrompono la separazione, di per sé sole, le manifestazioni di buona volontà da parte di un coniuge con doni, elargizioni di denaro ed esecuzione di opere nella casa coniugale, né il fatto che il marito, pur vivendo in un’altra città e con un’altra donna, torni in famiglia per i fine settimana provvedendo in tali occasioni con la moglie all’educazione dei figli.

Non ha, inoltre, ugualmente effetto riconciliativo la riunione dei coniugi durante i fine settimana ed in occasione delle vacanze, così come l’assistenza prestata al coniuge separato bisognoso di cure e non rappresenta ripristino della vita coniugale neppure una sporadica ripresa dei rapporti sessuali, persino con conseguente nascita di un figlio, senza altre manifestazioni di perdono e affetto (Cass. Civ. Sez. I, 17 novembre 1983; Cass. Civ. sez. I, 06 marzo 1979 n. 1400; Cass. Civ. Sez. I, 16 ottobre 2003 n. 15481; Tribunale di Napoli, 28 novembre 2002).

Sempre il Tribunale di Napoli ha, invece, ravvisato i presupposti di cui all’art. 157 del Codice Civile, in un’altra sentenza del 19 marzo 1991 riportata nella banca dati giuridica De Jure 2012, in cui ha individuato i rapporti tipici della convivenza coniugale (e quindi della riconciliazione) – congiuntamente – nella coabitazione, nella pratica di rapporti sessuali, nel ricevimento di amici comuni  nella propria abitazione, nelle visite agli amici, nel soggiorno in località di vacanza, nel fine settimana, nelle preoccupazioni e le attenzioni per l’atro coniuge.

In conclusione e per rispondere al suo quesito, in base a quanto mi ha raccontato, non ritengo sussistano i presupposti necessari per ritenere interrotta la sua separazione, a maggior ragione in considerazione del fatto che entrambi avete un compagno con cui intrattenete una nuova relazione  (Cfr. in tal senso sempre Cass. Civ. Sez. I, 06 ottobre 2005 n. 19497) e, quel che più conta, non avete assunto comportamenti tali da far oggettivamente presumere la volontà di ricostruire il vostro nucleo originario familiare.

Ad ogni buon conto, per completezza, Le preciso, altresì, che qualora la sua ex moglie dovesse decidere di utilizzare i vostri sporadici riavvicinamenti come scusa per rifiutarLe il divorzio, come avevo già spiegato al gentile lettore Francesco, il divorzio non si concede, ma si ottiene e, nel caso che ci occupa, sarebbe comunque compito della sua ex moglie dimostrare  la cessazione o l’interruzione dello stato di separazione, mentre per quanto la riguarda Le sarà sufficiente produrre il provvedimento dell’Autorità Giudiziaria (sentenza o decreto di omologazione della separazione) attestante il decorso dei tre anni previsto dalla legge.

Spetterà, poi, al Giudice di merito, di fronte ad un’eventuale eccezione in tal senso da parte della sua ex moglie, l’accertamento o meno del ripristino del consorzio familiare.

È giusto un trasferimento di lavoro a 100 km da casa senza consenso nè rimborso spese? Il lavoratore si può opporre?

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Pubblicato sul sito www.7giorni.info

Egregio Avvocato,
avrei bisogno di un parere per quanto riguarda la mia situazione lavorativa.
Mi è stato comunicato che dall’inizio del prossimo mese sarò trasferita presso la società holding con una nuova mansione e con un’altra sede lavorativa che dista più di 100 km da casa mia. Mi è stato detto che per problemi economici verrò trasferita con il medesimo compenso e livello contrattuale; oltre a questo non mi verrà corrisposto né un rimborso spese né la possibilità di utilizzare un’auto aziendale in quanto quella è la mia nuova sede di lavoro. Posso essere trasferita di società e di sede senza il mio consenso e senza avere una qualche forma compenso maggiorativo?
Monica

Gentile Signora Monica,
nel prestare riscontro alla Sua gentile domanda, Le segnalo, anzitutto, che nell’ambito della rubrica “L’Avvocato risponde” su7giorni ho già avuto modo di approfondire il tema relativo al trasferimento nell’articolo pubblicato il 15 gennaio 2012, al quale La rimando per quanto concerne la disciplina generale della fattispecie (cliccare qui).

Fermo restando che il datore di lavoro, nell’ambito del suo potere direzionale, può unilateralmente decidere di far svolgere la prestazione di lavoro in luogo diverso rispetto a quello indicato nel contratto di lavoro attraverso il trasferimento del dipendente, la Legge prevede dei limiti all’esercizio di tale potere.
Dunque, al fine di stabilire la legittimità dell’atto di trasferimento concretamente attuato nel Suo caso, l’attenzione deve essere focalizzata sulla sussistenza o meno delle condizioni che consentono al datore di lavoro di assumere tale provvedimento.
La situazione da Lei descritta va attentamente valutata tenendo conto delle specifiche circostanze che la caratterizzano. Lei mi riferisce, infatti, che il provvedimento in questione prevede il Suo trasferimento presso la società holding, lasciando intendere che attualmente Lei svolge la prestazione lavorativa non presso la holding, ma presso una società dalla stessa controllata.
In primis va chiarito che la holding è il soggetto (società di persone, di capitali, cooperativa o consortile, irregolare o di fatto) che all’interno di un gruppo di imprese esercita attività di direzione e coordinamento nei confronti delle altre imprese facenti parte del gruppo e denominate controllate. Essa può limitarsi a gestire le proprie partecipazioni nelle altre società del gruppo (c.d. holding pura), oppure esercitare, oltre all’attività di direzione e coordinamento sulle proprie controllate o collegate anche una attività di produzione e di scambio (c.d. holding impura).

Le controllate sono soggetti autonomi e indipendenti tra loro che svolgono proprie attività imprenditoriali e sono sottoposte alla direzione della holding. Ciascuna società appartenente al gruppo, compresa la holding, è titolare esclusiva dei rapporti di lavoro subordinato con i propri dipendenti, senza che i relativi obblighi si estendano alle società del gruppo.
Ebbene l’articolo 2103 del Codice Civile dispone che il lavoratore non può essere trasferito da una unità produttiva a un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo.

Per poter parlare di  “trasferimento”, quindi, secondo il disposto normativo sopra citato, lo stesso deve avvenire nell’ambito della stessa società. Per unità produttiva si intende, infatti, la consistente e vasta entità aziendale che – eventualmente articolata in organismi minori, anche non ubicati nel territorio del medesimo Comune – si caratterizzi per condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica e amministrativa tali che in essa si esaurisca l’intero ciclo relativo ad una frazione o ad un momento essenziale dell’attività produttiva aziendale.

Ciò premesso, nel Suo caso, se abbiamo ben interpretato il quesito, non si può configurare un trasferimento, perché Lei sarebbe chiamata a rendere la prestazione lavorativa presso società diversa (la holding) rispetto a quella con cui ha instaurato il rapporto di lavoro subordinato (società controllata).
Holding e società controllata rappresentano due soggetti giuridici distinti ed autonomi.
Dunque poiché la holding sarebbe per Lei un nuovo datore di lavoro, ne consegue che il “trasferimento” paventato nel provvedimento intimatoLe comporterebbe, in realtà, la cessazione del rapporto di lavoro con la controllata e la sottoscrizione di un nuovo contratto di assunzione con la holding.

Nella specie, semmai, si potrebbe configurare, sempre che ne sussistano i presupposti, l’ipotesi del distacco che ricorre quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività  lavorativa.

Come per il trasferimento così anche per il distacco non è necessario il consenso del lavoratore.

Secondo quanto da Lei descritto, quindi il trasferimento de quo è impugnabile in quanto non sussistano le condizioni di cui all’art. 2103 c.c..

Per quanto concerne, invece, la seconda parte del quesito, ovvero eventuali compensi spettanti al lavoratore in ipotesi di trasferimento, Le segnalo, Sig.ra Monica, che, generalmente, la contrattazione collettiva disciplina il trasferimento sotto il profilo economico, prevedendo la corresponsione di specifiche indennità a favore del lavoratore, oltre al rimborso delle spese sostenute per lo spostamento in altra località.
Secondo il pressoché unanime orientamento giurisprudenziale l’indennità ha natura retributiva e quindi è computabile negli altri elementi retributivi, se non è espressamente esclusa da accordi collettivi o individuali.

Cosa succede in caso di separazione? Quale futuro per i figli e per la casa?

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Pubblicato sul sito www.7giorni.info

Egregio Avvocato,
scrivo per una situazione problematica che riguarda i miei parenti: la moglie di mio cugino ha chiesto la separazione (premetto che, pur non avendo le prove per dimostrarlo, lui sa per certo che lei da 2 anni ha avuto diverse avventure extra-coniugali, che ovviamente nega) ma nonostante la consensualità non riescono a trovare un accordo. Sono sposati da 4 anni e hanno 2 figli di 5 e 3 anni; lui lavora come artigiano con un reddito di 1000-1200 euro mensili (orario lavorativo elastico) e lei ha un contratto a tempo determinato presso una struttura sanitaria da cui percepisce un reddito di circa 1000 euro mensili (lavora a turni settimanali di cui conosce gli orari a volte anche il giorno prima). Preciso che la casa in cui vivono è di proprietà dei miei zii (i genitori di lui) e i 2 coniugi non hanno beni in comune. Lui propone l’affidamento congiunto dei figli (in modo da venirsi incontro senza cadere in ricatti e poter gestire i bambini senza traumatizzarli) e la casa a lui (visto che è dei genitori). Lei chiede l’affidamento dei figli (ma la furba dice che “lui può vederli quando vuole”, così se li tiene lei a mo’ di ricatto morale e quando lavora o vuole uscire glieli “sgancia”), la casa oppure che lui le paghi l’affitto e assegno di mantenimento per lei ed i figli. Inoltre ha insistito per avere 2 avvocati diversi a cui rivolgersi. Aggiungo inoltre che i miei zii abitano a circa 10km da loro, hanno un buon reddito e sono sempre disponibili a occuparsi dei bambini (alle volte dormono anche da loro, senza alcun problema); mentre i genitori di lei vivono in affitto ad un centinaio di km da loro e hanno problemi economici (un paio di volte al mese, ovviamente vista la distanza solo nei fine settimana, i bambini dormono anche da loro). Le mie domande sono le seguenti:
1) Comunque vadano le cose, ognuno pagherà le spese per il proprio avvocato?
2) Se non trovano un accordo per la separazione consensuale, lui come può procedere (onde evitare di perdere altro tempo, visto che la questione è stata sollevata diversi mesi fa)?
3) In caso di affidamento dei figli ad uno solo dei genitori a chi andrebbero?
4) Se eventualmente ottenesse lei l’affidamento, a quanto potrebbe ammontare l’assegno dei figli?
5) A lei spetterebbe un assegno di mantenimento?
6) È possibile che lei riesca ad ottenere l’uso abitativo della casa di proprietà dei miei zii?
7) Lei può ottenere che lui le paghi o le dia un contributo per mantenere l’affitto?
Quello che ci auguriamo è che lui con la separazione consensuale ottenga l’affido congiunto, non perda la casa e non le debba corrispondere alcunché in
denaro: quante possibilità ci sono che questo accada? Temiamo che lei gli porti via i figli e la casa.
Jessica

Gentile Sig.ra Jessica,

rispondo qui di seguito seguendo l’ordine dei quesiti che mi pone con riferimento alla vicenda di suo cugino.

1) Innanzitutto Le preciso che è facoltà delle parti (e forse nel caso concreto sarebbe auspicabile visti i configgenti interessi) nominare un legale ciascuno.
Il professionista dovrà essere pagato dal proprio cliente. Quest’ultimo potrà, solo in caso di ricorso giudiziale con accoglimento di domande accessorie rispetto a quella di separazione (cioè richieste di affidamento, addebito, mantenimento,etc.), sperare di ottenere la condanna dell’avversario soccombente al pagamento delle spese di lite o di un concorso delle stesse.

2) L’alternativa ad una separazione consensuale è la separazione giudiziale. In questo caso, suo cugino dovrebbe rivolgersi ad un avvocato affinché depositi presso la cancelleria del Tribunale competente un ricorso per separazione giudiziale. Il Presidente fisserà un’udienza dove, in attesa della trattazione ed eventuale istruttoria del processo, verranno assunti dei provvedimenti provvisori ed urgenti, immediatamente esecutivi, con riguardo all’assegnazione della casa coniugale, affidamento dei figli e mantenimento in favore di questi ultimi ed eventualmente del coniuge, etc.

3) Di regola, a seguito della riforma del 2006 (L. 54/2006) i figli minori, salvo fattispecie eccezionali, vengono affidati congiuntamente ai genitori (c.d affido condiviso). Tuttavia per ragioni di carattere pratico, il Giudice stabilisce di collocarli presso uno dei due genitori, in caso di bambini piccoli solitamente si tratta della madre. L’ideale per l’attuazione di questa normativa, e visto che l’interesse primario da tutelare è quello dei figli, sarebbe che i genitori disponessero di una casa a testa a poca distanza l’una dall’altra: in questo caso i bambini trascorrerebbero alcuni giorni della settimana con la mamma e altri con il papà, senza essere “sballottati” da una parte all’altra e rimanendo nel contesto e nella zona dove vivono, giocano, studiano… pur formalmente collocati presso uno dei due genitori. Nel caso di specie, mi pare di capire che questa soluzione ideale non sia possibile. Ma ciò non impedisce, comunque, l’affidamento condiviso, che verrà regolato dal Giudice.

4) Se l’affido è condiviso, nell’ipotesi della soluzione “ideale” prospettata sopra, si potrebbe chiedere al Giudice che il padre provveda direttamente al mantenimento dei figli nel periodo in cui gli stessi si trovano con lui e così la madre nei giorni di sua competenza, salvo per le spese di carattere eccezionale, urgente, di salute, studio, etc. che dovranno essere sopportate al 50%.
Qualora, invece, l’affido condiviso, di fatto, dovesse risolversi in un mero diritto di visita, per ragioni anche logistiche ed economiche dei genitori, il genitore collocatario avrà diritto di ricevere un concorso al mantenimento dei figli e nel loro interesse.
L’ammontare dell’assegno varia principalmente a seconda delle possibilità economiche di ciascuno dei genitori  e, in particolare, dalle esigenze dei figli, non esistendo dei criteri prestabiliti.

5) Da quanto mi descrive, se il Giudice rileverà l’autosufficienza economica della signora a mantenere un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, non dovrebbe prevedere un assegno di mantenimento in favore della moglie.

6) La possibilità di ottenere l’assegnazione della casa per la madre è concreta, visto che, presumibilmente, in base all’età dei bambini, sarà scelta come genitore collocatario.

7) Se alla signora viene assegnata la casa dei suoceri, direi di no. Tuttavia, si segnala la sentenza Cass. Civ. Sez. III 7 luglio 2010 n. 15986 con cui è stata riconosciuta ai suoceri proprietari la possibilità di ottenere la restituzione della casa già assegnata.
In questo caso, ovviamente, dovendosi assicurare una casa ai figli, potrebbero emergere problemi di dover sostenere un affitto sia per il genitore collocatario che per l’altro.

Riassumendo, suo cugino ha concrete possibilità di ottenere l’affido condiviso, seppur con collocamento dei bambini presso la madre, ma non l’assegnazione della casa che segue sempre e solo i figli.
Sulle obbligazioni patrimoniali mi riporto a quanto detto sopra.

È superfluo sottolinearLe che ogni storia è un caso a sé e va approfondito nella sua peculiarità.

Siamo liberi di donare a chi vogliamo ciò che vogliamo? La libertà dell’individuo cede il passo ai vincoli familiari giuridicamente rilevanti

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Pubblicato sul sito www.7giorni.info

Egregio Avvocato,
sono un italiano separato da diversi anni da mia moglie italiana (mi sono separato consensualmente il 18/07/2005 e la separazione è stata omologata il 03/11/2005). Attualmente risiedo in Bulgaria presso la nuova compagna che mi ha ospitato e mi assiste in tutto, causa le mie disastrate condizioni economiche sopraggiunte dopo la separazione. Ho un’abitazione in comunione di beni con la ex moglie e sto tentando invano di ottenere la divisione dei beni e messa in vendita della casa tramite tribunale. Le procedure sono estremamente lunghe ed io devo lasciare un segno di riconoscenza a questa nuova compagna cui devo realmente la vita. Infatti, colto da una peritonite in stato avanzato, costei si è prodigata in mille modi, e subito mi ha trasportato al pronto soccorso di un ospedale in Bulgaria presso il quale nel giro di poco tempo sono stato operato e salvato in extremis. Fatta questa cronistoria, vorrei donare o vendere e donare (non so quale termine usare), al di lei figlio che vive in Italia, la mia quota (50%) della casa. È fattibile? La casa da donare è la casa coniugale, e della quale non riesco ad entrarne in possesso; attualmente è occupata da mia moglie e da mio figlio, ai quali si è aggiunta a mia insaputa e non so da quando, anche una mia figlia sposata con la sua bambina. Non mi è dato di sapere dove attualmente si trovi il coniuge di  mia figlia (credo comunque che trattasi di uno stratagemma per impedirmi qualche azione legale). Non sono a conoscenza se mio figlio lavora. Prima che mi separassi, avevamo una ditta condotta da me e da mia moglie. Tutt’ora quella ditta esiste, in quanto la vedo sulle pagine bianche della mia città, ma non so se è cointestata ad entrambi oppure ad uno solo dei due. Potrei tentare di conoscere lo stato lavorativo di mio figlio, tramite il CAF, facendo un’indagine presso l’INPS e vedere se ha contributi. Ma non so fino a che punto potrei ottenere un valido risultato. Questo figlio non è stato affidato a nessuno dei due in modo specifico.
Inoltre, posso fare il rogito presso un notaio qui in Bulgaria dopo aver effettuata, tramite traduttori ufficiali, la trascrizione del mio desiderio di trasferire a questa persona la mia quota? Per essere completo, aggiungo che ho tre figli tutti maggiorenni, di cui due femmine sposate ed un maschio nato nel 1984 non ancora sposato, ma che vive con la madre nella casa coniugale, che peraltro in fase di separazione consenziente è stata assegnata a me, ma non riesco ad entrarne in possesso. In ultimo oso chiedere: devo avvisare i miei familiari di questa decisione, nel caso possa fare questa donazione, oppure effettuarla senza preventiva informazione?
Roberto

Gentile Sig.  Roberto,
dalla lettura della sua lettera, è evidente che il suo desiderio di trasferire la quota del 50% della casa coniugale in favore del figlio della sua attuale compagna nasce dalla gratitudine e affetto che nutre nei confronti  del nuovo nucleo familiare che ha formato dopo la separazione del 2005.

Un desiderio che sarebbe possibile realizzare attraverso una donazione, e cioè l’istituto disciplinato dagli artt. 769 e seguenti del Codice Civile attraverso il quale – per spirito di liberalità, appunto – una parte arricchisce un’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto: è il solo strumento giuridico di trasmissione a titolo gratuito di beni da parte di un soggetto vivente e si distingue dal testamento che non produce effetti se non alla morte del suo autore.

Si tratta, comunque, a tutti gli effetti, di un contratto, cioè un accordo fra chi fa il dono e chi lo riceve, motivo per cui l’accettazione di quest’ultimo è necessaria e va manifestata o contestualmente alla dichiarazione di volontà del donante, caso in cui viene inserita nell’atto stesso di donazione, ovvero successivamente.

È doveroso, tuttavia, tenere ben presente che, in entrambi i casi, la volontà  delle parti coinvolte deve essere manifestata dinanzi ad un Pubblico Ufficiale (un Notaio o anche un Console per quanto si dirà a breve) e venire cristallizzata in un atto pubblico sotto pena di nullità.
Quindi, nel caso in cui l’accettazione della donazione da parte di chi la riceve avvenga successivamente, dovrà essere inserita in un ulteriore atto pubblico posteriore che, poi, sarà necessario anche notificare al donante.
In questa ipotesi di “accettazione postuma”, la notificazione costituisce requisito indispensabile per la perfezione del contratto che, prima, non potrà considerarsi ancora concluso  (Cfr. art. 782 del Codice Civile e Cass. 14.03.1977 n. 1026).

Come può ben immaginare, per contenere le spese, è sempre preferibile che l’accordo si perfezioni in un unico momento, quindi,  nell’ipotesi di cui si discute,  alla presenza sua e del figlio della sua compagna.

Come potrà verificare personalmente, presso il Consolato italiano a Sofia in Bulgaria, a cui Le suggerisco di rivolgersi per avere maggiori e più puntuali informazioni (https://www.ambsofia.esteri.it), è presente un Ufficio Notarile deputato a ricevere gli atti fra vivi e quelli di ultima volontà, a curare il loro deposito e a rilasciarne copie ed estratti, etc., più in generale, a prestare assistenza ai cittadini italiani residenti, in via permanente o temporanea, all’estero.

Naturalmente, non sarebbe costretto ad informare i suoi figli e la sua ex moglie della sua decisione, anche se, necessariamente, ne verrebbero a conoscenza visto che il figlio della sua compagna si troverebbe a dover gestire il bene in comune con questi stessi soggetti quanto alle spese di manutenzione, solo per citare un esempio, ovvero per provvedere alla quota di IMU di sua spettanza al 50%.

Mi corre, tuttavia, l’obbligo, per completezza, di farLe presente che sussistono dei rischi non indifferenti ad un’operazione di tal sorta, nonché il concreto pericolo che, in realtà, la sua iniziativa non porti alcuna utilità alla persona che vorrebbe beneficiare.

Il nostro ordinamento, infatti, consente a ciascuno di noi di disporre, nel modo che riteniamo più opportuno, dei nostri beni per il periodo successivo alla nostra morte e, anche in vita, di donare a chi vogliamo i nostri beni, purché, tuttavia, non vengano lesi i diritti che la legge assicura ai congiunti tassativamente indicati dalla legge stessa.
La quota che la legge riserva inderogabilmente a costoro (designati tecnicamente con il nome di legittimari o riservatari o successori necessari) si chiama, appunto, “quota di legittima” o “riserva“.
Nel suo caso, ad oggi, tali soggetti sarebbero i suoi tre figli, nonché la sua ex coniuge – che manterrà i propri diritti successori fino all’eventuale divorzio – e la quota di patrimonio che spetterebbe loro sarebbe di un ½ in favore dei suoi figli (da dividere per tre) e ¼ in favore della sua ex coniuge.
Mentre se, nel frattempo, dovesse decidere di divorziare, la quota diventerebbe di 2/3 (da dividere per tre) solo per i suoi figli.

Riassumendo e al di là di queste indicazioni di carattere generale, qualora il suo patrimonio si risolvesse solo nella casa coniugale di cui mi ha scritto, tenga bene a mente che il figlio della sua compagna, in un futuro, potrebbe subire, entro un termine di prescrizione che secondo la maggior parte della giurisprudenza, è di dieci anni dall’apertura della successione, una c.d. “causa di riduzione” da parte dei ridetti legittimari, qualora, appunto, gli stessi denunciassero, una lesione della quota che la legge riserva loro: un’azione, che, se accolta, porterebbe il figlio della sua compagna a dover restituire quanto ricevuto in donazione o parte di esso, secondo regole complicate e molto tecniche, che, in questa sede, non vale la pena di approfondire.

Un problema che non potrebbe superare neppure effettuando il trasferimento ad una cifra simbolica, e, così, ponendo in essere un atto che, formalmente, non ha lo schema della donazione.
Si pensi, ad esempio, all’ipotesi di una vendita ad un prezzo nettamente inferiore al valore della cosa: in tal caso, tecnicamente si avrebbe un negozio misto, che rientrerebbe nelle c.d. “donazioni indirette” a cui il nostro Legislatore, trattandosi sempre di una liberalità, in quanto arricchisce chi la riceve e diminuisce il patrimonio di chi la fa, ha esteso alcune regole materiali proprie della donazione, fra cui, appunto, quella della tutela della quota di legittima di cui si è detto poc’anzi (Cfr. art. 809 del Codice Civile).

Inoltre, connesse a questo tipo di operazione, ci sarebbero delle complicazioni considerevoli anche dal punto di vista pratico.

Come ha segnalato nella sua missiva, al momento, lei è proprietario del 50% di un bene ancora indiviso  e oggetto di un procedimento, di cui, in ogni caso, anche nell’ipotesi in cui decidesse di trasferire ad altri il proprio diritto dovrebbe partecipare sino alla sentenza.

Di conseguenza, oggi, il figlio della sua compagna non potrebbe trarre da tale donazione alcuna utilità, non potendo praticamente disporre del bene se non alienando a sua volta a terzi la stessa quota, che, tuttavia, come può immaginare, sarebbe difficilmente commerciabile, trattandosi di metà di una casa abitata.

Inoltre, naturalmente, la condizione presente in separazione secondo la quale la casa coniugale di cui si tratta sarebbe stata assegnata a Lei, giammai, potrebbe essere sfruttata da parte di un terzo.

Tra l’altro, mi permetto, in proposito,  di aprire una brevissima parentesi per riferirLe che comprendo bene le sue difficoltà di dare esecuzione ad una condizione di tal sorta, vista la contraddittorietà dell’accordo di separazione nel suo insieme rispetto alla realtà dei fatti che mi ha raccontato.

Nel provvedimento che mi ha cortesemente messo a disposizione, infatti, il Tribunale ha stabilito, sì, che la casa venisse assegnata a Lei, ma ha previsto anche che il suo terzo figlio maggiorenne, ma ancora non economicamente indipendente vi vivesse – si presume – insieme a Lei, mentre da quanto mi scrive, oggi, vi abita con la madre.

Orbene, la giurisprudenza, soprattutto a seguito della L. 54/06, è per lo più concorde nel ritenere che “l’assegnazione della casa coniugale postula l’affidamento dei figli minori ovvero la convivenza con i figli maggiorenni non ancora autosufficienti” (Cass. Civ. sez. I, 22 novembre 2012 n. 23591).

Se si considera tale insegnamento unitamente alla circostanza per cui, da quanto si evince dalla sua missiva, Lei ha lasciato l’Italia e la sua casa già da diverso tempo, per la sua ex moglie sarebbe molto semplice ottenere una modifica delle condizioni di separazione che rispecchi la realtà effettiva delle cose, e cioè il fatto che il figlio non autosufficiente – che, lo ripeto, costituisce l’unico criterio per l’assegnazione della casa – vive con lei.

Ciò che, però, potrebbe fare, è decidere di chiedere il divorzio.
Questa iniziativa, farebbe cessare definitivamente tutti gli effetti del suo matrimonio; inoltre, potrebbe consentirLe, nell’ipotesi in cui suo figlio nel frattempo sia divenuto autonomo economicamente ovvero non lo sia ma per sua colpa, che questa circostanza venga acclarata dal Tribunale che, a qual punto, non dovrebbe assegnare a nessuno dei due l’immobile, rendendolo certamente più appetibile in una futura vendita: badi bene, infatti, che l’assegnazione della casa costituisce un diritto opponibile a terzi, e, pertanto, rappresenta un deterrente non indifferente per un potenziale acquirente.

In conclusione, per rispondere al suo quesito, forse, allo stato delle cose, sarebbe preferibile attendere l’esito della causa di divisione e, poi, decidere il da farsi una volta ottenuta la divisione materiale del bene, se possibile, ovvero il corrispettivo della vendita all’asta. Le suggerisco, altresì, nel frattempo di approfondire la situazione relativa alla raggiunta autosufficienza o meno di suo figlio ed assumere le iniziative conseguenti, nonché valutare- per tutto quanto sopra spiegato – l’ipotesi del divorzio.

Al momento, potrebbe, in ogni caso, tutelare i suoi cari, e così la sua attuale  compagna e il di lei figlio, con una scrittura privata datata, redatta e sottoscritta di suo pugno, in cui manifesta quelli che sono i suoi desideri relativamente i suoi beni, che potrebbe affidare alle cure di una persona di fiducia, ovvero rivolgendosi all’Ufficio Notarile di cui si è detto per ottenere informazioni specifiche in tal senso.
In tal modo, qualunque cosa dovesse succedere, fermo restando quanto detto circa i diritti dei suoi figli e della sua ex coniuge, avrebbe la possibilità di far rispettare le sue volontà.

Contratto di lavoro a progetto: quando è consentito? Quali le conseguenze di eventuali abusi?

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Egregio Avvocato,
sono titolare di una ditta che si occupa di installazione e manutenzione di impianti idraulici. La ditta ha assunto con contratto a tempo indeterminato due operai. In occasione di un appalto importante, ho inserito nello staff anche un altro collaboratore, con il quale però è stato concordato un contratto di collaborazione a progetto di sei mesi, successivamente proseguito per altri sei mesi perchè i lavori appaltati sono continuati. Al termine dei lavori dell’appalto importante è cessata anche la collaborazione con l’operaio che aveva firmato il contratto a progetto perchè non avevo più bisogno del suo aiuto. Circa una decina di giorni fa l’operaio mi ha inviato una lettera nella quale sostiene che non esisteva un progetto e che quindi lui è sempre stato dall’inizio mio dipendente a tempo indeterminato. È vero quanto sostiene l’operaio? Sono davvero costretto ad assumere alle mie dipendenze questa persona? Cosa rischio anche dal punto di vista economico?
Mario

Gentile Signor Mario,
mi è gradita l’occasione di prestare riscontro alla Sua gentile domanda per presentare a Lei e a tutti i lettori di 7giorni una collaboratrice del mio studio, che mi ha affiancato nell’esaminare quanto da Lei esposto. Si tratta dell’avv. Ilaria Donini specializzata in materie giuslavoristiche e in merito alle cui competenze potrà leggere nel dettaglio accedendo al sito web dello studio www.studiolegalelucente.it.

Per quanto concerne la vicenda da Lei riferita e attinente la richiesta di un ex collaboratore a progetto di essere assunto con contratto di lavoro a tempo indeterminato sin dall’origine del rapporto lavorativo, Le segnalo che per valutare se sussiste in concreto tale rischio è necessario analizzare la questione sotto due profili. La genuinità del contratto di lavoro a progetto stipulato con il collaboratore, infatti, dovrà essere presa in esame sia dal punto di vista formale (esistenza dei requisiti richiesti dalla Legge per la validità del contratto a progetto), sia sotto il profilo sostanziale (modalità concrete di svolgimento del rapporto).

Innanzitutto è bene chiarire che nel nostro ordinamento il contratto di lavoro individuale di natura subordinata a tempo pieno e indeterminato, in virtù del quale sorge il rapporto di lavoro, costituisce la regola. Il legislatore permette di ricorrere ad altre tipologie contrattuali solo in ipotesi tassative e in presenza di determinati requisiti. Il contratto di collaborazione coordinata e continuativa a progetto rappresenta un rapporto di tipo parasubordinato, ossia non riconducibile né al lavoro dipendente né al lavoro autonomo, ed è disciplinato dagli artt. 61-69 del D.Lgs 276/2003 c.d. Legge Biagi. Dopo l’entrata in vigore della citata Legge, il Ministero Del Lavoro ha poi provveduto con una serie di Circolari n. 1/2004, n. 17/2006 e n. 4/2008 a fornire indicazioni in ordine alla disciplina sostanziale del contratto di collaborazione coordinata e continuativa a progetto.

La tipologia contrattuale delle collaborazioni coordinate e continuative anche nella modalità a progetto si caratterizza perché consente al committente (quindi in questo caso alla Sua azienda) di instaurare un rapporto di lavoro nel quale il collaboratore si impegna a compiere un’opera o un servizio determinati, in coordinamento con l’organizzazione aziendale del committente stesso e secondo le istruzioni di massima ricevute da quest’ultimo. Il contratto ha una durata funzionale alla realizzazione del risultato richiesto. La scelta delle modalità di adempimento della prestazione spetta al collaboratore che opera in autonomia in funzione del risultato da raggiungere. Oggetto della collaborazione può essere sia una attività di natura intellettuale sia una attività di tipo manuale (come – presumo – nel caso che La riguarda).

Il contratto di lavoro a progetto si differenzia quindi dal lavoro dipendente (in quanto non sussiste alcun vincolo di subordinazione), dal lavoro autonomo (inteso come esercizio di una professione) e dall’attività imprenditoriale (perché manca la tipica organizzazione di mezzi). I vantaggi di questa tipologia contrattuale sono rappresentati dalla flessibilità, dal recesso senza obbligo di preavviso e senza il vincolo del lavoro subordinato e dal minor onere contributivo; il vincolo è invece rappresentato dalla circostanza che la collaborazione deve essere ricondotta ad uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di essi, determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con l’organizzazione aziendale del committente.

Dunque, dal punto di vista formale, per aversi un contratto a progetto valido e conforme ai dettami di cui al d.lgs. 276/2003, lo stesso deve essere stipulato per iscritto, deve indicare la durata, il corrispettivo e i criteri per la sua determinazione e deve contenere l’individuazione e la descrizione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fasi di esso. Il progetto deve essere individuato nel suo contenuto caratterizzante e illustrato per iscritto. Inoltre nel contratto a progetto devono essere indicati i tempi e le modalità di pagamento del corrispettivo, la disciplina dei rimborsi spese, le modalità di coordinamento del lavoratore a progetto al committente sulla esecuzione temporale, le eventuali misure per la tutela della salute e la sicurezza.

Mancando una adeguata individuazione del progetto, programma di lavoro o fase di esso, o di altri elementi idonei, ne deriva che il rapporto instaurato tra le parti deve considerarsi (e cioè, più propriamente, deve presumersi) subordinato: la collaborazione si presume lavoro subordinato a tempo indeterminato fin dalla data di costituzione del rapporto. Tuttavia tale presunzione prevista dall’art. 69 del d.lgs. 276/2003 è relativa e non assoluta. Ciò significa che, pur mancando il progetto, la conversione in rapporto di lavoro subordinato non opera automaticamente, dovendosi consentire al committente la prova contraria, avente ad oggetto la dimostrazione dell’autonomia della collaborazione. In mancanza del progetto si determina lo spostamento a carico del committente dell’onere di provare che il rapporto di lavoro si è svolto con modalità proprie del lavoro parasubordinato.

Dunque nel caso che ci occupa, nell’ipotesi in cui il contratto da Lei stipulato con l’ex collaboratore non presentasse dal punto di vista formale i requisiti richiesti dalla Legge, Lei dovrà dimostrare che comunque le modalità concrete di svolgimento del rapporto instaurato con l’ex collaboratore presentano gli elementi di autonomia tipici delle collaborazioni coordinate e continuative. In particolare, Lei dovrà dimostrare che l’attività fornita dall’ex collaboratore era legata ad un risultato finale predeterminato che ne delimitava l’ambito di svolgimento; che l’ex collaboratore era indipendente e non era soggetto al suo potere gerarchico e disciplinare perché non era inserito organicamente nel contesto aziendale (ad es. non era tenuto ad osservare un determinato orario di lavoro, aveva la massima libertà di muoversi, organizzarsi, stabilire le sue modalità e tempistiche di lavoro in piena autonomia privo di controllo, con il solo necessario dovere di coordinarsi con l’attività della azienda). Lei dovrà provare che non impartiva ordini e direttive all’ex collaboratore, ma aveva fornito allo stesso solo delle direttive di massima, dovrà dimostrare di essersi avvalso dell’attività del collaboratore esclusivamente per ottenere il risultato finale concordato e di non averlo utilizzato per molteplici generiche attività estranee al risultato finale, nonché di aver concordato un corrispettivo fisso e non legato al numero di ore lavorate.

Nel caso in cui Lei non riuscisse a dimostrare che la collaborazione si è svolta con i caratteri di autonomia richiesti dalla Legge, il contratto di lavoro a progetto da Lei stipulato con il collaboratore si trasformerebbe sin dall’inizio in contratto di lavoro subordinato corrispondente alla tipologia negoziale di fatto realizzatasi tra le parti. Dal punto di vista economico le conseguenze della riqualificazione del rapporto comporterebbero anche la riqualificazione dei compensi erogati al collaboratore come “retribuzione” e farebbero sorgere in capo al collaboratore, nel caso in cui il compenso di fatto percepito sia inferiore al minimo tabellare del CCNL di riferimento per la relativa categoria di inquadramento, il diritto a percepire eventuali differenze retributive. Inoltre il lavoratore avrebbe diritto alla regolarizzazione della propria posizione contributiva, infatti a seguito della riqualificazione Lei sarebbe tenuto a versare all’INPS la contribuzione sociale nella misura dovuta per il lavoro subordinato. A tali somme vanno aggiunte le sanzioni per evasione contributiva, calcolate sulla base dell’ammontare dei contributi omessi. La contribuzione va versata, anche per la quota parte del lavoratore, dal datore di lavoro, senza diritto a trattenere tale quota. Se il rapporto riqualificato è ormai cessato, come nel caso del Suo ex collaboratore, vi sono ulteriori conseguenze: il lavoratore avrà diritto al TFR e alle altre spettanze di fine rapporto. Il recesso del committente deve obbedire a tutti i requisiti formali e sostanziali prescritti dalla legge per i lavoratori subordinati e, dunque, se non è sorretto da giusta causa, il lavoratore avrà diritto, ad esempio alla indennità di preavviso e, in caso di recesso illegittimo, alla tutela obbligatoria (in quanto la Sua azienda occupa meno di 15 dipendenti). In forza di quanto disposto dall’art. 50 della Legge 183/2010 Lei potrebbe evitare di subire le pesanti conseguenze della riqualificazione e sarebbe tenuto ad indennizzare il lavoratore con un’indennità di importo compreso tra 2,5 e 6 mensilità di retribuzione, solo se offrisse al collaboratore l’assunzione a tempo indeterminato per mansioni equivalenti a quelle svolte nel rapporto di lavoro precedentemente in essere.

Infine, nella Sua lettera, Lei fa anche riferimento ad una proroga di ulteriori sei mesi del contratto a progetto inizialmente stipulato con l’ex collaboratore. A tale riguardo Le segnalo che quando il termine indicato nel contratto per la realizzazione del progetto si rivela insufficiente, e perdura l’interesse del committente alla realizzazione del progetto stesso, è possibile prorogare, con il consenso di entrambe le parti, la durata del contratto. È possibile inoltre stipulare con lo stesso collaboratore contratti di lavoro successivi, aventi per oggetto un progetto o un programma di lavoro, con contenuto analogo o del tutto diverso. Tuttavia i rinnovi, così come i nuovi progetti in cui sia impiegato lo stesso collaboratore non devono costituire strumenti elusivi della disciplina prevista dagli artt. 61-69 del D.Lgs 276/2003, ciò significa che ciascun lavoro a progetto, autonomamente considerato, deve presentare i requisiti prescritti.

Ciò premesso, Signor Mario, nel caso che ha prospettato, sarà necessario accertare se il contratto a progetto stipulato con l’ex collaboratore e la successiva proroga presentano i requisiti prescritti dalla Legge, nonché sarà necessario verificare se il rapporto instaurato è genuino dal punto di vista sostanziale. In caso affermativo l’ex collaboratore non potrà senz’altro rivendicare la natura subordinata del rapporto ab origine.

Beghe condominiali! Cos’è un fondo di morosità?

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Egregio Avvocato,
chiedo gentilmente un parere legale su quanto segue:
Ho acquistato un appartamento da qualche giorno. Gli amministratori condominiali mi informano di quanto accaduto qualche anno fa: tutti i condomini hanno sborsato una cifra di circa 500 euro per costituire un fondo cassa per far fronte alle spese condominiali arretrate di un condomino moroso, verso il quale è stata aperta una azione legale per recuperare appunto la cifra da tutti anticipata.
Mi dicono che in teoria la cifra dovrebbe essere recuperata, ma in tempi piuttosto lunghi (5/6 anni) e sempre che l’inquilino non perda il lavoro e continui a pagare. Io che ho acquistato l’appartamento, sono obbligata a liquidare tale somma alla proprietaria uscente? Per poi rimanere coinvolta in una situazione della quale non so niente e che non ho scelto?
L’amministratore sostiene che generalmente il compratore si accolla tutti i sospesi del venditore, ma poi dice che deve essere un accordo preso tra me e il vecchio proprietario, quindi, cosa dice veramente la legge? Mi sembra stupido accollarmi tale sospeso, a meno che non sia obbligata a farlo.
Ringrazio anticipatamente per un eventuale gentile suggerimento.

Gent.le lettrice,
il c.d. fondo di morosità è stato ritenuto lecito dalla Corte di Cassazione con sentenza 13631/2001.
Trattasi di un fondo speciale destinato a far fronte allo stato di necessità in cui si viene a trovare un Condominio all’or quando, per colpa di uno o più condomini morosi nei pagamenti delle spese, viene aggredito da parte di terzi creditori.
Va istituito attraverso una decisione dell’Assemblea. Nella delibera va espressamente previsto che il fondo abbia una natura provvisoria e che sia “salvo conguaglio”. Altrimenti la decisione sarebbe nulla.
Va evidenziato in bilancio in forma “personalizzata” creando un prospetto ad hoc per cui ad ogni partecipante corrisponde il relativo credito che dovrà essere rimborsato.
L’Amministratore condominiale, infatti, utilizza i soldi del fondo per far fronte alle esigenze di cassa e assume una obbligazione al rimborso all’esito positivo della procedura coattiva di recupero della morosità.

Il condomino che Le ha venduto la casa vanterebbe quindi un credito nei confronti del Condominio se e quando questa somma verrà recuperata.
Orbene, considerate le lungaggini delle ridette procedure di recupero coattivo ed essendo comunque chiaro, per quanto sopra detto, il credito di ciascun condomino che ha messo mani al portafogli, in caso di mobilità dei proprietari (come nel caso da Lei prospettato) sarebbe comunque possibile il rimborso della quota al venditore da parte dell’acquirente che subentrerebbe nella posizione del primo.
È chiaro – e così rispondo alla Sua cortese domanda – che questa decisione deve essere espressione di una autonoma volontà negoziale.
Per cui dovrà risultare la regolarizzazione dei rapporti tra condomino uscente (venditore) e condomino entrante (acquirente) dal rogito notarile. I rapporti obbligatori tra venditore e acquirente sono cristallizzati nell’atto definitivo stipulato dal notaio.
Dalla Sua domanda capisco che  l’atto notarile è stato già fatto, visto che mi sottolinea di aver “acquistato l’appartamento da qualche giorno”.
Ragion per cui ritengo che Lei non debba considerarsi obbligata ad accollarsi tale somma liberando il venditore.

Al momento del ricupero della somma, l’Amministratore provvederà a ridistribuire e ad assegnare al venditore quanto di sua spettanza.

I soldi ricavati dalla vendita di un immobile di proprietà di uno dei due coniugi e depositati su un conto corrente esistente all’atto del successivo scioglimento del matrimonio vanno divisi fra marito e moglie?

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Egregio Avvocato,
scrivo in qualità di studentessa di giurisprudenza, con un dubbio circa la comunione legale. Se l’art. 179 cc fa riferimento al fatto che non rientrano in comunione “i beni acquistati con il prezzo del trasferimento dei beni personali […]” che ne è, invece, dei soldi ricavati dalla vendita di un bene personale? In altri termini, possono i soldi ricavati dalla vendita di un bene personale e depositati presso il conto corrente del singolo coniuge proprietario del bene, essere considerati “frutti” al momento dello scioglimento del matrimonio, ed essere per questo divisi tra i due coniugi laddove residuino sul conto corrente al momento dello scioglimento?
Marina

Gentile lettrice,
per rispondere al quesito che mi ha gentilmente posto, è doveroso, innanzitutto, chiarire che con il termine “frutti civili” di un bene ex art. 820 del Codice Civile si intendono “quelli che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia” (interessi sui capitali, rendite, canoni di locazione, etc.).

In tale categoria, pertanto, non è annoverabile il prezzo di una vendita, che non consiste in qualcosa che il bene dà rimanendo tale, ma che sostituisce il bene stesso.

Pertanto, certamente, non sarebbe corretto qualificare il corrispettivo per il trasferimento di un bene un frutto ex art. 177 lett. b), oggetto di comunione legale.

La sua domanda, in ogni caso, presenta degli spunti interessanti e si inserisce fra quei (numerosi) quesiti che la quotidianità ci pone, ma che non trovano risposte immediate nei codici ovvero, più in generale, nella normativa vigente.

Per questo nonostante il nostro, come ci insegnano all’università, sia un paese di civil law , quindi, basato su un diritto scritto, il ruolo svolto dalla giurisprudenza per colmare i naturali vuoti normativi è fondamentale, anche se, talvolta, può offrire svariate soluzioni al medesimo problema.

Con riferimento al caso che ha sottoposto alla mia attenzione, mi permetto di suggerirLe la lettura della sentenza della Corte di Cassazione, sez. I, 20 gennaio 2006 n. 1197, che, prendendo le mosse da un decisione assunta in sede penale ha precisato: “Vero è che una pronuncia della Corte di Cassazione penale (sentenza 13 novembre 1997; depositata il 23 gennaio 1998; Airoldi) ha statuito che [“anche il denaro depositato in un istituto bancario è oggetto della comunione in via assoluta al sensi dell’art. 177 c.c., comma 1, lettera c), senza che possa ammettersi una prova contraria a norma dell’art. 195 cod. civ., ultima parte, sia che provenga dall’attività di uno solo dei coniugi sia che provenga dalle singole attività dei due coniugi”], ritenendo di conseguenza legittimo il provvedimento di sequestro conservativo avente ad oggetto la metà dei valori esistenti in conti correnti e depositi intestati esclusivamente al coniuge dell’imputato. Ma la giurisprudenza dalla Cassazione civile segue un indirizzo diverso. La sentenza della 5^ Sezione 1 aprile 2003, n. 4959 – sulla premessa che [“la comunione legale tra coniugi di cui all’art. 177 cod. civ. riguarda gli acquisti, vale a dire gli atti implicanti l’effettivo trasferimento della proprietà di un bene o la costituzione di diritti reali sullo stesso, non quindi i diritti di credito sorti dal contratto concluso da uno dei coniugi, i quali, per la loro natura relativa e personale, pur se strumentali e finalizzati all’acquisto di un bene, non sono suscettibili di rientrare in una comunione legale dei beni” – ha escluso che possa comprendersi nella comunione legale dei beni il contratto di conto corrente concluso con la banca dal coniuge intestatario, essendo detto contratto “fonte, a seguito di saldo attivo, di un diritto di credito spettante esclusivamente a quest’ultimo”]. Ritiene configurabile una comunione de residuo, ai sensi dell’art. 177 c.c., comma 1, lettera a), sui redditi depositati su conto corrente (nella specie, cointestato), Cass., sez. 10, 17 novembre 2000, n. 14897, la quale conferma la decisione di merito che aveva considerato rientranti nella comunione de residuo le somme depositate sul conto cointestato, ritirate prima della separazione ed asseritamente utilizzate per l’attività di impresa del coniuge prelevante. Più di recente, questa Sezione (con la sentenza 27 aprile 2004, n. 8002) ha precisato che [“il regime di cui all’art. 177 cod. civ. viene in realtà ad indirizzarsi sui soli acquisti di beni e non viene ad inerire, invece, all’instaurazione di rapporti meramente creditizi, i quali, ove mai fatti oggetto di cointestazione nell’ambito di un conto corrente bancario, non esorbitano dalla logica di un tal tipo di rapporti e non conoscono, quindi, alcuna preclusione legata al preventivo scioglimento della comunione legale coniugale”]; e, sulla base di queste premesse, ha statuito che: “il denaro ottenuto a titolo di prezzo per l’alienazione di un bene personale rimane nella esclusiva disponibilità del coniuge alienante anche quando esso venga, come nella specie, dal medesimo coniuge depositato sul proprio conto corrente. Questa titolarità non muta in conseguenza della mera circostanza che il denaro sia stato accantonato sotto forma di deposito bancario, giacché il diritto di credito relativo al capitale non può considerarsi modificazione del capitale stesso, ne è d’altro canto configurabile come un acquisto nel senso indicato dall’art. 177 c.c. comma 1, lettera a), cioè come un’operazione finalizzata a determinare un mutamento effettivo nell’assetto patrimoniale del depositante“.

Concludendo, e riassumendo in poche parole l’insegnamento della Cassazione Civile, la risposta alla sua domanda è: no.